La storia di Samia
Il primo capitolo di «Non dirmi che hai paura», il libro di Giuseppe Catozzella che racconta l'atleta somala che morì cercando di arrivare in Italia
di Giuseppe Catozzella
È uscito in libreria, pubblicato da Feltrinelli, il romanzo di Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura, basato sulla storia di Samia Yusuf Omar, una giovane atleta somala che partecipò alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Tra le altre recensioni, ne ha scritto su Repubblica Roberto Saviano. Questo è l’inizio del libro.
La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli faceva un caldo da morire e stavamo riparati sotto l’ombra stretta di un’acacia.
Era venerdì, il giorno della festa.
La corsa era stata lunga e stancante, eravamo tutti e due sudati fradici: da Bondere, dove abitavamo, siamo arrivati dritti fino allo stadio Cons, senza fermarci mai. Sette chilometri, passando per tutte le stradine interne che Alì conosceva come le sue tasche, sotto un sole talmente cocente da sciogliere le pietre.
Sedici anni in due avevamo, otto a testa, nati a tre giorni di distanza l’uno dall’altra. Non potevamo che essere fratelli, aveva ragione Alì, anche se eravamo figli di due famiglie che non si sarebbero neanche dovute rivolgere la parola e invece vivevano nella stessa casa, due famiglie che avevano sempre condiviso tutto.
Stavamo sotto quell’acacia a prendere un po’ di fiato e di fresco, imbrattati fino al sedere della polvere bianca e sottile che si alza dal fondo delle strade al minimo sbuffo di vento, quando da un momento all’altro Alì se n’è uscito con quella storia della abaayo.
“Vuoi essere mia abaayo?” mi ha chiesto, mentre ancora aveva il respiro spezzato, le mani ai fianchi ossuti, stretti sotto i pantaloncini blu che erano stati di tutti i suoi fratelli prima di finire a lui. “Vuoi essere mia sorella?” Conosci qualcuno per una vita e c’è sempre un momento esatto a partire dal quale, se per te è una persona importante, da lì in poi sarà sorella o fratello.
Legàti per la vita da una parola, si rimane. L’ho guardato storto, senza fargli capire cosa pensavo. “Solo se riesci a prendermi,” ho detto all’improvviso, prima di scattare via di nuovo, in direzione della nostra casa.
Alì deve avercela messa tutta, perché dopo pochi passi è riuscito ad afferrarmi per la maglietta e a farmi inciampare. Siamo finiti a terra; lui sopra di me, nella polvere che si attaccava ovunque, al sudore della pelle e ai vestiti leggeri.
Quasi l’ora di pranzo, in giro non c’era nessuno. Non ho cercato di divincolarmi, non ho opposto resistenza. Era un gioco.
“Allora?” mi ha chiesto, respirandomi il suo fiato caldo sulla faccia e facendosi d’un tratto serio.
Io non l’ho neanche guardato, ho solo strizzato gli occhi schifata. “Mi devi dare un bacio, se vuoi essere mio fratello. Lo sai, sono le regole.”
Alì si è allungato come una lucertola e mi ha schiacciato un bacio bagnaticcio sulla guancia.
“Abaayo,” ha detto lui. Sorella.
“Aboowe,” ho risposto io. Fratello.
Ci siamo rialzati, e via.
Eravamo liberi, di nuovo liberi di correre.
Almeno fino a casa.
La nostra casa non era neanche una casa nel senso normale del termine, come possono essere quelle belle, con tutte le comodità. Era piccola, piccolissima. E ci vivevamo in due famiglie, la nostra e quella di Alì, dentro lo stesso cortile, recintato da un muricciolo d’argilla. Le nostre abitazioni erano proprio una di fronte all’altra, ai due margini opposti dello spiazzo.
Noi stavamo sulla destra e avevamo due stanze, una per me e i miei sei fratelli e l’altra per mamma e papà. Le pareti erano di una miscela, che al sole diventava durissima, di fango e ramaglie. Ma in mezzo alle nostre due stanze, come a dividerci dai nostri genitori, c’era la camera dei padroni di casa, la famiglia di Omar Sheikh, un omone grasso con una moglie ancora più grassa di lui. Loro non avevano figli. Stavano vicino alla costa, ma ogni tanto venivano a passare la notte lì, e quando capitava le giornate diventavano subito molto meno allegre. “Tenetevi le battute e gli scherzi per dopodomani,” diceva Said, il mio fratellone più grande, ogni volta che li vedeva arrivare, riferendosi a quando sarebbero ripartiti.
Alì, invece, con suo padre e i suoi tre fratelli, stava in una stanza sola, addossata al muro a sinistra.
Il posto più bello della casa era il cortile, un cortile grande, ma grande davvero, con in fondo un enorme, solitario eucalipto. Il cortile era così grande che tutti i nostri amici volevano venire da noi a giocare. Come pavimento, in casa e ovunque, la solita terra bianca che a Mogadiscio si infila dappertutto. In camera, per esempio, avevamo steso delle stuoie di paglia sotto i materassi, ma non servivano a molto: ogni due settimane Said e Abdi, i miei fratelli maggiori, dovevano uscire e sbatterle con tutta la forza per cercare di eliminare ogni singolo granello di polvere.
Quella casa era stata costruita dal grassone Omar Sheikh in persona, tanti anni prima. L’aveva voluta proprio attorno a quel maestoso eucalipto. Passandoci davanti, ogni giorno fin da quando era bambino, si era innamorato di quell’albero, così ci aveva raccontato un’infinità di volte con la sua vocina ridicola che gli si strozzava in gola. A quel tempo l’eucalipto era già grande e forte, e lui aveva pensato: voglio che la mia casa sia qui. Poi, sotto la dominazione del dittatore, erano cominciati i problemi con gli affari e sembrava che stesse arrivando la guerra; quindi aveva pensato di trasferirsi in un posto più tranquillo e aveva affittato le tre stanze alle nostre due famiglie, la mia e quella di Alì.
In fondo a tutto c’era la capanna per il bagno in comune. Un quadrato minuscolo chiuso da fitte canne di bambù con al centro un buco nauseabondo, dove facevamo i nostri bisogni.
Poco prima della latrina, sulla sinistra c’era la camera di Alì. Sulla destra, di fronte, la nostra: quattro metri per quattro e sette materassi a terra.
Al centro dormivano i fratelli maschi e ai bordi stavamo noi quattro femmine, Ubah e Hamdi sulla parete sinistra e io e Hodan, la mia sorella preferita, addossate a destra. In mezzo a noi, come un inesauribile focolare che ci proteggeva, dominava l’immancabile ferus, la lampada a petrolio senza la quale Hodan non avrebbe mai potuto leggere e scrivere le sue canzoni fino a tardi, e Shafici, il minore dei maschi, non avrebbe potuto esibirsi nei suoi spettacoli di ombre sul muro che ci facevano morire dal ridere per quanto erano sgraziate e malriuscite. “Fai dei gran spettacoli di ombre e molta immaginazione,” gli diceva Said.
Insomma, prima di dormire, ogni sera, chiusi in sette in quella cameretta, ci divertivamo un mondo, cercando di non farci sentire troppo da mamma e papà e da Yassin, il padre di Alì, che con lui e i suoi tre fratelli maschi dormiva lì di fronte. A pochi passi da me. Nati a tre giorni di distanza e divisi da pochi, pochissimi passi.
Da quando siamo venuti al mondo, ogni giorno io e Alì abbiamo condiviso il cibo e il bagno. E ovviamente i sogni e le speranze, che nascono insieme al mangiare e alla cacca, come dice sempre aabe, mio padre.
Niente ci ha mai separati. Alì per me è sempre stato come una seconda Hodan, e Hodan un aggraziato Alì. Siamo sempre stati in tre, solo noi tre, il nostro mondo era perfetto, non c’era niente che avrebbe potuto dividerci. Anche se lui è un darod e io una abgal, i clan in guerra da otto settimane prima che noi nascessimo, nel marzo del 1991.
Ultimi a nascere, le nostre madri hanno covato noi mentre i clan covavano la guerra, nostra sorella maggiore, come ci hanno sempre detto mamma e papà. Una sorella cattiva, ma pur sempre qualcuno che ti conosce alla perfezione, che sa benissimo quanto è facile farti felice o triste.
Vivere nella stessa casa, come io e Alì facevamo, era proibito. Avremmo dovuto odiarci, come si odiavano gli altri abgal e darod. E invece no. Invece abbiamo sempre fatto di testa nostra, mangiare e bisogni inclusi.
La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli ci stavamo allenando per la gara annuale di corsa tra i quartieri di Mogadiscio. Mancavano due settimane, e mi sembravano infinite. Il giorno della gara era il più importante dell’anno, per me. Il venerdì era festa e anche coprifuoco, quindi si poteva andare in giro tranquilli, e correre per le vie della città, in mezzo a tutto quel biancore.
Tutto è bianco, a Mogadiscio.
I muri degli edifici, bucherellati dai proiettili o mezzi abbattuti dalle granate, sono quasi tutti bianchi, o grigi, o ocra, o giallini; comunque, chiari. Anche le case più povere, come la nostra, fatte di fango e ramaglie, presto diventano bianche come la terra delle strade, che si deposita sulle facciate come su ogni altra cosa.
Quando corri per Mogadiscio, dietro di te alzi una nube di polvere fine. Io e Alì creavamo due scie bianche che piano piano andavano a sfumare verso il cielo. Percorrevamo sempre lo stesso itinerario, quelle strade erano diventate il nostro campo di allenamento personale.
Quando passavamo di fianco alle baracche dei bar dove stavano seduti i vecchi a giocare a carte o bere shaat, la nostra polvere andava a finire nei loro bicchieri. Sempre. Lo facevamo apposta. Allora quelli fingevano di alzarsi per correrci dietro, e noi acceleravamo e in un secondo li seminavamo, alzando ancora più polvere. Era diventato un gioco, ridevamo noi e ridevano un po’ anche loro. Dovevamo stare attenti a dove mettevamo i piedi, però, perché la sera si bruciava la spazzatura e le strade, la mattina dopo, erano disseminate di resti carbonizzati. Taniche di benzina, lattine di olio, pezzi di copertone, bucce di banana, cocci di bottiglie, c’era di tutto. In lontananza, mentre correvamo, si scorgevano tanti cumuli fumanti, tanti piccoli vulcani in eruzione.
Prima di infilarci nelle stradine più strette che portavano alla grande strada che costeggia il mare, passavamo sempre per Jamaral Daud, un ampio viale a due carreggiate, ricoperto dalla solita terra, e con due file di acacie ai lati.
Ci piaceva vedere sfilare di corsa l’altare della Patria, il parlamento, la biblioteca nazionale, il tribunale. Lì davanti si fermavano i venditori ambulanti: i teli colorati per terra su cui appoggiavano le loro mercanzie, dai pomodori e le carote ai tergicristalli per le auto. Stavano appisolati sotto gli alberi sul viale finché non arrivava qualche cliente, e quando noi passavamo ci guardavano come due marziani. Ci prendevano in giro.
“Dove andate così di fretta, voi due mocciosi? È giorno di festa, festeggiate e state tranquilli,” dicevano quando gli passavamo di fianco.
“A casa da tua moglie andiamo, vecchio dormiglione!” rispondeva Alì. A volte ci tiravano dietro una banana, o un pomodoro, o una mela.
Alì si fermava, li raccoglieva e poi schizzava via.
La gara era un evento, a me sembrava che fosse un giorno addirittura più importante del primo luglio, la data della liberazione dai coloni italiani, la nostra festa nazionale.
Come al solito io volevo vincere, ma avevo solo otto anni, e partecipavano tutti, anche gli adulti. Alla gara dell’anno prima ero arrivata diciottesima, e questa volta volevo tagliare il traguardo tra i primi cinque.
Non dirmi che hai paura.indd 12 03/12/13 15:29 13 Quando mio padre e mia madre mi vedevano così motivata, fin da piccola, cercavano di capire cosa mi frullasse nella testa.
“Anche questa volta vincerai, Samia?” mi chiedeva ironico aabe Yusuf, papà. Seduto in cortile su una sedia di paglia mi tirava a sé, e con quelle sue enormi mani mi scompigliava i capelli. Io mi divertivo a fare lo stesso con lui, a passare le mie dita corte e magroline in mezzo a quella sua massa folta e nera, oppure a battergli il petto sulla camicia di tela bianca. Allora lui mi afferrava e, grande e grosso com’era, mi alzava per aria con un braccio solo, poi mi riappoggiava sulle sue cosce. “Non ho ancora mai vinto, aabe, ma presto lo farò.”
“Sembri un cerbiatto, lo sai Samia? Sei la mia cerbiattina preferita,” diceva allora, e sentire il suo vocione profondo diventare dolce mi faceva tremare le ginocchia.
“Aabe, sono veloce come un cerbiatto, non sono un cerbiatto…”
“E sentiamo… come credi di poter vincere contro quei ragazzi più grandi di te?”
“Andando più veloce di loro, aabe! Forse ancora no, ma un giorno sarò la più veloce di tutta Mogadiscio.”
Lui scoppiava a ridere, e se c’era vicina mia madre, hooyo Dahabo, rideva forte anche lei.
Ma subito dopo, quando ancora mi teneva stretta, aabe diventava malinconico. “Un giorno, certo, piccola Samia. Un giorno…”
“Sai, aabe, certe cose si sanno. Io lo so da quando ancora non parlavo bene che un giorno sarò una campionessa. È da quando ho due anni che lo so,” cercavo di convincerlo.
“Beata te, piccola Samia. Io invece vorrei solo sapere quando finirà questa maledetta guerra.”
Poi mi metteva giù e tornava a fissare accigliato davanti a sé.
© Giangiacomo Feltrinelli editore Milano
© 2014 by Giuseppe Catozzella
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