La fine della crisi politica in Tunisia
È stato nominato un nuovo governo ed è stata approvata la nuova Costituzione: il paese è tornato a essere un modello per le "primavere arabe"
Mercoledì il parlamento della Tunisia ha votato la fiducia al nuovo governo tecnico guidato dal primo ministro Mehdi Jomaa, incaricato di portare il paese verso le prossime elezioni generali previste per la fine del 2014. Il voto di fiducia segue di soli tre giorni l’approvazione della nuova Costituzione, di cui si è parlato molto anche sulla stampa occidentale, vista la presenza di alcuni elementi di novità come il riconoscimento della parità tra uomini e donne. Le due misure – nomina di un governo tecnico e approvazione della nuova Costituzione – fanno parte di un accordo tra islamisti e laici per mettere fine alla grave crisi politica iniziata nel febbraio 2013 con l’omicidio di Chokri Belaïd, uno dei leader del Fronte Popolare (la coalizione di sinistra che era all’opposizione), che si è poi aggravata con il passare dei mesi.
Lo scoppio della crisi politica in Tunisia era stato una mezza sorpresa per molti esperti e analisti che negli ultimi tre anni si sono occupati delle cosiddette “primavere arabe”. La versione tunisina delle rivoluzioni era considerata la più riuscita; il suo governo post-rivoluzionario, guidato dal partito islamista Ennahda vincitore delle elezioni nell’ottobre 2011, era stabile, moderato e schierato con l’Occidente, almeno fino all’omicidio di Chokri Belaïd. Le prime tensioni tra governo islamista e opposizioni laiche erano nate dai contrasti legati all’inserimento di leggi ispirate alla sharia nell’ordinamento statale, ed erano poi cresciute proprio con l’assassinio di Belaïd, per il quale le opposizioni avevano accusato Ennahda di essere il “mandante morale” (l’accusa era non avere preso misure adeguate a contenere i salafiti, gli islamisti più radicali presenti in Tunisia). Al partito di governo erano state rivolte accuse simili per l’assassinio di un altro importante politico, Mohamed Brahmi (fondatore di uno dei partiti laici del paese), compiuto il 25 luglio 2013.
Dopo grandi proteste anti-governative e la sospensione dei lavori del parlamento, Ennahda aveva accettato di tirarsi indietro e permettere la formazione di un governo tecnico. Il risultato più importante dell’accordo raggiunto tra governo e opposizioni è stato proprio la stesura della nuova Costituzione, che riconosce l’Islam come religione di stato ma garantisce anche diverse libertà e la parità tra uomini e donne – quest’ultimo tema era stato oggetto di grandi discussioni tra islamisti e laici durante i mesi di governo di Ennahda.
La crisi si è conclusa del tutto con la nomina del nuovo governo. Jomaa è il quinto primo ministro della Tunisia dalla rivoluzione del 2011 che portò alla deposizione dell’ex presidente Zine El-Abidine Ben Ali: dovrà portare il paese verso le elezioni mantenendo solide le condizioni per la tregua stabilita tra islamisti e laici e dovrà affrontare altri problemi ancora irrisolti, tra cui un budget non sufficiente per le attività governative del 2014 e questioni legate alla sicurezza. La priorità del nuovo governo dovrebbe essere però la grave situazione economica che sta attraversando il paese. Circa 600mila giovani tunisini sono senza lavoro e il 20 per cento della popolazione del paese vive in condizioni di povertà: Jomaa ha detto che cercherà, tra le altre cose, di ottenere finanziamenti stranieri per sviluppare dei progetti finanziari che aiutino il paese a uscire dalla crisi.
Secondo molti esperti, con la fine della crisi politica la Tunisia è tornata ad essere un esempio per gli altri stati della regione che hanno attraversato esperienze simili, come Libia ed Egitto. In Libia la situazione è particolarmente critica: il parlamento è bloccato dalla contrapposizione tra islamisti e nazionalisti, i lavori per scrivere una nuova Costituzione finora non hanno portato a niente e il governo centrale di Tripoli non riesce a controllare tutto il territorio nazionale, dovendo accettare che alcune sue parti siano di fatto governate da potenti milizie locali. La situazione non è molto migliore in Egitto: il presidente eletto, Mohamed Morsi, è stato deposto la scorsa estate, e da allora molti membri dei Fratelli Musulmani – il movimento politico uscito vincitore dalle ultime elezioni – sono stati arrestati e il potere è stato di fatto preso dall’esercito.