Che cosa è successo ieri in borsa?
Dopo settimane in cui tutto andava bene c'è stato un crollo e lo spread è tornato a salire (c'entrano la Banca centrale americana e l'Argentina)
Venerdì 24 gennaio è stata una giornata piuttosto difficile per le borse internazionali. In Europa, il FTSE MIB, il principale indice della borsa italiana, ha perso il 2,3 per cento. Il CAC 40 francese e il DAX tedesco hanno perso il 2,7 e il 3,6. Lo spread ha chiuso a 228 punti base, dopo essere aumentato di quasi 20 punti in due giorni. Il crollo di venerdì è arrivato al termine di una pessima settimana: negli ultimi sette giorni, infatti, i principali indici della borsa americana hanno registrato la perdita peggiore negli ultimi sette mesi.
Per quanto il crollo sia stato notevole in Europa e Stati Uniti, secondo gli analisti le conseguenze peggiori di questi giorni saranno pagate dai paesi emergenti. Il real brasiliano, il rublo russo, la lira turca, il peso messicano, il rand sudafricano, la rupia indiana e molte altre monete dei paesi emergenti hanno visto il loro valore calare, mentre i listini che indicizzano le principali società che hanno sede nei paesi emergenti hanno subito i cali più gravi da mesi a questa parte.
Mentre i titoli più rischiosi venivano venduti, gli investitori sono ritornati agli “asset rifugio”, cioè quei titoli e quelle monete percepiti come sicuri (titoli di stato tedeschi, inglesi e americani, dollari, yen e franchi svizzeri). In questo contesto, i titoli di stato italiani e spagnoli sono visti dai mercati in modo non del tutto diverso da quelli dei paesi emergenti e quindi sono stati abbandonati dagli investitori, portando ad un aumento dello spread.
Ma come mai, dopo settimane di borse che andavano a gonfie vele e spread in calo si è verificata improvvisamente questa situazione? In molti, in realtà, avevano già ipotizzato che ci stessimo avvicinando a un momento del genere. I motivi sono diversi e hanno a che fare con le decisioni della Banca centrale americana, di quella giapponese e della situazione in diversi paesi emergenti.
Negli scorsi anni la FED americana e la Banca centrale del Giappone hanno attuato delle politiche molto espansive, hanno cioè acquistato titoli di stato e altri asset in vari settori delle loro economie, iniettando in questo modo molta liquidità sul mercato (è quello che accade quando sentite dire che la FED “ha stampato denaro”). Questa invasione di denaro ha fatto si che molti investitori comprassero titoli redditizi, ma considerati rischiosi, come ad esempio titoli di stato, obbligazioni o azioni di società in paesi emergenti (ma anche titoli di stato italiani e spagnoli).
Da diversi mesi la FED ha annunciato che intende ridurre il suo programma di acquisti e proprio nelle prossime settimane è attesa una riduzione da 75 miliardi di dollari al mese a 65. Contemporaneamente la banca del Giappone ha annunciato che probabilmente non ci sarà bisogno di altri stimoli monetari per raggiungere l’obbiettivo del 2 per cento di inflazione. Questi due eventi lasciano supporre che nei prossimi mesi ci sarà meno liquidità nei mercati e quindi gli investitori hanno cominciato a vendere i loro asset più rischiosi (come ad esempio titoli, obbligazioni e valute dei paesi emergenti) e hanno cominciato a ritornare verso gli investimenti più sicuri (titoli di stato tedeschi, dollari e yen). Come ha sintetizzato il Wall Street Journal: gli investimenti nei paesi emergenti diminuiscono insieme agli stimoli monetari della FED e della banca centrale del Giappone.
Contemporaneamente anche nei paesi emergenti sono avvenute un paio di cose che hanno messo pressione sui mercati. Secondo gli ultimi dati disponibili la Cina sta ulteriormente rallentando la sua crescita e nel 2013 non dovrebbe essere cresciuta più 7,7 per cento – un tasso di crescita notevole se paragonato a quello di qualunque paese dell’eurozona, ma comunque inferiore alle previsioni dell’8 per cento che erano state fatte all’inizio dello scorso anno. Un rallentamento della crescita economica cinese si riflette sull’economia mondiale, perché se la Cina riduce le sue importazioni da parte dei paesi emergenti, anche questi ultimi vedono rallentare la loro crescita.
A gettare ulteriore timore sul mercato dei paesi emergenti ci ha pensato il governo argentino, che nell’ultima settimana ha permesso al peso di svalutarsi del 18 per cento, il crollo più significativo dal default del 2001. Secondo il Financial Times si è trattato dell’ultima e disperata mossa compiuta dal governo di Christina Kirchner per cercare di bloccare la fuga di capitali dal paese. L’Argentina, infatti, ha una riserva di dollari che continua a diminuire, ma che è necessaria per pagare gli interessi sul debito contratto dopo il default del 2001.
Negli ultimi anni l’Argentina ha creato un vero e proprio labirinto di norme per rendere sempre più difficile ai suoi cittadini procurarsi dollari, così da tutelare le proprie riserve di valuta pregiata (una delle ultime norme di questo tipo è stata la legge contro l’e-commerce approvata questa settimana). Dopo il crollo del peso di questa settimana il governo argentino ha annunciato che impedirà ulteriori svalutazioni e che diminuirà i controlli sul cambio di valuta – un’inversione di tendenza che però, sostengono molti commentatori, è arrivata troppo tardi. Secondo l’analista finanziario Mario Seminerio (che sul suo blog ha pubblicato una raccolta di articoli sugli sviluppi dell’economia argentina negli ultimi anni), il paese è ormai «fuori tempo massimo, al tramonto del kirchnerismo che lascerà dietro di sé un cumulo di macerie».