Qualche soluzione ai problemi delle carceri
L'ex direttore del New York Times mette insieme le proposte più promettenti tra quelle che circolano negli Stati Uniti, e alcune di queste possono interessarci
Bill Keller, ex direttore e ora columnist del New York Times, ha scritto un articolo in cui fa il punto sulle nuove strategie proposte e adottate da alcuni stati americani per risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri americane e limitare la recidiva. Keller spiega che negli ultimi anni l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso le carceri è cambiato, anche grazie alla generale diminuzione dei reati commessi. Molte persone pensano che «il sovraffollamento delle carceri sia uno spreco di vite e denaro»: il costo annuale per mantenere un detenuto è pari alla retta per una buona università, e le persone scarcerate hanno difficoltà a reinserirsi nella società e cadono in un circolo vizioso di crimine e povertà. Sempre più americani sono favorevoli a utilizzare pene alternative – come gli arresti domiciliari – per i reati meno gravi e i detenuti non pericolosi. Anche gli stati si stanno attrezzando per risolvere il problema del sovraffollamento: l’anno scorso 13 stati hanno chiuso prigioni e negli ultimi tre anni la popolazione carceraria è diminuita.
Dopo aver discusso con alcuni esperti di giustizia criminale, Keller suggerisce diverse alternative considerate generalmente promettenti: sono pensate ed esposte in relazione al contesto statunitense, ma molte di queste possono suggerire riflessioni anche in Italia, dove la questione delle carceri e del loro scandaloso sovraffollamento entra ed esce periodicamente dal dibattito pubblico.
Cambiare le leggi sulle condanne
Dagli anni Settanta gli Stati Uniti hanno adottato un approccio particolarmente duro, soprattutto per combattere la diffusione dell’uso di crack e la conseguente paura che ne era nata. Furono approvate leggi come il mandatory sentence, che per alcuni reati – soprattutto legati alla droga – impongono al giudice l’applicazione della condanna più severa possibile. La durata delle condanne è stata aumentata anche dalla “legge dei tre strike” (il nome deriva dal baseball), che obbliga il giudice a comminare pene più dure a chi è stato condannato a un reato per la terza volta, e dall’obbligo che un detenuto sconti l’85 per cento della pena.
Queste leggi sono applicate soprattutto per i reati di droga e quando gli imputati sono neri, provocando un notevole aumento della popolazione carceraria nonostante il recente calo del crimine: tra il 1984 e il 2008, per esempio, il numero di persone condannate all’ergastolo è quadruplicato, arrivando a oltre 140 mila detenuti. Questo sistema comporta anche che molte persone restino in carcere a lungo anche se non sono più pericolose o dannose per la società e negli ultimi tempi alcuni stati e città – come New York e la California – hanno provato a modificare e ammorbidire queste leggi. I pubblici ministeri si oppongono però a questi tentativi dato che utilizzano spesso la minaccia di lunghe pene per ottenere in cambio la cooperazione degli imputati.
Cambiare il sistema di controllo e sostegno
Per ogni detenuto nelle prigioni statali e federali, ce ne sono altri due in libertà vigilata sotto la sorveglianza di assistenti sociali. Questi ultimi sono sottopagati e costretti a seguire un numero eccessivo di casi, finendo per limitarsi a registrare le volte che i detenuti sgarrano fino al frequente ritorno in carcere. Alcuni comuni stanno cercando di rendere il tempo della libertà vigilata utile al reinserimento nella società dell’ex detenuto: hanno tolto gli assistenti sociali dagli uffici e li hanno mandati nelle comunità a occuparsi soprattutto delle persone più a rischio di recidiva. Sono state anche introdotte nuove tecnologie per aumentare la supervisione, come le cavigliere GPS e un sistema di blocchi alle auto che si attiva in presenza di livelli pericolosi di alcol, per impedire di guidare a chi ha avuto problemi di alcolismo.
Diversificare i tribunali
Negli ultimi tempi sono stati aperti più di duemila tribunali speciali che si occupano solo di casi di droga, e che inviano i tossicodipendenti non violenti in clinica a curarsi anziché in carcere. Il loro esempio è stato seguito in altri campi, e sono nati tribunali specializzati per i veterani dell’esercito e per la violenza domestica, che cercano di risolvere i problemi oltre che dare una punizione al colpevole.
Ridurre la recidiva
Keller scrive che ogni anno negli Stati Uniti vengono scarcerate più di 650 mila persone: due terzi di loro sono arrestate nuovamente nel giro di tre anni. Ci sono numerosi programmi che cercano di offrire ai detenuti una possibilità di iniziare una nuova vita, trovare un lavoro e non restare poveri, senza casa e inclini a commettere altri reati. Alcuni prevedono una consulenza prima della scarcerazione, che coinvolge spesso i membri della famiglia. Nel frattempo è in corso una campagna che invita i datori di lavoro a eliminare nei curriculum la casella che chiede se il candidato ha avuto precedenti penali. Un’altra chiede di abrogare le norme che vietano a un ex detenuto di ottenere la licenza di barbiere o estetista.
Polizia
Un approccio mirato da parte della polizia ha permesso di ridurre la popolazione carceraria a New York, Chicago, Philadelphia, New Orleans e in altre città, e di ridurre nello stesso tempo i crimini violenti. Anziché fermare indiscriminatamente gli abitanti dei quartieri più malfamati, i poliziotti sono diventati più selettivi e si sono concentrati su singole zone – come gli angoli di spaccio della droga – e sui gruppi più violenti e pericolosi.
Sono soluzioni applicabili su vasta scala?
Keller scrive che il governo ha intensificato gli studi di tutti questi programmi, ma si tratta ancora di tentativi. Il movimento per la riforma per ora è ostacolato dalla mancanza di studi scientifici e dall’impazienza dell’opinione pubblica. Nel momento in cui il tasso di criminalità continuerà a salire, le persone si rivolgeranno nuovamente alle carceri come soluzione contro il crimine.
La ricerca di alternative alle carceri è inoltre osteggiata dai procuratori, dai sindacati dei lavoratori che lavorano nelle carceri e dalle prigioni private (in cui vive circa il 9 per cento dei detenuti totali e che sono pagate in base al numero delle persone che ospitano). Altri sottolineano che questi programmi non risolvono il problema alla radice, ovvero i fattori che fanno proliferare i crimini: le comunità a rischio, la mancanza di buone scuole, case popolari degradate, i servizi insufficienti e la mancanza di lavoro. Keller risponde: «io sono favorevole a dare una mano a quelli intrappolati nel fondo della società. Ma nel frattempo, perché non provare a salvare alcune vite?».
Foto: Un uomo di 44 anni detenuto nel carcere di San Luis Obispo, in California, nel dicembre 2013. (Andrew Burton/Getty Images)