La gran vita di Hawa Abdi
Un capitolo di «Tener viva la speranza», l'autobiografia di una prime ginecologhe della Somalia, nonché una delle attiviste più celebri del mondo
È uscita, pubblicata da Vallardi Editore, l’autobiografia di Hawa Abdi, intitolata “Tener viva la speranza”. Hawa Abdi è oggi la più famosa attivista somala per i diritti umani il cui impegno è riconosciuto a livello internazionale. Orfana di madre e data in sposa a soli 12 anni, è diventata una delle prime ginecologhe della Somalia grazie a una borsa di studio, e nel 1983, ha avviato un ospedale – che all’inizio era solo un ambulatorio con una stanza di degenza – a circa venti chilometri dalla capitale Mogadiscio. Dopo che nel paese scoppiò la guerra civile, la struttura divenne uno dei campi profughi più vasti del paese. Con l’aiuto delle sue figlie, Hawa Abdi ha fornito protezione, cure mediche e istruzione a decine di migliaia di donne e uomini somali per più di vent’anni.
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Ormai gli anziani del villaggio discorrevano quasi solo di Kalashnikov e di «tecniche» (veicoli civili equipaggiati con pesanti mitragliatrici fissate sul tetto), un linguaggio fatto di termini fino ad allora a noi sconosciuti. Le armi più micidiali in quel periodo erano però le auto, che attraversavano le strade di Mogadiscio con le gomme a terra o addirittura solo con i cerchioni.
Uno di questi veicoli investì una ragazza dei Darod, dilanian- dole una gamba. Per paura di essere uccisa dai miliziani Hawiye, data l’appartenenza al clan di Siad Barre, la giovane si era trascinata lungo la strada per nascondersi nella boscaglia, non lontana da noi. Si era nutrita di erba per settimane, riducendosi a pelle e ossa e cadendo preda della follia. Qualcuno ci avvertì e, per giorni, i volontari della clinica cercarono di convincerla a farsi curare. Finalmente ce la portarono, così la ricoverai e le somministrai degli antidolorifici. Non ero affatto certa di poterle riaggiustare la gamba: le ossa avevano già iniziato a saldarsi in maniera scorretta, ma le dissi che avrei tentato il possibile.
Alcuni rappresentanti del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), che si occupavano di rifornimenti alimentari e medici a favore della popolazione sin dall’inizio del conflitto, avevano cominciato a farmi visita al campo già nei primi mesi del 1991. Ammiravo il loro impegno: facevano di tutto per procurarci cibo e medicinali anche quando i miliziani sparavano con i mortai dalle coste per affondare le loro navi o rispedirle al largo. Nel nostro insediamento il CICR costruì la cucina da campo n. 88 della Somalia; inoltre, più volte alla settimana mi portavano con loro negli altri campi profughi della zona. Nonostante gli impegni, trovavo sempre il tempo per ricevere la loro delegazione, di cui faceva parte un somalo di nome Hussein Salad, stretto collaboratore di Wim Van Boxelaere, un belga grande e grosso.
Parlavamo spesso (di politica, di viaggi, di filosofia) e io mostravo loro le nostre strutture e li presentavo ai miei collaboratori. Un giorno Hussein Salad mi fece una domanda difficile: «Perché lo fai? Perché vuoi accogliere tutta questa gente in casa tua?»
Per tutta risposta, portai lui e Wim a vedere l’ospedale. Poiché le persone denutrite erano sempre di più, superando in numero i feriti, eravamo costretti a tenerle su miseri materassi o su coperte stese a terra nei corridoi. Passammo davanti a bambini sofferenti, assistiti da famigliari preoccupati che non potevano fare altro che scacciare loro le mosche dal viso, ed entrammo nella stanza dove si trovava la ragazza con la gamba stritolata. Wim rimase scioccato nel vedere come un arto potesse saldarsi in quel modo, con gli spuntoni ossei che sporgevano sotto la pelle in maniera innaturale. Pianse quando gli raccontai di come la vita di quella giovane fosse stata rovinata dalla violenza e dalla paura; poi girò il suo faccione rotondo e gentile verso di me, prese un foglio e diede istruzioni per una donazione immediata di riso, olio e fagioli. Si congedò con un abbraccio, chiamandomi Mama Hawa, e con la promessa di tornare presto.
Wim rispettò la parola data: nelle settimane successive il CICR ci fece avere regolari forniture di cinquanta sacchi di mais, venti cartoni di olio e venti sacchi di fagioli, e cominciò a darci anche medicinali. Spesso venivano Wim e Hussein stessi a consegnare la merce, insieme a una donna di nome Dahabo che dirigeva tutti i centri di assistenza della zona. Lavoravano senza posa, ma qualche volta passavano solo per salutarci e riposare un po’. A Wim piaceva in particolare vedere le famiglie e i bambini nel nostro orfanotrofio di fortuna; spesso si sedeva a terra per parlare con loro. Non mi era mai sembrato tanto imponente come quando si accucciava accanto a questi bambini così gracili. In quei momenti diventava uno di loro.
La delegazione del CICR ci disse più volte che il nostro centro aveva qualcosa di speciale, perché vi regnava un’atmosfera di calma. Anche se per me era difficile vedere oltre la confusione e capire ciò che intendevano, mi faceva piacere pensare che da noi riuscissero a rilassarsi un poco. Quando arrivavano li accoglievo nella sala riunioni della clinica e cercavo di offrire loro il meglio: pesce di mare fresco, caffè e tè e, dopo il raccolto, fette di anguria dolce e succosa. Un giorno Wim trovò una grande conchiglia sulla spiaggia e la portò nella sala riunioni per usarla come posacenere in quei pomeriggi in cui, per qualche minuto, chiacchieravamo come vecchi amici delle nostre famiglie, dei nostri Paesi e della politica locale. In realtà eravamo tutti stanchi di parlare di politi- ca, ma era difficile evitare l’argomento. Ogni volta che il CICR si spostava nella nostra area era scortato da un imponente servizio di sicurezza e Wim era preoccupato per ciò che ci sarebbe potuto accadere durante la notte.
«Se dovessero venire a rubare questi viveri, tu daglieli e basta» mi consigliò. «Ve ne porteremo altri.» All’epoca avevamo anche noi due guardie che collaboravano alla sorveglianza dell’ospedale e alla distribuzione dell’acqua. Capitava a volte che cercassero di negoziare con i signori della guerra locali, ma Wim non voleva sentirne parlare. «Se vogliono venire a prendersi tutti i viveri, voi non opponetevi. Anche se il riso viene rubato, vorrà dire che andrà venduto al mercato, il che contribuirà ad abbassarne il prezzo.»
Un giorno in cui ci furono combattimenti particolarmente cruenti a Mogadiscio, venne da noi un gruppo di collaboratori del CICR. «Oggi sono arrivate altre duecento persone» dissi a Wim, avvilita, «tra cui molti feriti.» Non c’era nient’altro da dire su una situazione che peggiorava di giorno in giorno. Wim sapeva rispon- dere in un solo modo, dando ancora di più: duecento sacchi di riso, cento taniche di olio. Ricordo ancora quel giorno: era un lunedì. Il mercoledì pomeriggio, dopo aver finito il mio lavoro alla clinica, presi la corriera per Mogadiscio, dove volevo procurarmi dei materiali per il campo. Scesi alla solita fermata e, mentre mi dirigevo verso il mercato, notai due ambulanze con i lampeggianti e le sirene accese sfrecciare a tutta velocità verso l’ospedale Medina. Non vi diedi molta importanza. Al mercato salutai il proprietario di un negozietto, il quale conosceva delle persone che stavano da me. «Oh! Ha sentito del suo amico?» disse.
«Quale amico?»
«Uno di quelli del CICR. Ehi!» Diede di gomito a un uomo vicino. «Chi era?»
«Il belga» rispose l’altro. Wim. Restai in ansia tutto il pomeriggio che passai al mercato, dove mi procurai le medicine e i mate- riali che avrei potuto portare a piedi fino alla fermata del pullman per Afgoi prima di sera. Durante il viaggio di ritorno, seduta tra madri ciondolanti dal sonno e giovanotti nervosi e agitati sul se- dile, ripensai a Wim che si allontanava commosso dalla ragazza con la gamba spezzata. La guerra ci aveva portato persone venute dall’altra parte del mondo per aiutarci, e noi non eravamo in grado di difenderli come meritavano.
Quando tornai a casa sentii la notizia alla radio; prima della preghiera serale, entrarono i bambini e alcuni collaboratori per ascoltare. Quella mattina Wim era al lavoro all’ospedale Martini, dove si trovavano le scorte principali del CICR. Un uomo armato era entrato nel magazzino, puntando la pistola contro Wim. Un anziano somalo gli era balzato davanti con l’intento di proteggerlo, ma fu ucciso all’istante. Wim era stato ferito dal medesimo proiettile.
Quella notte non riuscimmo a dormire. Su una grande cartolina scrivemmo: Forza, non mollare. Torna da noi. Mogadiscio piange per te. Tutti pregano per te. Al mattino ero di nuovo sul pullman con il nostro messaggio. Andai direttamente all’ospedale Medina, dove conoscevo un medico del reparto di chirurgia. «Cos’è successo?» gli chiesi entrando. «Dove si trova Wim?»
«Oh» mormorò tristemente. Mi portò in una stanza dove giaceva un uomo coperto da un lenzuolo bianco. «Vedi? Quello è Wim. È arrivato a prenderlo il fratello, lo riportano in Belgio.»
Trattenni il respiro. Avrei voluto allungare una mano e toccarlo, per sapere se fosse cosciente o meno, ma non volevo disturbarlo. Accanto a Wim c’era il cadavere dell’uomo che si era sacrificato per salvarlo.
Durante il viaggio, mentre l’aereo sorvolava l’Italia, Wim morì. Quando ricevemmo la notizia ne fummo tutti molto colpiti, sapendo che quell’uomo gentile, che aveva aiutato la Somalia in tutti i modi, era stato ucciso da coloro che stava cercando di salvare. Non sapevamo come piangere adeguatamente la tragedia della morte di Wim e di tanti altri come lui, però eravamo certi che si trattasse di un duro colpo alla fiducia della comunità internazionale e di un segnale di pericolo per gli stranieri che venivano in Somalia come amici. Come si poteva pensare che qualcuno sarebbe stato dispo- sto ad aiutarci, se avevamo ammazzato le persone migliori, chi era tanto coraggioso da volerci provare, uccidendo per di più anche i nostri connazionali?
«Non mollare, abbiamo bisogno di voi» dissi a Hussein Salad quando ritornò al campo. «Questo è il nostro lavoro» mi rassicurò.
Passarono diversi mesi e poi i genitori di Wim vennero in So- malia, per vedere il lavoro fatto dal figlio per noi. Hussein Salad li portò al campo; erano vestiti a lutto, in nero, come è usanza di molti europei. Offrimmo loro del succo di frutta e ci sedemmo insieme sotto gli alberi. Aden si alzò per parlare. «Wim era uno di noi» esordì. «Era parte di noi. Siamo tutti molto addolorati per quello che è accaduto.» Li accompagnammo nella sala riunioni dove Wim e io eravamo soliti sederci a chiacchierare e volli dare a sua madre la grande conchiglia-posacenere. Poi visitammo i bambini orfani, che avevano realizzato un cartellone con alcuni volontari del campo: «Wim ha dedicato la sua vita al nostro benessere» c’era scritto. Quando la madre lo lesse si guardò intorno, cercando il marito, e disse: «Vieni a vedere cos’hanno scritto questi bambini!»
Al momento di salutarci, io e sua madre ci abbracciammo, in lacrime. «Wim parlava sempre della dottoressa Hawa» disse. «Per lui questa era un’oasi di pace.» Qualche anno dopo, con una sov- venzione, realizzai una piccola scuola per infermieri all’interno dell’ospedale, tuttora in attività, e la intitolai a Wim Van Boxelaere.
Il giorno, per noi, era più facile, perché c’era da seguire la routine di sempre: le visite nei reparti, gli interventi programmati, le riunioni, i pasti, le visite delle delegazioni internazionali. Al contrario, ci facevano più paura le notti, quando i cooperatori e le loro guardie del corpo ritornavano al loro quartier generale a Mogadiscio mentre uomini armati scorrazzavano su e giù per Afgoi Road come formiche, sciamando oltre i posti di blocco e disperdendosi nella boscaglia per aggredire famiglie inermi, stuprare le donne e portare via tutti gli animali.
Non lontano da noi viveva un gruppo di miliziani Hawiye: alcuni giovani erano venuti, da bambini, alla nostra fattoria, e Aden li aveva portati in giro sul trattore. Una notte arrivarono come fantasmi e si presero le nostre ultime quindici mucche, il solo bestiame che ci era rimasto. Aden, che aveva diversi amici all’interno del loro clan, fece alcune telefonate e riuscì a rintracciare dodici delle vacche prima che fossero portate al mercato di Bakara per essere vendute. «Questi sono i miei animali» dichiarò Aden, sperando di metterli in imbarazzo. Impiegammo altri due mesi per ritrovare le altre tre mucche, ma anche queste tornarono da noi. Di notte, alcuni dei ragazzi più grandi cominciarono a dormire nei pressi del recinto per sorvegliare la situazione.
Eravamo molto vulnerabili: un insediamento di gruppi minoritari perseguitati e di donne, pervasi dal timore di essere attaccati in qualsiasi momento. A difenderci c’erano solo due guardie e il nostro gruppo di ragazzi – tra gli otto e i dodici anni – alcuni dei quali sorvegliavano le verande. Erano disarmati, ma erano in gra- do di restare di guardia tutta la notte, divisi in gruppetti. Erano loro i primi a sentire in lontananza il crepitio dei mitra o il rumore delle ruote di una macchina che sopraggiungeva senza luci, per sorprenderci: qualcuno che veniva in cerca di denaro, di cibo, di bambine da violentare.
Quasi ogni giorno sentivamo parlare di stupri; facevamo tutto il possibile per proteggere Deqo e Amina, di soli diciassette e tredici anni, e tutte le altre ragazzine del campo. Per cinque mesi dormii ogni notte in ospedale; gli ospiti ci portavano anche le loro figlie, in modo che potessero passare la notte in un posto sicuro. A volte avevamo anche cinquanta ragazze accampate in uno stanzone vuoto, una vicina all’altra, e altre cinquanta nella nostra camera da letto. Durante il Ramadan consumavano un pasto frugale tutte insieme dopo il tramonto e poi si avvolgevano nelle coperte, a parlottare e a scherzare tra loro a bassa voce prima di prendere sonno. Era troppo pericoloso uscire all’aperto per andare al bagno e Deqo aveva così tanta paura che dormiva sempre con le scarpe, in modo da correre più veloce in caso di necessità.
«Qui non può accaderci niente di male» la rassicurai una sera, seduta sulle sue coperte. Sapevamo che non era vero, ma in qualche modo l’aiutò a dormire.
Amina invece non dormiva mai. Se mi sedevo fuori, su una panca, tra un turno di guardia e l’altro in ospedale, subito dopo vedevo la sua ombra esile in lontananza. «Torna dentro» le dicevo mentre mi correva incontro. «Arrivo subito!»
Una sera tardi mi capitò di assistere un uomo che faceva parte del clan dei Galgale, soggetto a durissime persecuzioni nella nostra zona. Lo rifocillai, gli diedi un giaciglio per dormire e lo feci uscire prestissimo, prima che facesse giorno. «Non avvicinarti alla strada principale, passa dalla parte della boscaglia» gli raccomandai. «Mettiti in salvo!»
Alle undici del mattino si presentarono davanti all’ospedale trentacinque giovani armati di mitra; erano venuti a sapere dell’uomo dei Galgale. Cercarono di entrare, ostacolati da un’infermiera, la quale continuava a dire che le armi non erano ammesse. Sentii il trambusto e uscii dall’ambulatorio per affrontarli all’esterno. «Qui non c’è nessuno» dichiarai. «Questo è un ospedale. Ci sono solo due partorienti.»
Ma è impossibile cercare di ragionare con un giovane affamato, sovreccitato dal qat e armato di Kalashnikov. «Tu menti» disse. Notai che la sua spalla era scossa da un tic nervoso. «Cercheremo stanza per stanza, e così sapremo se stai dicendo la verità.»
«La gente che cercate l’avete uccisa quasi tutta voi, e quelli che sono rimasti vivi sono fuggiti» spiegai. «Non sono qui.»
«Facci entrare» insisté il giovane, agitando il mitra imbracciato. Una delle ostetriche uscì per vedere cosa stesse succedendo e tornò rapidamente dentro.
Temevo che se avessi lasciato entrare quegli uomini nell’ospedale, avrebbero cominciato a stuprare le nostre ragazze. Guardai il giovane dritto negli occhi, rossi e allucinati, e provai a parlargli come avrei fatto con uno dei miei figli. «Le persone che si trovano qui sono miei ospiti. Non lo vedi?» Feci una pausa e un sospiro. «Io qui curo la vostra gente. Come potete venire da me e pensare che terrei qui un vostro nemico? Non viviamo forse vicini? Non siamo lo stesso popolo?»
«Facci entrare!» sbraitò, facendosi più vicino.
«Se volete entrare, prima dovrete uccidermi» dissi.
Si fece avanti un altro uomo e prese la parola. «Ha ragione» disse, porgendomi il mitra in segno di scusa. «Perdonaci» aggiunse. Il giovane fece un passo indietro, senza cambiare espressione.
«Avete sbagliato persona» dissi, alzando una mano. «Io non saprei come usarlo. Riprendetevelo e non tornate mai più.»
Quando ripenso a quel periodo, mi torna in mente una giornalista che una volta mi fece la stessa domanda che mi aveva fatto Hussein Salad: «Perché lo fa?»
Avevo tentato di spiegare, ma la giornalista aveva una sua teoria. «Io penso che lei sia un po’ folle» aveva osservato. Capisco ora che parlare in modo così diretto con quegli uomini era stato come chiedergli, in pratica, di uccidermi. Ma se i poveri di cui mi occupavo fossero morti davanti ai miei occhi senza motivo, non avrei comunque potuto continuare a vivere.
Sentimmo dire che un’organizzazione umanitaria, la Swedish Church Relief, aveva intenzione di fare una cospicua donazione al nostro campo: cento tonnellate di riso, l’equivalente di quindici autocarri. Nell’attesa, immaginavo questa montagna di riso in arrivo dall’altra parte dell’oceano. Un giorno, uno degli addetti alla sicurezza venne a discutere con me della faccenda. «Possiamo gestire noi il trasporto» propose.
«Non dipende da me: se qualcuno ci fa una donazione, se ne occupa direttamente» spiegai. «Se t’interessa, va’ a chiedere a loro e mettiti d’accordo.»
Lui però non era intenzionato a chiedere nulla. «Se non ci dai il contratto di trasporto, ci portiamo via tutto il riso, e qui non ne arriverà neppure un chicco.»
«Sta a te decidere, se vuoi andare a chiedere a loro o no» risposi. Sebbene avessi risposto come se non m’importasse delle sue minacce, temevo che potessimo diventare vittime della violenza che aveva già fermato numerose altre organizzazioni umanitarie.
Andai al porto con la nostra Toyota Corolla bianca, accompagnata da due guardie e dall’autista, per sorvegliare l’arrivo del nostro riso e per controllare che venisse debitamente caricato sugli autocarri. Attraversammo la città senza problemi, anche se sentimmo colpi d’arma da fuoco quando entrammo nell’area del porto e dei magazzini. Tutto comunque procedeva bene e ci mettemmo in coda alla carovana che si dirigeva fuori città e su Afgoi Road.
Lungo il tragitto, a un centinaio di metri davanti a noi balenò una grande palla di luce, che fece tremare la terra a forza di esplo- sioni. L’autista sterzò violentemente, cercando di fermarsi accanto al camion davanti a noi per capire cosa fosse successo. Procedemmo a zig-zag per un paio di chilometri, finché qualcuno più avanti sparò una scarica a salve come segnale di tornare indietro, e tutto il convoglio si fermò. Sempre più nervoso, l’autista pigiò sull’acceleratore e superò la colonna di camion per rientrare al più presto al campo. Ma, quando superammo la testa del convoglio, vidi una «tecnica» ferma sulla strada, accanto a un autocarro attorniato da miliziani. Quando si accorsero di noi ci puntarono contro le armi.
«Vai! Vai!» Mi abbassai al centro del sedile posteriore, con il cuore in gola. Era un inseguimento di macchine come quello che avevo visto nei film, anche se tenevo gli occhi chiusi.
«Possiamo rispondere al fuoco!» gridò uno degli addetti alla sicurezza.
«No!» urlai, mentre intorno a noi si abbatteva una pioggia di proiettili.
Ci fermammo alla sede locale della Swedish Church Relief, e la «tecnica» tirò dritto. Eravamo finalmente al sicuro. «Sono co- sternato, cos’è successo?» volle sapere uno dei funzionari venuto ad accoglierci. «Abbiamo sentito che Mogadiscio è sotto assedio.»
Ricevetti una telefonata presso il loro centro: era l’addetto alla sicurezza che aveva minacciato di prendere tutto il riso. «Come stai, tutto bene?» mi chiese.
«Sì» risposi, incredula. Era lui il responsabile dell’agguato? E, in quel caso, come poteva essere così falso e fingere di preoccuparsi per me? Decidemmo di tornare al campo e lungo il percorso superammo uno dei camion che era finito fuori strada. Quando ci voltammo e vedemmo che non c’era più il carico, ci venne il timore che anche gli altri mezzi avessero subito lo stesso destino. Invece al nostro arrivo contammo tredici camion e, appena scesi dall’auto, vidi l’addetto alla sicurezza venirmi incontro. «Come stai?» chiese di nuovo. Questa volta mi limitai a ignorarlo.
Essendo cresciuta nella boscaglia, ho imparato che gli animali affamati fuggono e combattono senza pensare ai propri piccoli o agli altri animali di cui potrebbero diventare preda. La guerra agisce sulla razionalità delle persone in modo analogo, rendendole capaci di tutto pur di impadronirsi del cibo, anche quando è destinato ai più poveri. Il mio modo di pensare invece non era cambiato e non mi aspettavo che persone che mi conoscevano, che avevo aiutato e che lavoravano al mio fianco, potessero pensare di derubarmi. Invece, purtroppo, dovevo ammettere che la logica del tempo di guerra aveva spesso il sopravvento.
Avevamo ancora settanta tonnellate di cibo: era di gran lunga la donazione più cospicua che avessimo mai ricevuto. Bastava quello per mettere a rischio la mia vita? E che dire dei miei figli, costretti a vivere tra persone che combattevano per quel genere di cose? E se qualcuno avesse deciso di sequestrarli? Non avevo denaro per pagare un riscatto, ma solo una fattoria, una proprietà terriera inaridita e popolata di persone poverissime.
Il giorno seguente Aden e io ci mettemmo a segare a metà vecchi fusti d’olio; ciascuno di essi si trasformò in una pentola che mettemmo sul fuoco. Ogni giorno cuocevamo venti sacchi di riso da cinquanta chili, e così quella donazione, la più generosa mai ricevuta, durò settanta giorni. Due mesi e dieci giorni.