Gli sbagli dell’Italia con i marinai in India

Li elenca sul Corriere un ex ambasciatore a Delhi, che spiega che il rischio pena di morte l'abbiamo creato noi

Foto Pasquale Carbone - LaPresse
20/03/2013 - Roma (Italia)
Cronaca
Interrogatorio ai fucilieri della marina militare presso l'ufficio del procuratore militare di Roma
Nella Foto: Massimiliano Latorre, Salvatore Girone

Photo Pasquale Carbone - LaPresse
20/03/2013 - Rome (Italy)
News
Interrogation of the Rifle Navy - (Roma)
In the pic: Massimiliano Latorre, Salvatore Girone
Foto Pasquale Carbone - LaPresse 20/03/2013 - Roma (Italia) Cronaca Interrogatorio ai fucilieri della marina militare presso l'ufficio del procuratore militare di Roma Nella Foto: Massimiliano Latorre, Salvatore Girone Photo Pasquale Carbone - LaPresse 20/03/2013 - Rome (Italy) News Interrogation of the Rifle Navy - (Roma) In the pic: Massimiliano Latorre, Salvatore Girone

Antonio Armellini, diplomatico italiano di grande esperienza ed ex ambasciatore in India, spiega sul Corriere della Sera perché l’Italia ha sbagliato molte cose nel caso dei due marinai italiani arrestati in India due anni fa per l’omicidio di due pescatori – e il “rischio pena di morte”, che concretamente non esiste, è stato gonfiato ad arte.

Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, quel 15 febbraio, erano due militari in servizio, incaricati di una missione di contrasto alla pirateria nell’interesse dell’Italia. Le regole di ingaggio nel caso di avvistamenti sospetti sono precise: invio di segnali vari prima e — in assenza di risposta — ricorso alle armi non per uccidere, ma per dissuadere. La morte dei due pescatori è stata comunque un dramma e può darsi, anche se allo stato non sembra, che nell’eseguire le regole i nostri abbiano commesso degli errori: se così fosse ne dovrebbero rispondere alla magistratura del loro Paese che in casi del genere è comunque tenuta ad aprire un’inchiesta. È sulla base di queste regole, e non di presunte pulsioni omicide, che dovrebbe essere valutata la loro azione con buona pace delle tante fantasiose, e inesatte, ricostruzioni che in questi mesi è capitato di leggere.

Erano imbarcati in base ad una normativa che ne consentiva la presenza su navi commerciali in navigazione in zone di pericolo. Sebbene le mansioni potessero essere assimilabili a quelle di contractors privati, tali non erano, in quanto si trattava di militari comandati in missione dalle loro autorità. L’ambiguità della catena di comando — del comandante nel caso di contractors su una nave commerciale, militare nel caso di membri delle forze armate in servizio — è stata all’origine della decisione di rientrare nel porto di Kochi. Quale che sia stato il ruolo rispettivamente dell’armatore e del nostro Stato Maggiore in quella sciagurata decisione, si sarebbe dovuto subito pensare di modificare la normativa per evitare che incidenti del genere — sempre possibili — avessero a ripetersi. Sono passati due anni e non è successo nulla; e sì che non ci sarebbe voluto molto per un rapido passaggio parlamentare per chiudere una volta per tutte la porta a situazioni del genere.

(continua a leggere sulla rassegna stampa Treccani)

foto: Pasquale Carbone – LaPresse