Elva, un paese
Un reportage fotografico racconta la storia unica e comune di un paese in provincia di Cuneo, e chi ci abita
di PEPE fotografia
Negli anni Cinquanta Cesare Zavattini e Paul Strand percorsero le vie e i campi di Luzzara, piccolo centro sulle sponde del Po in provincia di Reggio Emilia, con l’ambizione di raccontarlo. Il progetto prevedeva una collana, dedicata al racconto dei comuni italiani da parte di uno scrittore e un fotografo; ma si fermò al numero 0. Forse varrebbe la pena di tornare a descrivere i nostri centri attraverso le persone che vi abitano.
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Non è un caso che verso la fine degli anni Settanta lo scrittore e partigiano Nuto Revelli abbia deciso di salire col suo magnetofono anche ad Elva per intervistare le protagoniste femminili della vita contadina in provincia di Cuneo. Nel capitolo de L’anello forte dedicato alla montagna, un’intervista si intitola Lavoravamo i capelli del pettine e permette di fissare nella memoria una delle attività prevalenti di quel paese, insieme all’allevamento: la lavorazione dei capelli per le parrucche.
Gli uomini partivano con stoffe, qualche soldo e altri materiali utili al baratto verso le altre regioni del nord Italia, allo scopo di ottenere in cambio lunghe ciocche di capelli che, riportate a casa, venivano lavorate secondo un processo del tutto simile a quello della lana; oggi lo testimonia, presso la Casa della Meridiana, il Museo dei “pels”: piccola raccolta di strumenti e ricordi di un’attività che aveva qui uno dei principali centri. E che questa attività fosse redditizia lo dimostra il gran numero di residenti (1320) che popolavano le diverse frazioni di questo piccolo comune della Val Maira all’inizio del secolo scorso.
È il 1987 quando Elva, secondo le statistiche, risulta essere il comune più povero d’Italia: i fattori sono da ricercare nella storia comune a tutti quei paesi di alta montagna, impervi e difficili da raggiungere, e dunque mai toccati da attività, turismo e benefici economici. E poi c’è la storia di quella strada, quella del vallone, dell’orrido di Elva: il lavoro ha richiesto anni, braccia, scalpelli e dinamite, per strappare alla roccia un sentiero, che lentamente si allargava fino a consentire il passaggio di un’auto almeno.
L’impresa si è conclusa negli anni Sessanta, quelli della fabbrica, del salario garantito e delle città: e la strada del vallone si è trasformata in un imbuto, utile ad inghiottire abitanti per gettarli a valle, seguendo la corrente dei torrenti; quasi sempre impedendone il ritorno. Allora era sindaco Franco Baudino e a chiunque domandasse spiegazioni su questa nuova e presunta povertà pare rispondesse che si è poveri soltanto quando si ha fame, e che lì in fin dei conti ognuno ha sempre avuto qualcosa da mettere sotto i denti, tutti i giorni, nessuno escluso. Ora Franco ha 66 anni ed è uno dei 25 abitanti che con ostinazione e fiducia hanno il destino e il privilegio di continuare a vivere ad Elva.
Se non fosse per quell’abside affrescata da Hans Clemer, genio fiammingo attivo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento e soprannominato appunto Maestro d’Elva, questo sarebbe un posto normale con una storia simile a tanti altri comuni di quelle montagne nascoste.
Ora il sindaco si chiama Laura Lacopo e lavora nella cucina di un agriturismo che più che un’attività rappresenta una sfida, quotidianamente condotta, e vinta, da Lorenza, dal fratello Walter e dalla mamma Clementina. Mario lavora per il comune, ma veste sempre in mimetica: difficile nascondere la sua vera passione. Ercole è in pensione da anni ma non ha perso l’abitudine di guardare i capelli delle donne, memore dei guadagni che allora si sarebbero potuti portare a casa. La barba di Costanzo fa pensare alla Scandinavia, e gli occhi di don Ugo sembrano ribadire che il lavoro è lavoro, ma non è uguale dappertutto. In fondo ha ragione Marco Albino Ferrari nel dire che il vero privilegio di Elva consiste in qualcosa a cui non siamo più abituati: qui non c’è “nulla che offenda lo sguardo”; e non è poco.