Sul tradurre in inglese l’italiano
Un esperto traduttore americano spiega che il difficile non sono le lingue diverse: sono i mondi diversi
Antony Shugaar è un traduttore statunitense con una lunga esperienza nella traduzione di testi italiani in inglese: ha tradotto diversi libri di Primo Levi e più di recente Resistere non serve a niente di Walter Siti e Il metodo del coccodrillo di Maurizio De Giovanni. In un articolo sul New York Times ha raccontato i tempi dei suoi primi lavori da traduttore in Italia e le difficoltà e i problemi più comuni in cui si imbattono i traduttori di lingua inglese quando hanno a che fare con dei testi scritti in italiano.
All’inizio degli anni Ottanta Shugaar si trasferì a Milano e lavorò per un po’ di tempo nella rivista italiana d’arte FMR, acronimo dell’editore Franco Maria Ricci: gli uffici si trovavano all’interno del sontuoso Palazzo Visconti di Modrone, e un paio d’anni dopo l’uscita in Italia FMR cominciò a essere pubblicata anche negli Stati Uniti (con uno slogan piuttosto ambizioso, ricorda Shugaar: “la più bella rivista del mondo”, secondo una definizione che veniva da Jacqueline Kennedy, amica di Ricci).
Per la traduzione dei testi della rivista Ricci si affidò a William Weaver, uno dei più noti e apprezzati traduttori dall’italiano all’inglese, che visse a lungo in Italia e che all’epoca aveva da poco tradotto Il nome della rosa di Umberto Eco (Weaver tradusse anche Svevo, Calvino, Zavattini, Moravia, Montale e altri grandi autori della letteratura italiana). Nel suo pezzo per il New York Times Shugaar cita alcune piccole e grandi lezioni che in quegli anni apprese da Weaver, che considera uno dei suoi grandi maestri e al quale è in parte dedicato il suo ricordo (Weaver è morto il 12 novembre scorso, aveva 90 anni).
Tra i testi più lunghi e complessi mai tradotti da Weaver già all’epoca, c’era Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, un romanzo – uscito per il mercato statunitense nel 1965, con il titolo That Awful Mess on Via Merulana: A Novel – che alla complessità della trama univa quella della lingua utilizzata da Gadda. Shugaar chiese a Weaver come si fosse regolato con la traduzione dei numerosissimi dialetti – romano, napoletano e altri – utilizzati da Gadda, e Weaver gli rispose: «Ah be’, li ho tolti». Che nel caso del Pasticciaccio di Gadda, scrive Shugaar, “è come tradurre Moby Dick e togliere le barche”.
Nell’introduzione all’edizione inglese del Pasticciaccio, Weaver scrisse che “tradurre il dialetto romano o veneziano di Gadda nella lingua del Mississippi o delle Isole Aran (Irlanda) sarebbe assurdo come tradurre il linguaggio della famiglia Snopes dei romanzi di Faulkner in siciliano o in gallese”. Piuttosto aveva preferito tradurre quelle parti in un inglese parlato, chiedendo esplicitamente al lettore – nell’introduzione – lo sforzo di immaginare che quelle parole fossero pronunciate dai protagonisti in uno dei tanti dialetti italiani o in un miscuglio di dialetti differenti.
Nel lavoro di un traduttore casi del genere sono molto frequenti e racchiudono una difficoltà ineliminabile, di fronte alla quale il traduttore – scrive Shugaar, commentando quella scelta di Weaver – sostanzialmente si rassegna e rinuncia, che è un po’ come “perdere un paziente”. Sebbene negli Stati Uniti sia pratica piuttosto comune tradurre, ad esempio, il dialetto siciliano nel dialetto di Brooklyn – e Shugaar cita il caso di Stephen Sartarelli, traduttore inglese dei libri di Andrea Camilleri sul commissario Montalbano – secondo Shugaar si tratta di una scelta comprensibile ma “assurda”, esattamente come la convenzione americana di dare un accento inglese ai soldati tedeschi nei film ambientati durante la seconda guerra mondiale.
Un esempio cinematografico recente di grande successo, Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, presentava un caso ancora più complesso (ma gli spettatori italiani hanno perso anche l’accento a momenti inglese – assai rilevante nella trama – della protagonista di American Hustle). La produzione americana si trovò di fronte alla necessità di prendere una decisione riguardo alle tre lingue diverse dall’inglese parlate nel film, e anche in quel caso una sostanziale “rinuncia” finì per diventare uno dei maggiori pregi del film: le parti recitate dagli attori in francese, tedesco e italiano non furono doppiate in inglese – magari con accenti particolari, come nei casi citati da Shugaar – e nelle sale americane quelle parti furono sottotitolate.
Tornando ai libri, spessissimo è come se la traduzione richiedesse delle spiegazioni ulteriori per un lettore inglese, dice Shugaar, e fa una serie di esempi: se un autore italiano scrive di un tale che si ferma in un autogrill in autostrada, un lettore italiano immagina immediatamente di che luogo stiamo parlando – “questi piccoli negozi in stile anni Sessanta sparsi lungo l’autostrada da dove si vedono sfrecciare auto a 150 all’ora” – ma un lettore inglese lo immagina diversamente. Oppure, ancora: se un autore italiano scrive di uno che cade con “la faccia sull’asfalto” (“face-down onto the asphalt”), un lettore italiano capisce che può essere un marciapiede, e non una strada. Anche solo tradurre una scena normalissima in cui due persone entrano in un ristorante, prosegue Shugaar, presenta la difficoltà di dover tenere a mente che in Italia il più delle volte le porte degli edifici pubblici si aprono verso l’interno, non verso l’esterno come avviene negli Stati Uniti (per ragioni di sicurezza).
E poi ci sono altre difficoltà propriamente lessicali: “casa” in inglese è “house”, ma per gli italiani di solito si riferisce a un appartamento, e può essere anche un palazzo. Non solo: in Italia il primo piano di un palazzo è quello in cui ti trovi dopo aver salito una rampa di scale, mentre negli Stati Uniti quello sarebbe il “second floor” (“first floor” è piano terra). Infine ci sono dei casi paradossali – e anche vagamente comici – in cui certe espressioni suonano strane anche al traduttore: Shugaar scrive che uno dei suoi avvisi italiani preferiti – che a volte gli è capitato di trovare nei libri e di dover tradurre – è quello utilizzato dagli addetti comunali quando è in programma la pulizia stradale, per indicare il divieto di parcheggiare sia lungo le strade “sia sui marciapiedi”, da cui Shugaar deduce che in Italia i marciapiedi sono quindi considerati anche area di parcheggio per le macchine.
È per tutti questi motivi che tradurre richiede non soltanto particolare attenzione ma anche parecchio tempo e indagini “sul territorio”, spiega Shugaar: in una giornata di lavoro intensa, andando veloce, si riescono a tradurre 10-15 pagine di un libro. Ma tradurre è come “camminare su un’autostrada, laddove leggere significa guidare a cento all’ora”, e a volte devi fermarti e fare un giro nel panorama intorno.
Shugaar – per capirci sulle difficoltà del tradurre in genere – conclude il pezzo utilizzando un gioco di parole che esiste in inglese ma che è intraducibile in italiano e visto da qui, appunto, fa già molto meno effetto:
Spesso si parla di parole intraducibili (“untranslatable words”), ma in un certo senso non esistono parole intraducibili. Possono servire tre parole, o una frase intera, o un paragrafo aggiuntivo, ma qualsiasi parola può essere tradotta. A meno di non trasformare un libro in un’enciclopedia, però, non c’è modo di risolvere il problema più grosso: i mondi intraducibili (“untranslatable worlds”).