La migliore canotta dell’NBA
Un dilemma educativo e sportivo raccontato da Arnaldo Greco: non quella del più forte, non la più bella, ma quella da regalare a un bambino di 6 anni
Arnaldo Greco ha raccontato sulla rivista online l’Ultimo Uomo di quando la sua vicina di casa gli ha chiesto di scegliere la maglietta di un giocatore di basket da regalare a suo nipote, e delle difficili considerazioni educative e sportive che ha dovuto affrontare durante la scelta.
Quando di punto in bianco un’anziana vicina di casa mi ha chiesto un favore e consegnato cinquanta euro chiedendomi di spenderli per una “canottiera” di basket per un suo nipotino di sei anni mi sono sentito investito di una responsabilità enorme. Poteva essere un imprinting decisivo a chi dovevo far appassionare quel ragazzino: Lebron James? Carmelo Anthony? Chris Paul? Kobe Bryant? Kevin Durant? Russell Westbrook? Dal primo nome portato sulla schiena sarebbe dipesa l’angolazione da cui si sarebbe appassionato al gioco: cosa dovevo insegnargli, che conta il talento, che conta il fisico, l’atletismo, la spettacolarità, i muscoli? A ogni nome corrisponde una caratteristica più marcata, cosa dovevo dirgli attraverso quel nome? Visto che avrebbe gioito e si sarebbe sentito più coinvolto del solito davanti alle giocate del tizio di cui portava la canotta, dovevo fare in modo che accadesse per un giocatore di che tipo? Cosa dovevo dirgli, che conta la fantasia, la dedizione, o che contano più i colori della squadra del nome sulla canotta? E anche, in quel caso, quali colori? In fondo col calcio sarebbe stato tutto più istintivo e semplice, mentre l’NBA mi permetteva di dare distanza e lucidità alla decisione. Non potevo cavarmela con la maglietta della squadra del padre o della squadra rivale di quella del padre: dovevo ponderare la scelta.
D’altra parte di tempo per ragionare me ne era stato lasciato in abbondanza: due mesi. La vicina preparava i regali di Natale già a inizio novembre. Voleva organizzare tutto con anticipo perché l’anno prima s’era affidata al figlio e quello aveva comprato il regalo l’ultimo giorno e non solo non era la stessa pista desiderata dal nipote, ma c’aveva anche messo due ore a costruirla imprecando per l’intera mattinata di Natale contro i parenti che avevano osato offrirgli un aiuto senza essere in grado di riconoscere la differenza tra un cacciavite a stella e uno semplice e senza avere la necessaria intelligenza intuitiva a comprendere quelle che secondo lui erano le inintelligibili immagini del manuale d’istruzioni. Una situazione che conoscevo fin troppo bene per appesantirla con altre domande.
Così prendevo i soldi e cominciavo a riflettere. E a scartare ipotesi. Gli scelgo Manu Ginobili perché voglio che diventi un estroso che passa la palla sotto le gambe degli avversari? Gli prendo Dwyane Wade perché deve diventare un vincente? Gli prendo Blake Griffin perché voglio che, anche se non vincerà mai nulla, schiacci senza rispetto in faccia a chiunque? Gli prendo Marc Gasol perché deve essere un muro nel basket e nella vita? Gli prendo Dirk Nowitzki perché deve lavorare sulla tecnica? Pau Gasol perché la concentrazione è decisiva? DeMarcus Cousins per farlo cascare da subito nel binomio genio e sregolatezza? Tony Parker perché avverta che il personaggio conta quasi quanto il giocatore che sei? LaMarcus Aldridge perché impari ad adorare se stesso? O vado su un semplice Ricky Rubio visto che, dopotutto, anche il nipote della vicina sarà un biancastro che salta poco e corre con intelligenza?
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Foto: Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama riceve da Ray Allen e altri giocatori dei Miami Heat una maglietta alla Casa Bianca, 14 gennaio 2014. (MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)