Internet è un brutto posto per le donne?

Un lungo articolo racconta cosa succede a «qualsiasi donna con una connessione a Internet», con conseguenze più gravi di quanto si pensi, e senza che possano fare molto

di Giulia Siviero – @glsiviero

This picture taken on March 20, 2013 shows a woman looking at her smartphone while walking in a street in Bangkok. A recent Facebook-sponsored study showed smartphone owners are often connected all day. People can be found glued to their smartphones at airports, on trains, in restaurants and even while walking on the street, creating a disconnection from their immediate surroundings. Smartphone sales are expected to continue to surge in 2013 with some 918 million units to be bought worldwide. AFP PHOTO/ Nicolas ASFOURI (Photo credit should read NICOLAS ASFOURI/AFP/Getty Images)
This picture taken on March 20, 2013 shows a woman looking at her smartphone while walking in a street in Bangkok. A recent Facebook-sponsored study showed smartphone owners are often connected all day. People can be found glued to their smartphones at airports, on trains, in restaurants and even while walking on the street, creating a disconnection from their immediate surroundings. Smartphone sales are expected to continue to surge in 2013 with some 918 million units to be bought worldwide. AFP PHOTO/ Nicolas ASFOURI (Photo credit should read NICOLAS ASFOURI/AFP/Getty Images)

I discorsi sugli insulti, le minacce e le aggressioni su Internet sono ricorrenti da mesi in molte parti del mondo, con articoli che interpretano il fenomeno da diversi punti di vista e in diversi modi, offrendo soluzioni e proposte di diverso tipo. C’è una questione però che viene spesso messa da parte, o comunque non trattata con la stessa attenzione: quando il soggetto preso di mira è una donna, l’offesa o la minaccia hanno immediatamente una declinazione di genere. L’occasione del conflitto politico o d’opinione viene colta spesso per esprimere odio misogino e sessista. Un esempio recente e italiano per capire di cosa parliamo: nei commenti al noto post di Beppe Grillo contro la giornalista dell’Unità Maria Novella Oppo – attaccata perché politicamente ostile al Movimento 5 Stelle – si trovavano epiteti come “cessa”, “baldracca”, “racchia”, “ammoscia cazzi”, “cagna”, “zoccola”, “carta da culo”, “troia”, “succhia cazzi” e così via.

Il tema – di cui giornaliste e femministe di tutto il mondo si occupano da tempo con insistenza – è stato recentemente riproposto dalla giornalista statunitense Amanda Hess in un lungo e discusso articolo sul Pacific Standard intitolato: “Perché le donne non sono le benvenute su Internet”. La tesi di fondo la esprime nelle prime cinque righe:

“Ignorate la raffica di minacce violente e messaggi molesti con cui vi confrontate ogni giorno online”. Questo è quello che si dice alle donne che usano la Rete. Ma questi messaggi senza fine sono un attacco alla carriera delle donne, alla loro resistenza psicologica e alla loro libertà di vivere online. Fin qui abbiamo inteso le molestie su Internet in un modo tutto sbagliato.

La Rete non è Fantasyland
Amanda Hess è molto attiva sui social network e nei suoi articoli si occupa spesso di temi legati alle donne e alla sessualità. Nell’articolo sulle molestie online comincia raccontando una cosa che le è successa. Si trovava in vacanza a Palm Springs, quando alle 5.30 del mattino ricevette una telefonata: era un’amica che la avvisava di un account Twitter che sembrava essere «creato con lo scopo» di inviarle «minacce di morte».

Mi trascinai giù dal letto e aprii il portatile. Qualche ora più tardi, qualcuno con lo pseudonimo “headlessfemalepig” [maialasenzatesta] mi aveva mandato sette tweet. “Vedo che fisicamente non sei molto attraente, lo avevo capito”, diceva il primo. Poi: “Succhi un sacco di uccelli di ubriachi e tossicodipendenti.” Poiché sono una giornalista che scrive anche di sesso (tra le altre cose) nessuna di queste frasi era per me particolarmente fuori dall’ordinario. Ma questo ragazzo passò a un altro livello: “Ho 36 anni, ne ho fatti 12 di prigione per omicidio, ho ucciso una donna che come te prendeva in giro gli uccelli degli uomini”. Ancora: “Sono felice di dirti che viviamo nello stesso stato. Ti sto cercando, e quando ti troverò ti violenterò e ti staccherò la testa.” Ce n’erano altri, ma il tweet finale sintetizzava bene: “Stai per morire e io sono colui che ti ucciderà. Te lo prometto”.

Amanda Hess racconta anche la sua reazione: “Mi sentivo disorientata e terrorizzata. Poi imbarazzata per avere paura e infine ero incazzata”. Decise dunque di chiamare la polizia e due ore più tardi arrivò un agente nella sua camera d’albergo.

Diedi le informazioni più rilevanti: sono una giornalista; vivo a Los Angeles; a volte alle persone non piace quello che scrivo sulle donne, le relazioni o la sessualità, questa non è la prima volta che qualcuno reagisce al mio lavoro minacciando di stuprarmi e uccidermi. Il poliziotto mise le mani sulla cintura, mi guardò negli occhi e chiese: “Cos’è Twitter?”

Il racconto serve ad Amanda Hess come esempio di un primo grave errore che si commette quando ci si trova di fronte a quello che definisce “cyber-sessismo”: considerare la rete come «una specie di “Fantasyland”», tesi che ha almeno due conseguenze reali sulla vita delle donne che usano Internet.

Ignorare o gioire
Il fenomeno, spiega Amanda Hess, è talmente cresciuto e si è a tal punto diffuso da aver generato un paradosso: quello di non essere più considerato importante. È parte del panorama, meglio ignorarlo e non farci caso. Conseguenza, secondo Hess: l’opinione diffusa è che chi esprime un allarme «è solo uno sciocco». I giornalisti (e le giornaliste) che prendono sul serio le minacce di morte «danno spesso l’impressione che questo sia un qualche tipo di evento sconvolgente per il quale dovremmo provare pietà per le vittime», ha scritto ad esempio Jim Pagels su Slate, aggiungendo che «chi ha trascorso 10 minuti online sa bene che queste affermazioni sono completamente innocue». Jen Doll su Atlantic Wire ha scritto che «la vecchia tattica di ignorare i rompiscatole, quella che la tua mamma ti ha insegnato, potrebbe essere la migliore per tutti». Non bisogna insomma cadere nella trappola. E c’è anche chi sostiene che le molestie online sono il segnale (positivo) di quanto le donne siano arrivate lontano, di quanto siano pubblicate, lette su Internet e dunque influenti.

Il risultato è che le donne che subiscono molestie online si trovano dunque di fronte a due possibilità: fare finta di niente e subire in silenzio questa violenza o sentirsi lusingate. Invece, spiega Amanda Hess, questo tipo di minacce e il loro enorme volume hanno gravi implicazioni per le donne: nella vita reale e nella loro vita su Internet.

Le minacce di stupro, di morte, e lo stalking possono sopraffare e restringere la nostra emotività, oltre a farci perdere tempo e soldi in attività investigative online. Ho passato ore e ore negli ultimi quattro anni a registrare l’attività online di un cyberstalker particolarmente impegnato, per ogni evenienza. E dato che Internet diventa sempre più centrale nell’esperienza umana, le capacità delle donne di vivere e lavorare liberamente online potranno essere sempre più influenzate e troppo spesso limitate.

Denunciare
Proseguendo nel suo racconto, Amanda Hess scrive che la prima volta in cui denunciò una minaccia di stupro alla polizia, nel 2009, l’agente inviato a casa sua chiese: «Perché qualcuno dovrebbe prendersi il disturbo di fare una cosa come questa?». E il poliziotto di Palm Springs della denuncia più recente le disse: «Questo tizio potrebbe essere seduto in una cantina del Nebraska, per quel che ne sappiamo noi». Il fatto che il suo stalker avesse detto di vivere nel suo stesso stato, e che avesse intenzione di scoprire dove lei abitasse, venne scartato «come la solita sciocchezza scritta online». Pensare la Rete come qualcosa che non ha alcun contatto o impatto con la realtà ha come conseguenza anche il fatto che le minacce online non sono considerate nel modo corretto da parte di chi dovrebbe attivarsi per svolgere le indagini.

Chi abusa tende a farlo anonimamente o sotto pseudonimo. Ma le donne che costoro prendono a bersaglio spesso scrivono su piattaforme professionali, con i loro veri nomi e nel contesto delle loro vite reali. Le vittime non hanno il lusso di poter separare se stesse dal reato. (…) Nathan Jurgenson (un noto sociologo ed esperto di Internet dell’Università del Maryland) dice: “per la persona che ha fatto la minaccia e per la persona che sta indagando su di essa, è molto più facile e comodo credere che quel che accade su internet non sia reale”.

Internet è una rete globale, scrive Hess, ma quando si prende in mano il telefono per denunciare una minaccia online «che vi troviate a Londra o a Palm Springs, finirete faccia a faccia con un poliziotto locale» – che molto probabilmente sarà un uomo e prenderà appunti «con carta e penna». Naturalmente, precisa Hess, alcune persone sono indagate e perseguite per cyberstalking, ma dalla sua esperienza e da quella di altri casi simili al suo risulta che le forze dell’ordine abbiano una scarsa capacità di indagare sulle minacce e quindi, di conseguenza, di intervenire.

A Jessica Valenti, scrittrice femminista e fondatrice del blog Feministing, a fronte di una serie di minacce di morte ricevute nella sua e-mail, l’FBI consigliò di lasciare il suo appartamento, di non camminare per strada da sola e di monitorare tutte le persone di sesso maschile che si presentavano più volte nei dintorni della sua casa: «Un’indicazione completamente impossibile da realizzare». Alla giornalista di Time Catherine Mayer fu consigliato di «prendersi una pausa da Twitter». Secondo i dati del Pew Research Center, dal 2000 al 2005 la percentuale di utenti che partecipano a chat online e a gruppi di discussione su Internet è scesa dal 28 al 17 per cento e «per molte donne non si è trattato di una vera e propria scelta».

Qualche numero
«Da buona giornalista», Amanda Hess spiega di avere un file in cui documenta e conserva i casi più gravi di molestie subite online: un gruppo di utenti di un sito per i “diritti dei maschi”, discutendo di una serie di fotografie in cui lei appariva con una nota femminista, si chiese come “avrebbero passato la notte” con loro e uno scrisse: «Le imbavagliamo e poi le leghiamo a 69 così le cagne non possono parlare o muoversi e andare in giro per il mondo»; un commentatore anonimo reagì a uno dei suoi articoli scrivendo: “Amanda, sto per stuprarti. Come ti senti?”. Hess spiega: «niente di questo mi rende eccezionale. Fa di me solo una donna con una connessione a Internet».

Citando un’altra ricerca del Pew Research Center su dieci anni di attività online di americani e americane, risulta che negli Stati Uniti dal 2000 uomini e donne accedono in numero uguale a Internet ma che gli episodi di violenza verbale riguardano per la maggior parte le donne. Delle 3787 persone che hanno segnalato molestie online tra il 2000 e il 2012 al “Working To Halt Online Abuse”, organizzazione statunitense di volontari per fermare gli abusi online, il 72,5 per cento erano donne. E il 5 per cento delle donne che hanno utilizzato Internet ha detto che prima o poi online è successo qualcosa che le ha portate a sentirsi in “pericolo fisico”. Nel 2006 i ricercatori dell’Università del Maryland hanno creato una serie di falsi profili online per una chat: i profili con nomi femminili hanno ricevuto una media di 100 messaggi al giorno sessualmente espliciti o minacciosi; quelli con nomi maschili ne hanno ricevuti in media 3,7.

Un mondo fatto da uomini per uomini
Uno degli aspetti del problema è che Internet resta ancora prevalentemente un mondo fatto da uomini e abitato da uomini, che spesso hanno troppo poca comprensione di ciò che sta accadendo: nel 2010 il 92 per cento dei fondatori delle società su Internet erano uomini, e mentre il numero delle donne che lavorano nel campo scientifico è generalmente in aumento, la percentuale di donne occupata nelle scienze informatiche è in diminuzione. Nel 2012 solo il 22,5 per cento dei programmatori di computer erano programmatrici e solo il 19,7 per cento degli sviluppatori di software erano sviluppatrici. Soltanto il 13 per cento degli autori di Wikipedia è composto da donne; a Twitter una sola donna fa parte dei dirigenti. «Ma le decisioni di questi uomini hanno gravi implicazioni per miliardi di persone. Lo squilibrio di genere nelle loro aziende compromette la loro capacità di comprendere la vita di metà dei loro utenti».

Che fare?
Le vittime di minacce online si trovano di fronte a un altro dilemma, secondo Hess: «che significato dare alla propria paura? Dovrebbero, come molti consigliano, ignorare la minaccia come uno stupido gioco, e non prendersi la briga di informare la polizia che qualcuno vuole stuprarle e ucciderle? O dovrebbero fare denuncia alla polizia, che molto probabilmente riterrà infondate le sue preoccupazioni?».

Nel complesso articolo di Hess non sono fornite soluzioni, ma vengono affrontate diverse questioni legate alla legislazione degli Stati Uniti: si spiega, per esempio, come ci sia un intenso dibattito intorno ad alcune proposte per migliorare le norme introducendo il concetto che l’abuso online costituisca «una discriminazione per le opportunità di occupazione delle donne». Considerare gli abusi online una violazione dei diritti civili è questione molto complessa, che pone diversi problemi di ordine pratico ma che potrebbe avere la conseguenza positiva di aumentare la pressione sulle forze dell’ordine nel non sottovalutare questo tipo di crimini.

Per quanto riguarda alcuni interventi da parte delle società che gestiscono i maggiori social network, Hess commenta definendoli «cerotti virtuali per problemi che hanno a che fare con il mondo reale e sono potenzialmente pericolosi». E racconta la storia di Caroline Criado, giornalista e attivista per i diritti delle donne, diventata famosa per aver lanciato e presentato una petizione per avere più donne sulle banconote del Regno Unito (cosa che ha poi ottenuto). Criado ricevette molte minacce di stupro e di morte su Twitter. Invece di ignorarle o chiudere l’account iniziò a ritwittare ogni violenza subita, aumentando il numero delle persone che come lei chiedevano venisse fatto qualcosa. L’episodio fece molto discutere e fu raccontato dai media internazionali: intervennero diversi politici, se ne occuparono Scotland Yard (che arrestò tre persone), il responsabile della sicurezza di Twitter e il direttore di Twitter UK. Il risultato è stata l’introduzione del pulsante “segnala abuso” sopra ogni tweet. Positivo, certo, ma non sufficiente commenta Hess, visto che Criado e molte oltre a lei continuano a ricevere minacce.