Mike Allen e il “native advertising”
Uno dei più celebrati giornalisti politici americani è stato accusato di riservare un trattamento particolare agli inserzionisti della sua famosa newsletter
Poco meno di due mesi fa Erik Wemple, giornalista e blogger del Washington Post, ha scritto un lungo articolo contro un altro importante giornalista statunitense, Mike Allen, capo dei corrispondenti alla Casa Bianca di Politico, il più importante sito di news della politica americana e diretto concorrente del Washington Post. Le critiche di Wemple erano rivolte alla newsletter giornaliera curata in prima persona da Allen, “Playbook”, contenente per lo più storie trattate da Politico, varie “esclusive”, suggerimenti e avvisi di compleanno. Nel suo articolo Wemple accusava Allen di fare frequente ricorso – ma senza dirlo apertamente – al cosiddetto “native advertising“, un metodo pubblicitario di cui si sta discutendo molto recentemente e che «ibrida contenuti e annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove sono pubblicizzati».
In pratica Wemple ha accusato Allen di ospitare nella sua newsletter contenuti pubblicitari spacciandoli per informazione giornalistica, cioè di decidere che notizie dare e soprattutto come darle sulla base di chi sono i suoi inserzionisti (che è un’accusa comunissima e antichissima anche tra i giornali di carta). Allen, che fino a martedì non aveva risposto a Wemple, ha definito le sue accuse “false” e “ingiuriose” in una mail inviata allo Huffington Post.
Per capire meglio che cos’è il “native advertising” e quali accuse esattamente Wemple ha rivolto ad Allen sono utili un paio di osservazioni. Come aveva spiegato il peraltro direttore del Post, Luca Sofri, il “native advertising” «è nato dalla ricerca di formati di pubblicità diversi e più attraenti per gli inserzionisti, in un tempo in cui l’offerta di informazione online ha abbassato drasticamente la resa, per i giornali e i siti di news, dei contenuti pubblicitari tradizionali». Di conseguenza molti giornali e siti di news stanno ripensando e rivalutando le storiche distinzioni tra contenuti editoriali e pubblicità: alcuni, come Buzzfeed, hanno costruito il proprio successo su queste distinzioni, rivendicando apertamente i loro “contenuti sponsorizzati”. Per altri, specialmente i media “ortodossi” – come il New York Times per intenderci – la questione è più delicata perché ha forti implicazioni etiche di affidabilità e informazione: “vendere” contenuti editoriali e produrli su commissione significa mettere in discussione l’autorevolezza del giornale e confondere il lettore sul tipo di contenuto che sta leggendo (è una notizia o una pubblicità?).
Nell’articolo di Wemple, pubblicato il 20 novembre 2013 e intitolato “Politico’s Mike Allen, native advertising pioneer” (“Mike Allen di Politico, un pioniere del native advertising”, chiaramente un titolo sarcastico), il giornalista del Washington Post ha messo in fila almeno tre casi in cui Allen avrebbe favorito alcuni inserzionisti promuovendo le loro attività senza dirlo esplicitamente al lettore: si tratta di articoli “favorevoli” riguardanti la Camera di Commercio statunitense, la British Petroleum (BP) e la Goldman Sachs. Per chiarire la sua tesi, Wemple ha proposto un “giochino” al lettore: ha scelto quattro casi in cui la Camera di Commercio statunitense è stata citata in qualche maniera su “Playbook”, ne ha pubblicato solo il testo e ha chiesto di indovinare quali di questi fossero una pubblicità a pagamento (quindi comparivano nella newsletter come inserzioni pubblicitarie, con la dovuta chiarezza delle inserzioni pubblicitarie) e quali invece fossero frutto del lavoro giornalistico di Allen. Riproponiamo il giochino, scegliendone solo due:
1. La Camera di Commercio statunitense ha una nuova e ambiziosa agenda per generare una crescita economica più forte e più robusta, per creare posti di lavoro e aumentare le opportunità per tutti gli americani.
2. La Camera di Commercio statunitense lancerà “On the Road With Free Enterprise”, un viaggio di due mesi attraverso il paese per promuovere “i principi della libera impresa e il meglio dell’America”. La vostra Free Enterprise Tour Guides vedrà i posti, controllerà gli eventi locali, parlerà con le aziende e poi condividerà tutto online. Più di 900 team hanno fatto richiesta per essere scelte come Free Enterprise Tour Guides, e dopo mesi di studio delle varie richieste sono rimasti due team: Jen and John, e Nate and Joe. Puoi votare [qui] una volta al giorno.
Risposta: la prima è un annuncio pubblicitario, la seconda è frutto del lavoro giornalistico di Allen. Come ha spiegato Wemple, all’inizio del 2013 la Camera di Commercio ha organizzato una campagna pubblicitaria su “Playbook” piuttosto frequente (Wemple scrive che una copertura pubblicitaria settimanale su “Playbook” costa 35mila dollari, una cifra notevole se si considera che si tratta di una newsletter), ma ha anche ottenuto diversa pubblicità sotto forma di articoli favorevoli. Lo stesso trattamento, ha aggiunto Wemple, è stato riservato alla British Petroleum e alla Goldman Sachs, due aziende la cui immagine negli ultimi anni ha subìto diversi colpi, a causa rispettivamente del disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico e dell’incriminazione per frode da parte della SEC, ente governativo statunitense preposto alla vigilanza della Borsa valori.
Nel suo articolo, Wemple arriva ad accusare la proprietà del sito Politico definendola «una delle proprietà dei media americani più chiacchierate degli ultimi 10 anni. Che si tratti di una cosa progettata o meno, “Playbook” è diventato il posto dove Politico dà lunghi abbracci ai potenti interessi di Washington, inclusi quelli degli inserzionisti». Mike Allen ha risposto alle accuse di Wemple mandando una mail allo Huffington Post, che ne ha pubblicato alcune parti in un articolo andato online il 14 gennaio. Allen ha respinto tutte le accuse di Wemple, per la verità senza trattare troppo il nodo del problema, ma riferendosi alla sua reputazione e al suo lavoro molto stimato in alcuni ambienti:
«Ho basato la mia carriera sull’onestà e sulla fiducia. Negli ultimi sette anni ci sono state più di 8 milioni di parole su “Playbook”, inclusi centinaia di annunci da parte di moltissimi gruppi, sotto la luce del sole. Si possono scegliere contenuti apposta per creare quello che si vuole; che io sia uno scarso giornalista conservatore, o uno strumento dei liberali, o un pessimo scrittore o un bravo ragazzo. Scrivo Playbook 365 giorni l’anno perché mi piace e ho grande rispetto per i lettori che mi seguono. Prendo le mie decisioni sulla base di una sola considerazione: se un dato contenuto possa servire al mio pubblico.»
“Playbook” ha ricevuto diverse critiche anche da altri importanti giornalisti statunitensi. Andrew Sullivan, uno dei più famosi blogger al mondo – che ha lasciato poco più di un anno fa il Daily Beast per rendere autonomo il suo blog The Dish – ha scritto:
«I lettori di Dish sanno cosa penso del “native advertising” e dei “contenuto sponsorizzati”. La totale chiarezza e trasparenza sono essenziali. Il resto è prostituzione, non giornalismo. Quando un giornalista diventa un autore di testi pubblicitari per grandi inserzionisti che gli danno dei soldi per la pubblicazione, lui o lei smette di essere un giornalista indipendente e si unisce alla professione redditizia delle pubbliche relazioni.
[…] È anche giusto dire come Allen abbia un’incredibile persistenza ed energia come giornalista. Ma ho già notato in passato come Allen dia impazientemente ai potenti una piattaforma, piuttosto che riportarli alle loro responsabilità – e non sembra nemmeno capire che essere un cortigiano a Washington Inc. e il più potente non è la stessa cosa che essere un giornalista.»
Green Greenwald, giornalista statunitense autore di molte inchieste del Guardian sulle attività di sorveglianza della National Security Agency (NSA), ha scritto che l’articolo di Wemple mostra come Allen abbia raggiunto livelli molti bassi prestando il suo giornalismo al miglior offerente. Altre critiche alla newsletter di Allen sono arrivate anche da Nick Confessore, giornalista politico del New York Times, Clara Jeffery, direttore di Mother Jones, e Philip Bump, giornalista di Wire.
Foto: Mike Allen (Alex Wong/Getty Images)