Eliminare le Olimpiadi
Lo sostengono due opinionisti di Washington Post e Los Angeles Times, spiegando che fanno più male che bene e portando degli argomenti
Il 6 febbraio, tra circa due settimane, inizierà a Sochi, in Russia, la XXII edizione dei Giochi olimpici invernali. Negli ultimi mesi la stampa internazionale ha scritto parecchio delle prossime Olimpiadi, ma parlando molto poco di sport, come sarebbe lecito aspettarsi. Si è scritto soprattutto della recente legge contro i gay approvata dalla Russia (e le ancora più recenti dichiarazioni di Putin sui gay alle Olimpiadi: «Basta che lascino in pace i bambini») e delle grandi misure di sicurezza decise dopo la serie di attentati a Volgograd, città russa a poche centinaia di chilometri dal nord del Caucaso e da Sochi. Le continue polemiche, e i rischi che Sochi diventi l’obiettivo di attentati dei separatisti islamici del nord del Caucaso, hanno spinto due autorevoli giornali statunitensi – Washington Post e Los Angeles Times – a pubblicare l’opinione di due diversi giornalisti che in pratica si chiedono: perché non smettiamo di organizzare le Olimpiadi, visto che sembrano fare più male che bene? La tesi è certamente ardita ma i due hanno degli argomenti e costringono a porsi quanto meno delle domande, a cui cercare di rispondere in modo diverso dal semplice “le abbiamo sempre fatte”.
Sul Washington Post a sostenere l’opportunità di eliminare le Olimpiadi è Charles Lane, ex inviato di Newsweek, ex direttore del New Republic ed esperto di questioni legate al sistema giudiziario americano. Da decenni, scrive Lane, le Olimpiadi sono diventate qualcosa di molto diverso da quello che aveva in mente il loro fondatore, l’aristocratico francese Pierre de Coubertin. Pierre de Coubertin credeva possibile promuovere la pace internazionale stabilendo dei brevi periodi dedicati alla competizione sportiva (apolitica) e sottratti alle controversie e conflitti tra gli stati, proprio come succedeva nell’antica Grecia. Nella realtà, scrive Lane, le cose sono andate in maniera molto diversa: le Olimpiadi sono diventate un momento ulteriore di competizione tra stati e un luogo ambito da colpire per i movimenti terroristici dei paesi ospitanti.
Lane mette in fila le cose che sono andate storte nelle Olimpiadi degli ultimi 40 anni, e sono parecchie:
«I Giochi, apparentemente apolitici, sono stati segnati da parecchi boicottaggi – di Montreal nel 1976 (da parte delle nazioni africane che protestavano contro l’apartheid), di Mosca nel 1980 (da parte degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan) e di Los Angeles nel 1984 (da parte dei paesi comunisti come ritorsione per il boicottaggio del 1980). I Giochi sono diventati anche un bersaglio per gli estremisti, dai terroristi palestinesi che uccisero 11 atleti israeliani a Monaco nel 1972, al militante di estrema destra Eric Rudolph che mise una bomba ai Giochi estivi di Atlanta nel 1996»
Secondo Lane ci sarebbero poi altri problemi non legati direttamente alla politica in senso stretto: le Olimpiadi sono diventate nel tempo uno spettacolo che ha più a che fare con i diritti televisivi che con l’amicizia tra i popoli, come invece auspicava Coubertin. Inoltre, a differenza di quello che molti ancora credono, le Olimpiadi non sono un affare economico per i paesi che le organizzano, come ha dimostrato l’esperienza della Grecia, che per organizzare le Olimpiadi del 2004 si è indebitata per più di 6 miliardi e mezzo di euro. Un altro problema, scrive Lane, è legato per lo più alla competizione sportiva in sé, che specialmente per gli sport minori e meno conosciuti durante le Olimpiadi raggiunge livelli altissimi:
«Invece di frenare il nazionalismo, le Olimpiadi l’hanno senza dubbio aumentato. La ricerca della medaglia d’oro ha portato diversi paesi a corrompere giudici o a tollerare il doping dilagante – e, nel caso della ex Germania est, a sottoporre molti atleti a iniezioni sistematiche di steroidi senza il loro consenso»
Gli argomenti portati da Lane a sostegno della sua tesi – la mancanza dello “spirito olimpico” tra paesi, i guai economici per chi organizza i Giochi, la spinta a corrompere e dopare gli atleti (o per gli atleti a doparsi) – sono ripresi dall’opinionista Karin Klein, che sul Los Angeles Times ha pubblicato un articolo dal titolo piuttosto eloquente: «All the reasons we still need the Olympics: Uhhh, can’t think of any» («Tutte le ragioni per cui abbiamo ancora bisogno delle Olimpiadi: uh, non me ne viene in mente nessuna»).
Klein scrive che ci sono quattro ragioni solitamente portate a favore delle Olimpiadi. Primo: promuovono la pace internazionale. Secondo: danno prestigio e ricchezza alla città ospitante. Terzo: incoraggiano gli atleti a grandi prestazioni sportive, dando loro un palcoscenico mondiale. Quarto: sono belle da vedere in tv. La prima, scrive Klein, è falsa, riprendendo gli argomenti di Lane. Pure la seconda: le Olimpiadi attirano molti turisti ma il loro costo è ormai gigantesco e non ci sono prove che alla fine della fiera creino prosperità e non soltanto debiti. Anche sul terzo punto, prosegue Klein: sappiamo ormai che anche tra gli sport minori – ricordate gli scandali sul badminton a Londra? – lo sforzo degli atleti per vincere, battere record e superare i limiti li porta a comportamenti pericolosi e infortuni, se non addirittura a barare. I record ormai hanno più a che fare con i miglioramenti tecnologici che con le prestazioni degli atleti, scrive Klein. Infine, le Olimpiadi sono belle da guardare in tv solo se ti piace una montagna di pubblicità con in mezzo una frazione di sport.
Klein conclude scrivendo:
«La competizione tra grandi atleti produce momenti occasionali di straordinaria realizzazione umana. Mantiene viva la nostra capacità di rimanere a bocca aperta e stupirci. Ma questo aspetto è diventato solo una piccola parte delle Olimpiadi, mentre gli elementi più negativi sono aumentati. Ci sono ancora tanti palcoscenici internazionali per la competizione tra atleti, dove possiamo continuare ad ammirare la loro forza e il loro talento. Stiamo forse facendo un errore, aggrappandoci a questo?»