Le canzoni di American Hustle
Grandissimi pezzi degli anni Settanta che fanno buona parte del film: una guida per recuperarli quando tornate a casa dal cinema
American Hustle, uno dei film americani più importanti e apprezzati di questa stagione – dato tra i candidati a un numero cospicuo di premi Oscar – è ispirato a una storia vera ambientata tra New York e il New Jersey negli anni Settanta: e uno dei suoi pregi è un’accurata ricostruzione della scena estetica degli anni Settanta, nei costumi, nelle abitudini, e nella musica. Per la colonna sonora sono stati scelti infatti soprattutto classici di quel periodo – tra il rock e la discomusic – con un paio di deroghe e un uso molto curato delle canzoni nelle varie scene, di quelli che poi uno che vede il film va a casa e si chiede cosa fosse, quella canzone, o cerca di ricordarsene, a seconda dell’età. Ecco qua.
Jeep’s Blues, Duke Ellington (1936)
Duke Ellington, uno dei più grandi jazzisti di tutti i tempi, pianista e compositore, la scrisse per far fare un figurone al sassofonista della sua big band, Johnny Hodges (Jeep è lui), e in effetti riuscì a farla arrivare fino a un film di 77 anni dopo e a farci nascere intorno una love story.
Goodbye Yellow Brick Road, Elton John (1973)
La strada dei mattoni gialli del titolo viene dal Mago di Oz. L’idea di Elton che molla tutto e torna dal vecchio gufo nel bosco, fa un po’ ridere: chissà il gufo, quando se lo vede comparire davanti.
10538 Overture, Electric Light Orchestra (1972)
Il primo singolo della storia dell’Electric Light Orchestra, fenomeno musical-circense di grandissima fantasia melodica, l’ELO fu praticamente inventata e tenuta in vita solo da Jeff Lynne (nel film se ne usano anche altri tre pezzi) attraverso molti cambi di formazione. Imparagonabile a qualsiasi altra cosa per l’attitudine all’uso di archi e orchestre e per il debole verso i contenuti astrospaziali, è sempre stata vista come una roba troppo svenevole dai critici e dagli amanti del rock.
Does Anybody Really Know What Time It Is?, Chicago (1969)
Si dice che la prima volta che i Chicago suonarono dal vivo una canzone loro sia stata questa (e si chiamavano ancora Chicago Transit Authority: ma la società dei trasporti cittadina protestò per l’impostura, e loro accorciarono). Chissà se c’era già il lungo intro di pianoforte, assai superfluo. Ma quando attaccano i fiati, e arriva lui che pare Bacharach, è la fine del mondo. La storia è che tutti sono così presi e impegnati a non perdere tempo che non sanno più nemmeno che ora sia.
Dirty Work, Steely Dan
Uno dei pezzi usati meglio nel film, nella scena al rallentatore all’inizio della storia. Gli Steely Dan erano un duo di geni newyorkesi che misero insieme la band più sofisticata ed elegante della storia del rock, partendo da cori soft rock e arrivando presto a inclinazioni jazz e perfezionismo da sala di registrazione (e fastidio complementare per i palcoscenici). Questa era nel loro primo disco, eccellente.
I saw the light, Todd Rundgren (1972)
Canzone di gran pop solare e allegro: lui è un 65enne cantautore americano che ha attraversato decenni e generi raccogliendo stime e fan soprattutto negli Stati Uniti (fuori lo conoscono gli appassionati).
Papa was a Rollin’ Stone, The Temptations (1972)
Pezzo unico nella storia del soul, in questa versione – era già uscito un anno prima per un’altra band – lunghissima e dall’andamento inconfondibile col giro di basso e tutte le altre inventive parti strumentali. L’incisione fu faticosa e ricca di tensioni, che i Temptations non erano convinti di tanta invenzione da parte del produttore Norman Whitfield rispetto al loro repertorio soul più tradizionale.
The Jean Genie, David Bowie (1972)
Pezzone tosto di Bowie, che lui scrisse a New York per far colpo su un’attrice del giro di Andy Warhol, con un protagonista ispirato a Iggy Pop e un titolo ispirato al nome dello scrittore francese Jean Genet.
Live And Let Die, Wings (1973)
“Vivi e lascia morire” fu il primo film di 007 con Roger Moore, nel 1973. Come molti altri film della serie, si presentò con una canzone originale composta da una grande popstar (poi vennero Carly Simon, i Duran Duran, Nancy Sinatra, Tina Turner). In quel caso, “Live and let die” era composta da Paul McCartney ed eseguita dalla sua band dei Wings. (Poi, nel 1991, la canzone fu ripresa dai Guns’n’Roses all’apice del loro successo, che quell’anno incisero anche una cover di “Knockin’ on heaven’s door”).
Un passaggio di “Live and let die” è stato un po’ addomesticato per diventare lo stacchetto di Matrix, quando il conduttore chiama la pubblicità.
How Can You Mend A Broken Heart, The Bee Gees (1971)
La canzone dei Bee Gees aveva qualcosa di soul (enfatizzato in una celebre cover di Al Green) e qualcosa di western nel ritmo della chitarra, e qualcosa di tutto. Il tema è il solito di sfigataggine sentimentale giovanile, il ritornello è un classico (“Come pensi di riparare un cuore infranto? Come pensi di impedire al sole di splendere?”), ma il momento perfetto si innalza quando fa “we could never see tomorrow…”. “Niente di che, l’ho scritta in un’ora”, ne disse Robin Gibb.
I Feel Love, Donna Summer (1977)
La techno prima della techno, inventata da Moroder, produttore altoatesino di recente rilanciato dal disco dei Daft Punk. Una pietra miliare della storia della discomusic ma anche della musica elettronica. Meno gemiti del suo precedente successo “Love to love you baby”, ma la stessa eccitazione ripetitiva e trascinata. Potrebbe andare avanti ore (e infatti ne fioccarono remix ed estensioni).
Delilah, Tom Jones (1967)
Una baracconata da spellarsi le mani, un valzerone con trombonate messicane pronto per i cori da stadio – “my, my, my, Delilah!” – da cantare ondeggiando da destra a sinistra (peraltro, lui aspetta che l’amante di lei se ne vada per piombarle in casa e accoltellarla, a Dilàila). Nel film infatti fa da colonna sonora al momento “Little Italy” del sindaco, contrapposta alle cose anni Settanta del resto della storia. Conobbe altrettanto successo nella versione italiana di Jimmy Fontana (“La mia favola”, ripresa anche dai Ribelli).
A Horse With No Name, America (1971)
Uno dei classici da west coast dell’epoca, anche grazie a un equivoco: molti pensarono per anni fosse una canzone di Neil Young. La band ha sempre negato che il cavallo e il deserto di cui si parla fossero una metafora dell’uso di stupefacenti, ma non è bastato a fugare i sospetti: per scrivere cose come “the heat was hot” – ovvero “il caldo era caldo” – qualcosa bisogna aver preso. Anche l’accavallarsi di negazioni nel verso “’cause there ain’t no one for to give you no pain” è ben strano: “colloquiale”, lo definì uno degli autori. Magari poi parla del deserto, e di un cavallo, va’ a sapere. Magari.
Don’t Leave Me This Way, Harold Melvin & The Blue Notes (1975)
Grande classico del soul di Philadelphia, ottenne il maggiore successo (in entrambe le versioni) quando ne fece una cover l’anno dopo Thelma Houston, dopo che era stata in ballo per Diana Ross. Da allora è un riempipista da singalong – tutti a urlare “BEIBE!” – ma negli anni Ottanta diventò anche un inno alla resistenza contro l’AIDS delle comunità omosessuali americane.