Non siamo fatti per lo Spazio
Quando ritornano sulla Terra, gli astronauti hanno spesso problemi alle ossa e agli occhi: la NASA continua a studiare le contromisure, anche in vista della possibile futura missione su Marte
di Emanuele Menietti – @emenietti
Dopo essersi guardato intorno con attenzione, Michael R. Barratt si accorse di non riuscire a vedere bene le cose da vicino come gli era sempre riuscito, prima di raggiungere l’orbita terrestre e vivere sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). In poche settimane era diventato presbite e nonostante fosse un medico non riusciva a spiegarsi come fosse potuto succedere. Era il 2009 e tra gli altri ospiti della ISS in quel periodo c’era anche l’astronauta canadese Robert B. Thirsk, un altro medico che iniziava ad accusare gli stessi problemi del suo collega statunitense.
Visto che c’era qualcosa che non andava con la loro salute, e considerato che erano entrambi medici, i due decisero di visitarsi a vicenda per capire che cosa stesse succedendo alla loro vista. Grazie ad alcuni semplici test, scoprirono di avere maturato un difetto simile alla presbiopia e altri inconvenienti, come un lieve rigonfiamento del nervo ottico e la presenza di alcune macchie nel campo visivo, probabilmente dovute a qualche problema alla retina. Comunicarono il loro problema al centro di controllo della NASA sulla Terra, che fece inviare con la prima spedizione di nuovo materiale verso la ISS alcuni strumenti diagnostici per fare una visita più approfondita. Barratt e Thirsk rilevarono uno schiacciamento dei bulbi oculari, probabilmente dovuto alla loro permanenza in un luogo a gravità quasi assente.
Come spiega Kenneth Chang sul New York Times, da allora la NASA ha iniziato a prestare molta più attenzione alla vista degli astronauti, eseguendo verifiche e controlli prima, durante e dopo la loro permanenza in orbita. Il problema, in realtà, era già noto da tempo: diversi astronauti trasportati sugli Shuttle (in pensione da qualche anno) avevano segnalato problemi alla vista. Tornato sulla Terra, Barratt spiegò che il problema dell’improvvisa presbiopia non gli aveva impedito di svolgere il suo lavoro sulla ISS, ma da allora i ricercatori della NASA sono molto più attenti al problema, in prospettiva non solo per tutelare la salute di chi lavora in orbita.
Anche se i piani sono ancora poco chiari e dipendono periodicamente da quante risorse il governo degli Stati Uniti dedica alla ricerca spaziale, la NASA continua ad avere l’ambizione di organizzare una missione con esseri umani su Marte. Uno dei progetti prevede di avviare l’operazione intorno al 2030, ma entro quella data i ricercatori dell’ente spaziale dovranno rispondere a moltissime domande su come reagisce il nostro organismo a vivere per mesi nello Spazio.
Una missione verso Marte avrebbe una durata di almeno due anni e mezzo, in una porzione di Spazio molto più ostile rispetto a quella ravvicinata della Stazione Spaziale Internazionale, protetta da buona parte delle radiazioni spaziali grazie al campo magnetico della Terra. L’uomo che fino a oggi ha trascorso più tempo in orbita è stato il cosmonauta russo Valery Polyakov, che passò complessivamente 438 giorni a bordo della stazione spaziale MIR (ora non esiste più) tra il 1994 e il 1995. La NASA intende compiere qualcosa di simile a partire dalla primavera del 2015, quando un suo astronauta rimarrà in orbita per circa un anno sulla Stazione Spaziale Internazionale.
L’uomo scelto per la missione è Scott J. Kelly, che trascorse già 6 mesi in orbita tra il 2010 e il 2011. Parteciperà al progetto, che serve per valutare le reazioni del fisico a una lunga permanenza in assenza di gravità, anche il cosmonauta russo Mikhail Korniyenko.
La grande esperienza maturata nelle precedenti missioni spaziali non è stato l’unico criterio seguito dalla NASA per selezionare Scott. J. Kelly. L’astronauta ha un fratello gemello che si chiama Mark e che ha partecipato a diversi viaggi spaziali sugli Shuttle (è inoltre il marito della ex parlamentare Gabrielle Giffords, rimasta ferita nella sparatoria di Tucson del 2011). I ricercatori eseguiranno test in parallelo sui due fratelli, che hanno sostanzialmente le stesse caratteristiche, per capire con più precisione che cosa succede al corpo umano in orbita.
Oltre a quello della vista, tra i tanti parametri che saranno analizzati ci sarà la riduzione della densità delle ossa. Una decina di anni fa, i ricercatori della NASA ebbero diverse conferme sul fatto che i loro astronauti tornavano sulla Terra con ossa più deboli, con una riduzione della densità dei tessuti ossei tra l’1 e il 2 per cento per ogni mese di permanenza in orbita. La perdita è dovuta al fatto che in assenza di gravità l’organismo non deve sostenere il proprio peso e quindi, per motivi di risparmio di energie, rallenta e riduce la rigenerazione delle ossa.
Per tenere sotto controllo il problema, da diversi anni la NASA e le altre agenzie spaziali impongono ai loro astronauti di fare ginnastica quando si trovano sulla ISS. Uno degli esercizi più importanti è la corsa sul tapis roulant (tappeto magnetico): i movimenti delle gambe e i piccoli rimbalzi sul tappeto portano l’organismo a produrre nuovi tessuti ossei. È anche prevista la somministrazione di farmaci contro l’osteoporosi per tenere sotto controllo il problema. Questi accorgimenti hanno ridotto notevolmente la perdita di densità delle ossa e in media un astronauta torna sulla Terra come era partito.
Per la scienza dei viaggi spaziali si è trattato di un progresso molto importante per quanto riguarda la salute degli astronauti, ma ci sono un sacco di cose ancora da risolvere e studiare più approfonditamente. Tra queste c’è sicuramente l’insorgenza dei problemi alla vista. I ricercatori ipotizzano che siano causati dalla maggiore pressione del liquido cerebrospinale (il fluido che si trova nel sistema nervoso centrale) verso il cranio dovuta alla assenza di gravità con conseguenze per il nervo ottico. Solo che questa teoria non spiega perché il problema di solito interessa di più l’occhio destro e gli astronauti di sesso maschile.
L’obiettivo delle missioni come quella di Kelly è scoprire quante più cose possibili su cosa accade al corpo quando rimane a lungo nello Spazio. Si ipotizza che la mancanza di gravità inneschi diversi scompensi a livello di alcuni processi biochimici: i ricercatori hanno per esempio scoperto che negli astronauti maschi che maturano problemi alla vista c’è una variazione dell’omocisteina, un amminoacido ritenuto un fattore di rischio cardiovascolare. Non è comunque da escludere che le variazioni di diversi parametri nell’organismo si verifichino nei primi mesi e poi si arrestino, grazie alla capacità del corpo umano di adattarsi alla nuova situazione in cui si trova.
Per risolvere il problema della quasi totale assenza di gravità, che potrebbe essere uno dei problemi più seri per una missione di lungo periodo verso Marte, c’è chi ipotizza di costruire astronavi e stazioni spaziali che girano su loro stesse come una ruota panoramica: la forza centrifuga ricreerebbe in questo modo una gravità artificiale. È uno scenario da film di fantascienza che non convince molto i ricercatori per diversi motivi: sarebbe molto costoso e soprattutto aggiungerebbe ulteriori complicazioni e rischi alle missioni.
La NASA e le altre agenzie spaziali in giro per il mondo devono fare i conti con molti altri potenziali pericoli per la salute dei loro astronauti. Oltre a quelli che abbiamo già visto, ci sono i ricorrenti problemi di vertigine e i rischi dovuti all’esposizione alle radiazioni spaziali, che potenzialmente potrebbero causare tumori. Per i suoi astronauti, la NASA ha stabilito limiti precisi: il rischio di ammalarsi di cancro nella loro vita deve essere mantenuto entro il 3 per cento in più rispetto alla media. Alcuni test di laboratorio suggeriscono che le radiazioni possano anche causare problemi al cervello, al cuore, al sistema nervoso e all’apparato digerente. Molti astronauti dicono spesso di essere comunque disposti a correre rischi più grandi, soprattutto se in cambio viene dato loro la possibilità di compiere nuove missioni spaziali o di essere i primi a raggiungere un giorno Marte.
Ai problemi prettamente fisici, infine, si aggiungono quelli psicologici, ancora più imprevedibili e difficili da affrontare, soprattutto nel corso delle missioni spaziali. Una lunga permanenza nello Spazio può portare a disturbi dell’umore, del sonno, a una maggiore irritabilità e all’incapacità di organizzare lucidamente i propri pensieri. La NASA studierà attentamente le reazioni di Kelly e i rapporti con i suoi compagni di missione durante il suo anno di vita a bordo della ISS.
In un ipotetico viaggio verso Marte, gli astronauti rimarranno isolati dal resto dell’umanità per molto tempo, e avranno una costante e materiale percezione di questa distanza anche durante le comunicazioni con la Terra. Se gli equipaggi delle missioni Apollo negli anni Sessanta e Settanta dovevano fare i conti con un ritardo di 1,3 secondi durante le loro comunicazioni quando erano nei pressi della Luna, gli astronauti su Marte dovranno attendere diversi minuti tra l’invio di una loro comunicazione e la ricezione della risposta dalla Terra, perché i segnali radio dovranno ogni volta farsi un viaggio da 50 a 100 milioni di chilometri a seconda della posizione dei due pianeti..
I quattro o sei astronauti su Marte dovranno essere autonomi e soprattutto in grado di andare molto d’accordo tra loro per un lungo periodo di tempo, riuscendo a lasciare da parte eventuali contrasti. In un esperimento condotto in Russia tra il 2010 e il 2011 è stata simulata la convivenza di sei persone in una astronave (a terra) per 17 mesi. Quattro volontari su sei hanno avuto seri problemi psicologici e nel complesso tutti sono diventati molto meno attivi e motivati, man mano che progrediva l’esperimento. Arrivare realmente su Marte ed essere i primi a farlo sarà probabilmente una motivazione sufficiente per tenere più alto il morale, dicono i ricercatori, ma potrebbe ugualmente succedere di tutto a bordo di una piccola astronave in viaggio per mesi nel vuoto.