Che cos’è il Titolo V della Costituzione
È quello che parla dell'autonomia delle regioni, che il centrosinistra cambiò nel 2001 e che oggi tutti dicono di voler riformare (compresi Renzi e Berlusconi)
Dopo l’incontro di sabato 18 gennaio, il segretario del PD Matteo Renzi ha detto di aver trovato una “profonda sintonia” con Silvio Berlusconi su tre proposte: legge elettorale, riforma del Senato e riforma del Titolo V della Costituzione. Mentre i primi due temi sono abbastanza chiari e ultimamente se ne è parlato parecchio, il terzo è probabilmente un po’ più oscuro. Si tratta di una cosa di cui in realtà si discute da più di un anno e riguarda le regioni, la loro autonomia e tutti i vari scandali di rimborsi spesi in ostriche, automobili e vacanze in Sardegna.
Il Titolo V
Il Titolo V è quella parte della Costituzione italiana in cui vengono “disegnate” le autonomie locali: comuni, province e regioni. L’attuale struttura delle regioni deriva da una serie di riforme del Titolo V cominciate negli anni Settanta e terminata con la riforma del 2001 (approvata con una maggioranza di centrosinistra e poi confermata da un referendum). Lo scopo di tutte queste riforme, compresa quella del 2001, era dare allo Stato italiano una fisionomia più “federalista”, nella quale i centri di spesa e di decisione si sarebbero spostati dai livelli più alti, lo Stato centrale, a quelli più locali, “avvicinandosi” così ai cittadini.
Nel corso degli anni le regioni hanno ricevuto sempre più competenze (la più importante è la gestione della sanità) e una sempre maggiore autonomia. Con la riforma del 2001, in particolare, alle regioni fu garantita autonomia in campo finanziario (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativo (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli). La riforma inoltre specificò quali erano le competenze esclusive dello Stato, lasciando alle regioni il compito di occuparsi di tutte quelle non nominate esplicitamente.
Il denaro che le regioni possono spendere piuttosto liberamente grazie a questa autonomia arriva da una serie di imposte: compartecipazione all’IVA, addizionale IRPEF e IRAP. Le prime due sono imposte raccolte dallo Stato, che poi ne versa parte nelle casse delle regioni, mentre la terza è un’imposta regionale. Tutte e tre però hanno la caratteristica di non garantire alle regioni un ampio margine di manovra. Le prime due sono raccolte dallo Stato, che decide anche “quanto” raccogliere. L’IRAP è raccolta dalle regioni, ma queste hanno un margine di manovra molto piccolo per decidere se far pagare di più o di meno ai cittadini (sull’IRAP, ad esempio, le regioni posso aumentare o diminuire dell’1% l’aliquota base).
Dov’è il problema
I problemi in realtà sono più di uno, sono emersi molto spesso in questi ultimi anni e hanno messo sostanzialmente d’accordo quasi tutti i partiti e i commentatori. Uno, per esempio, è che lasciando alle regioni tutte le materie la cui competenza non è esclusivamente dello Stato si sono creati numerosi contenziosi tra regioni e Stato. Si tratta di un aspetto molto visibile di un fenomeno più ampio.
In sostanza: dagli anni Settanta alla riforma del 2001, le regioni hanno visto crescere in tutti i campi la loro autonomia organizzativa e di spesa senza che di pari passo crescesse la loro autonomia fiscale. Le regioni, quindi, si trovavano ad avere la possibilità di spendere sempre più denaro in un numero sempre maggiore di campi, ma nel contempo senza doversi impegnare a recuperare quel denaro: senza che fossero soldi loro. Come ha scritto l’economista Alberto Bisin, si tratta di un sistema «abnormemente avulso da ogni più basilare analisi degli incentivi».
Le imposte che vengono alzate per riparare ai buchi nei bilanci regionali, infatti, sono imposte statali; e aumentano per decisione del Parlamento (che si prende anche tutte le critiche). Molto spesso lo Stato aiuta direttamente le regioni, prelevando il denaro dalla fiscalità generale (quella che pagano tutti i cittadini) e utilizzandolo per ripianare le perdite di una sola regione. In questo modo si toglie anche agli abitanti della regione l’incentivo a punire gli amministratori locali inefficienti. Se la perdita viene spalmata su tutti gli italiani, gli abitanti della regione non subiscono particolari danni da una gestione poco oculata dei soldi pubblici (e paradossalmente alcuni di loro potrebbero anche riceverne dei vantaggi, come per esempio parenti assunti in regione per svolgere incarichi inutili).
La riforma
Della necessità di riformare il Titolo V della Costituzione si parla oramai da diversi anni. Nel 2010, per esempio, il sociologo Luca Ricolfi scriveva: «L’aumento delle competenze degli Enti territoriali – Regioni, Province, Comuni – non si è accompagnato a un parallelo aumento della loro autonomia fiscale, sicché ogni Ente si è trovato a poter incrementare le spese senza dover pagare alcun prezzo politico in termini di inasprimento delle tasse locali».
Le critiche si sono fatte ancora più dure a partire dall’autunno del 2012, quando sono nati una serie di scandali in quasi tutte le regioni italiane. I casi erano tutti simili e riguardavano consiglieri regionali sospettati di aver utilizzato a sproposito gli ampi fondi elettorali messi a loro disposizione dai consigli regionali, come “rimborso” per le spese affrontate per mantenere un rapporto con gli elettori.
Scandali simili si sono succeduti anche nelle ultime settimane. Molti commentatori sono rimasti colpiti dal fatto che lo Stato non potesse intervenire in alcun modo per mettere rimedio a queste situazioni. Il Titolo V, infatti, protegge le regioni e quindi impedisce allo Stato di obbligarle, per esempio, a ridurre le indennità dei consiglieri o a diminuire l’entità dei fondi destinati ai gruppi consiliari. Il governo Monti cercò di cominciare un processo di riforma del Titolo V, ma cadde prima di poterlo terminare.
La riforma del Titolo V è stato un tema di cui si è discusso anche nella scorsa campagna elettorale. Il segretario del PD Pier Luigi Bersani, per esempio, aveva detto che la riforma del 2001 aveva prodotto risultati sbagliati e che era ora di cambiarla nuovamente. Anche l’allora segretario della Lega disse che non era possibile attuare il federalismo senza responsabilizzare gli amministratori locali. Il presidente del Consiglio Enrico Letta ha definito la riforma del 2001 “un errore clamoroso” che “paghiamo ancora oggi”.