La Francia è in declino?
Sì, sia economicamente che culturalmente, secondo tre articoli usciti negli ultimi giorni su tre grandi testate statunitensi: ma i francesi non sono d'accordo e ribattono
Negli ultimi giorni tre importanti testate statunitensi – New York Times, Newsweek e Bloomberg Businessweek – hanno pubblicato tre articoli che, da diversi punti di vista, affermano come la Francia sia avviata verso un lento e grave declino. La questione, in particolare quella descritta da Newsweek, ha suscitato molte reazioni e dissensi sui principali giornali francesi, nelle trasmissioni televisive e da parte di vari esponenti politici.
Un paese autentico e un paese di impostori
Sul New York Times Justin E. H. Smith, professore di storia e filosofia all’Università di Parigi Diderot, sostiene che è sempre più diffusa e supportata l’opinione che esistano due diversi paesi: una Francia “autentica” e una Francia di “impostori”, e che il problema percepito come il più grande del paese sia la presenza di minoranze etniche e immigrati che compromettono l’identità della Francia stessa.
Il professore, che è di origine statunitense e che si è trasferito in Francia per insegnare, spiega di trovarsi in una posizione privilegiata e di essere considerato una specie particolare di straniero che non è oggetto di discriminazioni: in quanto statunitense viene infatti considerato non un immigrato, ma un espatriato – una persona arrivata in Francia non per motivi economici, per sopravvivere, per ritrovare la libertà, per approfittare delle risorse francesi o per minacciare la tradizione, ma piuttosto per celebrarla. Questo pregiudizio, spiega, non è diffuso solo tra le persone per le strade ma implicitamente inscritto nel sistema, supportato dalla retorica dei politici e degli intellettuali («o presunti tali») che trovano comodo «dare la colpa alle persone più impotenti della società francese per giustificare l’instabilità del presente e l’incertezza di futuro».
Justin E. H. Smith fa un esempio: presso gli uffici immigrazione – dove tutti gli stranieri, lui compreso, devono o hanno dovuto recarsi per il permesso di soggiorno – i maliani e i congolesi sono ricevuti in una stanza, gli americani e gli svedesi in un’altra. Per i primi «le procedure hanno l’aria di una quarantena e l’atteggiamento dei funzionari assomiglia a quello delle guardie carcerarie», per i secondi la visita all’ufficio immigrazione sembra essere piuttosto una cerimonia di benvenuto.
L’uguaglianza è uno dei principi su cui la Repubblica francese è stata fondata, ma i critici della filosofia illuminista che sta dietro la Rivoluzione hanno da tempo notato un doppio standard: quando viene richiamata l’uguaglianza si parla in realtà di “uguaglianza tra pari”. La disuguaglianza politica e sociale permane come fosse radicata in una sorta di “disuguaglianza naturale”. Tale convinzione portò per esempio alla reazione negativa e aggressiva della Francia nei confronti della rivoluzione guidata da François-Dominique Toussaint Louverture ad Haiti verso la fine del Diciottesimo secolo, ispirata dagli eventi del 1789 e a un’idea di uguaglianza universale. François-Dominique Toussaint Louverture fu catturato dai bonapartisti e morì prigioniero in Francia. Il doppio standard continuò a essere applicato: l’uguaglianza nella Francia continentale era un principio assoluto, mentre nelle colonie doveva essere coltivata, conquistata e sottoposta alla dimostrazione di una piena realizzazione dell’identità francese. Nella modernità il doppio standard ha continuato a funzionare a livello locale verso chi è immigrato.
Smith spiega anche di essere diventato un filosofo immaginando che questo gli avrebbe permesso di superare una visione locale e provinciale del mondo e di diventare un vero cosmopolita. Eppure, precisa, «la storia dimostra che molti pensatori, come risultato della loro formazione filosofica, crescono sempre più attaccati alla loro identità nazionale o etnica» e che «questa tendenza sembra particolarmente diffusa oggi in Europa e soprattutto in Francia» dove prolificano questa «sotto-specie di filosofi e intellettuali pubblici i cui proclami, attraverso i mass media francesi, risultano perfettamente comprensibili. E non solo semplici, decisamente semplicistici e spesso del tutto irresponsabili». Un esempio è Alain Finkielkraut, il cui padre era un immigrato polacco sopravvissuto ad Auschwitz, che in un libro divenuto in Francia molto popolare (L’identité malheureuse), sostiene che l’immigrazione sta distruggendo e imbastardendo l’identità culturale francese. Smith scrive che con la sua attività – Alain Finkielkraut partecipa spesso a trasmissioni in tv e alla radio ed è intervistato sui giornali – alimenta la xenofobia in Francia, già esacerbata, come altrove in Europa, dalla recente incertezza economica.
Il malato d’Europa
L’articolo di Bloomberg Businessweek analizza la situazione francese dal punto di vista dell’andamento economico. Sostiene che tra le quattro più grandi economie del continente europeo, la Francia è l’unica in cui le imprese hanno dati negativi: «La Francia ora si distingue come il malato d’Europa, mentre tanti altri paesi hanno fatto dei piccoli passi avanti. Quello di cui la Francia avrebbe bisogno è una riforma strutturale».
È della stessa opinione Newsweek, che affronta l’argomento in due diversi articoli intitolati “La caduta della Francia”. Il primo è stato scritto il 3 gennaio scorso da Janine di Giovanni, giornalista americana che risiede a Parigi, ed è stato ripreso il 6 gennaio da un secondo articolo firmato stavolta dalla giornalista Leah McGrath Goodman, che sostiene le stesse tesi presentando una serie di dati sull’economia francese presi da una nota della Commissione europea per gli Affari Economici e Finanziari del 2013.
Partendo da un’analisi economica e dal funzionamento dello stato francese, la tesi sostenuta da Newsweek è che tanti dirigenti, imprenditori, innovatori, creativi e pensatori francesi (tutte figure che «potrebbero contribuire alla crescita») stiano cercando fortuna altrove piuttosto che restare nel loro paese. Scrivono che mezzo litro di latte costa ormai 3 euro, che le tasse possono arrivare al 75 per cento, che avviare una nuova impresa o licenziare i «dipendenti inutili» è molto complicato e che la parola francese per indicare un “imprenditore” non esiste o è ormai caduta in disuso. Allo stesso tempo, parlano di uno «stato bambinaia» di cui molti approfittano e che genera continui sprechi: la spesa pubblica rappresenta più del 50 per cento del PIL. Infine, spiega Janine di Giovanni, la Francia è un paese con un forte amor proprio, che ha ancora ambizioni da leader in Europa e da potenza mondiale, ma che è semplicemente «ripiegata sul proprio ombelico» e che si rifiuta di guardare oltre i propri confini. Basti pensare, dice, che al World Economic Forum che si svolge ogni anno a Davos, la Francia è sempre notevolmente sottorappresentata e che l’anno scorso ha inviato un sottosegretario «perché era l’unico nel governo a saper parlare fluentemente inglese».
Per tutti questi motivi, conclude Newsweek, in Francia si sta replicando quello che è già avvenuto nel 1685 con la revoca dell’editto di Nantes da parte di Luigi XIV, che fino a quel momento aveva protetto e tutelato i protestanti francesi di confessione calvinista, gli Ugonotti. Il risultato fu che quasi 700mila Ugonotti fuggirono dalla Francia per cercare asilo in altri paesi. Gli Ugonotti, però, nota la giornalista, erano «le api operaie della Francia» e portarono via con sé «numerose e diverse competenze: fu una prima e notevole fuga di cervelli».
La reazione
Gli articoli di Janine di Giovanni e di Leah McGrath Goodman su Newsweek hanno provocato molte reazioni e proteste in Francia. La portavoce del governo Najat Vallaud-Belkacem ha invitato i lettori della rivista americana a venire a verificare di persona la situazione del paese visitando Parigi.
J’invite tous les lecteurs de Newsweek à visiter la France telle qu’elle est. Loin des clichés, elle n’en est pas moins digne de fantasmes.
— Najat Belkacem (@najatvb) 7 Gennaio 2014
Il ministro dell’Economia Pierre Moscovici ha parlato di «tristezza» nel constatare la fine di una rivista che fino a qualche tempo fa era «un punto di riferimento internazionale» e si chiede perché in Francia, se la situazione è tanto grave, ci siano 4 mila imprese americane. Ha inoltre detto che l’articolo dovrebbe essere «un caso di studio nelle scuole di giornalismo». Anne Sinclair, direttrice dell’edizione francese dell’Huffington Post, ha scritto un editoriale in cui dice che nel pezzo della rivista americana ci sono «solo stupidaggini» e che è solo l’esempio di una nuova moda del giornalismo anglosassone, quella del “french-bashing” (bastonare i francesi): «L’articolo è stato scritto da una giornalista molto conosciuta, a quanto pare, per la qualità dei suoi reportage di guerra in Medio Oriente. Ma deve essersi confusa fra Parigi e Beirut, magari dopo un veglione troppo innaffiato da Dom Pérignon rosé o da Chateau Margaux».
Il quotidiano Le Monde ha replicato a entrambi gli articoli con un fact-checking in cui sono stati ripresi frase per frase tutti i punti elencati dalle due giornaliste di Newsweek. Si dice per esempio che la frase presente nella nota della Commissione europea (che parla di «squilibri macroeconomici che richiedono monitoraggio e azioni politiche decisive») è stata inviata identica ad altri nove paesi nella stessa settimana, che i dati riportati sulla recessione in Francia e sulla disoccupazione non sono corretti, che la parola per dire “imprenditore” in francese esiste (è “entrepreneur”) e che in base a una statistica su Google non è affatto caduta in disuso. Si spiega come il numero dei francesi residenti all’estero sia diminuito tra il 2011 e il 2012, che il prezzo medio di un litro di latte sia più basso di quanto scritto e che la Francia è il terzo paese dell’Unione europea a investire all’estero. Le Monde – che oggi sulla prima pagina del sito ha pubblicato un articolo intitolato “Otto ragioni per non disperare della Francia” – conclude che in entrambi gli articoli ci sono insomma «un numero incredibile di errori fattuali che escludono buona parte della credibilità di questa requisitoria».