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  • Mercoledì 15 gennaio 2014

La sentenza contro la net neutrality

Una corte d'appello americana ha dichiarato non valide le regole sull'equa trasmissione dei dati online: che cosa significa, spiegato semplice, e cosa può succedere (e in Italia?)

di Emanuele Menietti – @emenietti

Martedì 14 gennaio una corte d’appello di Washington, DC (Stati Uniti) ha stabilito che le regole imposte dalla Federal Communications Commission (FCC) sulla net neutrality non sono valide. La decisione sta facendo molto discutere negli Stati Uniti perché, senza una risposta adeguata da parte della FCC, l’agenzia governativa indipendente che regola il sistema delle comunicazioni nel paese, le società che forniscono le connessioni per usare Internet (i provider) potrebbero decidere di creare corsie preferenziali per alcuni contenuti, a scapito di altri.

Net neutrality
Il concetto di net neutrality, letteralmente “neutralità della rete”, esiste da molto prima della nascita di Internet: se ne parlò per la prima volta in modo esteso nella seconda metà dell’Ottocento, quando negli Stati Uniti si iniziava a regolamentare l’utilizzo del telegrafo per le comunicazioni. Il principio che sta alla base della net neutrality è semplice: tutto il traffico su un determinato mezzo di trasmissione (o di trasporto) deve essere trattato allo stesso modo. Nel caso di Internet, ciò implica che i provider non possono fare favoritismi consentendo ad alcuni contenuti di essere trasmessi più velocemente di altri, sulla base di loro criteri arbitrari. Così come una telefonata di Tizio deve essere inoltrata al ricevente nello stesso modo in cui avviene per una chiamata di Caio, i provider devono fare arrivare a un computer un video di YouTube o il post di un blog semisconosciuto senza limitazioni che penalizzino uno dei due. Per dirla più chiaramente: oggi il provider non può limitare la quantità di banda destinata a raggiungere un certo sito Internet rispetto a un altro, o destinata all’utilizzo di un certo software rispetto a un altro. Nè quindi proporre offerte commerciali basate su questo genere di differenziazioni (Internet per le news, Internet per i video, eccetera).

Nel corso del tempo e con l’evoluzione dei sistemi di comunicazione, il concetto di net neutrality ha iniziato a comprendere cose anche molto diverse tra loro. La gestione delle reti comporta che tecnicamente ci siano comunque distinzioni tra i vari sistemi e protocolli usati su Internet (quelli per il peer to peer, per le chiamate VoIP, eccetera), e su questi i provider intervengono per offrire una certa qualità del loro servizio, anche se spesso pongono arbitrariamente limitazioni per favorire loro servizi.

Provider
A molti provider l’idea della net neutrality – che come vedremo non è sempre rigidamente regolata da leggi – non piace: ritengono che impedisca di sperimentare nuove soluzioni commerciali, non necessariamente contrarie agli interessi dei loro clienti. YouTube e altri servizi di streaming come Netflix consumano molta banda (la capacità delle reti), cosa che per i provider ha un costo. Per questo motivo le società che danno le connessioni vorrebbero potere avere la facoltà di imporre il pagamento di una sorta di “pedaggio” a YouTube, Netflix e agli altri, offrendo in cambio corsie preferenziali per consentire a certe tipologie di contenuti di viaggiare più rapidamente su Internet.

Il problema, dicono i detrattori, è che un simile sistema sarebbe probabilmente a scapito di altri contenuti meno conosciuti, che viaggerebbero più lentamente e di fatto sarebbero meno accessibili per chi naviga online. Senza un minimo di regolamentazione, inoltre, i provider potrebbero decidere di bloccare o di penalizzare il passaggio di certe tipologie di contenuto. Un provider che ha un proprio servizio di film in streaming avrebbe tutto l’interesse di rallentare Netflix, in modo da incentivare l’acquisto dei video sul proprio sistema.

FCC
Il tema della net neutrality riferita a Internet e alle connessioni ad alta velocità è dibattuto da almeno dieci anni negli Stati Uniti. Uno dei primi a porre il problema fu Michael Powell, nel 2004 presidente della FCC, nel corso di un discorso in cui espresse la necessità di realizzare per lo meno delle linee guida per i provider. Negli anni seguenti il Congresso analizzò diversi disegni di legge legati alla net neutrality, che si arenarono tutti per la mancanza di una maggioranza interessata a sostenerli. Non avendo leggi apposite sul tema, la FCC decise di fare per conto proprio approvando nel 2010 la direttiva “Open Internet”, quella in parte dichiarata non valida martedì, in cui si elencavano tre principi:

– l’impossibilità di bloccare contenuti legali su Internet da parte dei provider;
– impedire discriminazioni non ragionevoli nella trasmissione dei contenuti;
– trasparenza sui sistemi adottati dai provider.

Causa
All’indomani dell’approvazione di “Open Internet” molti sostenitori della net neutrality espressero perplessità e preoccupazioni sulla decisione della FCC: non avendo alle spalle leggi specifiche sul tema, era esposta a iniziative legali di diverso tipo per essere annullata, dissero. E in effetti fu così. Verizon, uno dei più grandi provider degli Stati Uniti, fece causa contro la FCC sostenendo che l’agenzia non aveva l’autorità per regolare il mercato delle connessioni a Internet stabilendo le politiche delle aziende su quali contenuti fare passare e in che modo.

Sentenza
La corte d’appello di Washington ha dato in parte ragione a Verizon e in parte alla FCC, con una sentenza che potrebbe avere molte conseguenze sulla net neutrality per come è stata intesa fino a ora. I giudici hanno annullato la parte della direttiva “Open Internet” che riguarda il divieto di bloccare certi contenuti o di favorirne altri perché la stessa FCC, in precedenza, aveva deciso di non classificare i provider come “operatori comuni”, la categoria in cui sono compresi i vecchi sistemi di telecomunicazione per i quali c’è l’obbligo di trasmettere le informazioni sulle loro reti senza fare preferenze.

Per la corte d’appello, adottando la net neutrality, la FCC ha quindi imposto regole che non poteva applicare ai provider. E questa era proprio una delle preoccupazioni più ricorrenti da parte dei sostenitori della neutralità della rete nel 2010, quando fu approvata “Open Internet”.

I giudici hanno invece eliminato i timori legati a un altro tema, e cioè quello secondo cui la FCC non avesse nemmeno l’autorità per dare regole ai fornitori di connessioni, cosa che avrebbe completamente annullato “Open Internet”. La sentenza dice che, per potere imporre la net neutrality, la FCC dovrà studiare nuove regole, un riconoscimento implicito dell’autorità dell’agenzia sul tema.

Infine, nella sentenza si dice che rimangono validi gli obblighi di trasparenza contenuti nella direttiva “Open Internet”, e non è cosa da poco. Significa che – se mai dovessero decidere di farlo – i provider saranno obbligati a spiegare ai loro clienti come gestiscono e organizzano il traffico sulle loro reti. Se un servizio di video in streaming sarà favorito o se altri siti saranno bloccati sarà necessario indicarlo in modo chiaro ed esplicito.

Che cosa succede adesso
In seguito alla sentenza, la FCC ha fatto sapere che nei prossimi giorni valuterà come rispondere e non ha escluso la possibilità di fare ricorso, cosa che porterebbe il caso alla Corte Suprema. Ma secondo diversi esperti questa sarebbe una decisione rischiosa, perché attualmente l’agenzia ha poche e deboli basi legali per regolare la net neutrality e si potrebbe quindi ritrovare con una nuova sentenza molto più vincolante e difficile da superare. La FCC potrebbe equiparare i servizi offerti dai provider a quelli degli “operatori comuni”, ottenendo piena legittimità nell’imporre che la trasmissione dei contenuti non sia discriminata, ma ci sono pareri discordanti sul fatto che l’agenzia abbia i poteri necessari per deciderlo.

Per evitare ulteriori ambiguità la soluzione migliore sarebbe un intervento con nuove regole da parte del Congresso, cosa che però richiederebbe tempi lunghi e che non è scontata, visto come sono andate le cose negli ultimi dieci anni sul tema. Non è escluso che la FCC decida di attendere che qualche provider inizi a bloccare o limitare determinati contenuti, sfruttando poi il caso per censurarlo e costituire un precedente su cui basare una nuova serie di regole.

Mobile
I sostenitori della net neutrality dicono che la sentenza di martedì potrebbe portare il sistema delle connessioni a banda larga via cavo ad avere una condizione simile a quella delle reti cellulari. Quando furono decise le regole nel 2010, la FCC stabilì meno obblighi per gli operatori mobili: si pensò che la tecnologia per la trasmissione dei dati su reti cellulari fosse ancora agli inizi e che troppe regole avrebbero impedito un suo rapido sviluppo. Gli operatori mobili negli Stati Uniti hanno quindi la facoltà di limitare o favorire la trasmissione di alcuni contenuti, comunicando ai clienti criteri e limitazioni. Lo stesso sistema potrebbe essere applicato alle reti tradizionali da alcuni operatori, almeno fino a quando la FCC non avrà prodotto nuove regole o rivisto la direttiva “Open Internet”.

Come funziona in Europa
Il tema della neutralità della rete è stato ampiamente dibattuto anche in Europa, con direttive dell’Unione emesse a partire dai primi anni del 2000 modificate o confluite nel “Pacchetto telecom” del 2009, diventato pienamente operativo nel maggio del 2011 in tutti gli stati membri. Buona parte dei poteri decisionali sulla net neutrality sono lasciati alle singole autorità nazionali che si occupano delle telecomunicazioni. A livello comunitario c’è l’obbligo per i provider di informare i clienti sul tipo di servizio che potranno avere e sulla presenza di eventuali limitazioni, ma le società fornitrici mantengono comunque una notevole libertà, salvo non ci siano regole più restrittive a livello nazionale nel paese in cui operano.

Come funziona in Italia
In Italia non ci sono leggi che affrontano esplicitamente e in modo netto il tema della neutralità della rete. C’è il diritto alla trasparenza per i clienti dei provider che, come stabilito dalle direttive comunitarie, sono obbligati a comunicare eventuali restrizioni al traffico dei dati. Diversi studi indipendenti, condotti da centri universitari, hanno comunque messo in evidenza come le regole non siano sempre completamente rispettate: molti provider non danno tutte le informazioni e in modo chiaro e trasparente sulle limitazioni che impongono alla navigazione online.

Secondo diversi giuristi, ci sono poi altri problemi legati alla pratica di limitare la trasmissione di alcuni dati. Un esempio su tutti: un provider che assegna priorità diverse al traffico delle informazioni analizza in qualche modo i dati che il suo cliente invia e riceve, con conseguenze poco chiare per quanto riguarda la tutela della sua privacy.