Perché tenere d’occhio Kerry
Il suo piano "irruento" per la pace tra Israele e Palestina potrebbe essere un momento di svolta, scrive Thomas Friedman sul New York Times
Il New York Times ha pubblicato martedì 28 gennaio un articolo di Thomas Friedman, importante e conosciuto editorialista statunitense, sulle ultime mosse diplomatiche del segretario di Stato americano John Kerry riguardo al conflitto tra Israele e Palestina. Friedman – che scrive con regolarità di politica estera e che è stato per anni inviato dal Medio Oriente – ha spiegato il piano che Kerry dovrebbe presentare a breve, basato sulla soluzione cosiddetta dei “due Stati”, ovvero la creazione di uno stato palestinese autonomo da quello di Israele.
La tesi di Friedman è che – considerate le peculiarità del momento in cui arriva – il tentativo di Kerry si risolverà necessariamente in una conclusione netta, definita, per certi versi radicale e senza che ci sia poi la possibilità di tornare indietro. Kerry diventerà da un giorno all’altro o colui che salverà diplomaticamente Israele, o il più pericoloso caso di “fanatismo diplomatico” che il governo israeliano abbia mai conosciuto. Le ragioni per cui accadrà una di queste due cose, scrive Friedman, risiedono nel piano che Kerry è pronto a rivelare pubblicamente, elaborato soprattutto nei sei mesi in cui il segretario di Stato americano ha lasciato che israeliani e palestinesi si confrontassero da soli senza mediazioni americane e senza che riuscissero a concludere nulla.
Il piano di Kerry, spiega Friedman, dovrebbe prevedere la fine tout court del conflitto tra israeliani e palestinesi, a cui dovrebbe aggiungersi il ritiro degli israeliani dalla Cisgiordania – sulla base dei confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni del 1967 – e un rafforzamento della sicurezza nella Valle del Giordano. Il piano non dovrebbe prevedere un piano di ritorno dei profughi palestinesi in territorio israeliano e nemmeno lo smantellamento di tutti gli insediamenti in Cisgiordania, ma Israele dovrà pareggiare con altre parti del suo territorio; dovrebbe invece prevedere il riconoscimento della capitale della Palestina a Gerusalemme Est, e l’impegno dei palestinesi a riconoscere Israele come stato nazionale ebraico.
L’obiettivo di Kerry (che è stato molte volte in Israele e ha lavorato molto con entrambe le parti) è presentare il piano al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e al presidente palestinese Mahmoud Abbas, e sperare che venga usato almeno come punto di partenza per successive negoziazioni. L’idea è che i due leader non possano rigettare completamente il piano, a causa di nuove condizioni che si sono venute a creare nella regione e che Friedman individua come centrali nell’elaborazione del piano di Kerry: riguardano per esempio la superiorità relativa di Israele nei confronti degli stati vicini, molti dei quali (Siria, Egitto, Giordania) coinvolti in gravi crisi politiche o umanitarie interne; riguardano la presenza massiccia raggiunta dagli israeliani a Gerusalemme Est e Cisgiordania (si parla di 540mila persone), sempre più difficile da ridimensionare; riguardano lo squilibrio di forze mai così grande tra Israele e Palestina, con la quasi completa sottrazione di Israele alla minaccia degli attentati grazie al Muro, ma anche il predominio demografico, in prospettiva futura, dei palestinesi.
Secondo Friedman le posizioni di Netanyahu verso un piano di questo tipo potrebbero quindi essere possibiliste, o per lo meno non di chiusura totale. Alcuni funzionari statunitensi e israeliani che sono in contatto stretto con lui lo descrivono come “indeciso”. Il dubbio è sempre lo stesso: la soluzione dei due Stati fornirebbe abbastanza garanzie per assicurare l’integrità di Israele e farebbe contento l’Occidente, con cui Israele ha sviluppato rapporti commerciali molto importanti e vitali per l’economia nazionale. Dall’altra parte, come ha detto Netanyahu martedì, il rischio è che Israele contribuisca a creare un altro stato pronto ad attaccarlo.
E qui, scrive Friedman, le cose si faranno interessanti, perché non ci saranno più vie di mezzo:
«Questo perché – nonostante Netanyahu abbia iniziato a preparare il terreno per il piano statunitense – se si va avanti su queste basi, anche se con diverse riserve, la coalizione di governo collasserà. Netanyahu perderà l’appoggio della maggior parte del suo stesso partito, il Likud, e tutti i suoi alleati a destra. In breve, per andare avanti Netanyahu dovrà costruirsi una nuova base politica attorno ai partiti di centro. Per fare questo, Netanyahu dovrebbe diventare, in qualche misura, un nuovo leader – superando la sua innata ambivalenza nel trattare con i palestinesi e diventando il sostenitore più entusiasta in Israele riguardo l’accordo dei due Stati»
A Netanyahu spetterebbe in questo caso compiere un percorso molto difficile: fare un passo alla volta, con grande prudenza, per svincolarsi dall’attuale sistema di alleanze e costruirsene uno nuovo. In pratica, scrive Friedman, il piano di Kerry potrebbe essere un punto di svolta per la politica interna israeliana e il suo successo (anche se non totale, quello lo considera improbabile anche Friedman) potrebbe dimostrare che qualcosa si sta muovendo e che è ancora possibile raggiungere un accordo tra israeliani e palestinesi sulla soluzione dei due Stati. In generale, comunque, l’attuale coalizione di governo è già più spostata verso il centro rispetto a quelle degli ultimi anni: Netanyahu era riuscito a metterla insieme dopo lunghe negoziazioni successive alle elezioni politiche del 22 gennaio, responsabili di avere cambiato diversi equilibri nella politica interna israeliana. Netanyahu aveva trovato un accordo con i centristi del Yesh Atid, il partito del popolare giornalista televisivo israeliano Yair Lapid, i conservatori di HaBayit HaYehudi (“la casa ebraica”), del giovane milionario Naftali Bennet e i centristi del partito Hatnuah (“il movimento”), guidati dall’ex leader del partito Kadima, Tzipi Livni. Erano invece rimasti fuori dal governo gli ultra-ortodossi.
L’altra opzione considerata da Friedman è che il piano di Kerry fallisca, ovvero che né Netanyahu né Abbas siano disposti a seguirlo. In questo caso Kerry avrebbe portato la sua missione diplomatica alla sua logica, e fanatica, conclusione: la fine delle negoziazioni sulla soluzione dei due Stati e la perdita totale della sua credibilità. Se e quando ciò accadrà, scrive Friedman, Israele dovrà convivere con l’isolamento internazionale provocato dall’occupazione permanente della Cisgiordania, oppure, in alternativa, dovrà elaborare un nuovo piano non più basato sulla soluzione dei due Stati ma su quella di uno Stato per due popoli. Friedman conclude: «Ecco a che punto siamo. Israeliani e palestinesi devono capire che la missione di Kerry è l’ultimo treno per negoziare la soluzione dei due Stati. E quel treno sta per passare».