I Monuments Men in Italia
La storia dei soldati inglesi e americani che nel 1943 arrivarono in Italia per salvare le opere d'arte dalla guerra
Nell’autunno del 1943 il capitano Edward Croft-Murray sbarcò a Trapani, in Sicilia. Era un ufficiale diverso dalle altre decine di migliaia di uomini che dal 10 luglio di quell’anno erano sbarcati sulla stessa spiaggia. Le sue armi erano taccuini, matite e guide Baedeker. Aveva 36 anni, quindi era abbastanza anziano per gli standard dell’esercito. Nella vita civile, che aveva lasciato pochi anni prima, era un curatore della sala delle stampe del British Museum, oltre che un collezionista di strumenti musicali antichi. Croft-Murry, con i suoi taccuini, era il primo ufficiale del “Monuments, Fine Arts, and Archives Program” (MFAA) a sbarcare in Italia. Il suo compito, insieme a quello di altri 26 ufficiali che sarebbero arrivati in Italia prima della fine della guerra, era proteggere, ristrutturare e recuperare il patrimonio artistico italiano in zona di guerra.
La storia di questi strani soldati viene raccontata nel prossimo film di George Clooney, “The Monuments men”, che uscirà in Italia il 14 febbraio 2014 (qui il trailer), e in un bel libro uscito in Italia per Sperling & Kupfer. Nel film si racconta la storia degli uomini del MFAA sguinzagliati in tutta Europa a caccia delle opere d’arte rubate dai nazisti. Lo Smithsonian Magazine ha pubblicato un lungo articolo in cui si concentra solo su alcuni di questi “Monuments men”: proprio quei 27 che dovettero occuparsi dell’Italia, il luogo dove il lavoro era più difficile, perché di monumenti da proteggere ce ne erano molti di più.
I Monumemets Men
L’idea che la guerra non solo dovesse risparmiare il patrimonio artistico e culturale, ma che addirittura uomini, energie e mezzi dovessero essere spesi a questo scopo, era nuova negli anni Quaranta. Quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, il 10 luglio 1943, il presidente degli Stati Uniti Franklyn Delano Roosevelt aveva già accettato una proposta formulata da professori, accademici e istituzioni museali americane: formare una commissione che aiutasse il ministero della Guerra a proteggere il patrimonio artistico europeo. Negli stessi mesi, il primo ministro inglese Winston Churchill creò nel Regno Unito un’istituzione del tutto simile.
(Tutti i siti UNESCO in Italia)
Dal 1943 e poi nel 1944, questi dipartimenti fornirono alle aviazioni alleate mappe aeree delle principali città europee contrassegnate con i luoghi da non bombardare (non furono sempre ascoltati, come nei casi di Amburgo e Dresda). Quando i primi stivali dei soldati alleati misero piede in Italia il programma venne ingrandito. I monumenti ora non erano minacciati soltanto dalle incursione aeree, ma anche dai combattimenti a terra.
Questo moltiplicava i rischi, ma dava anche un’opportunità. Mano a mano che nuovi territori venivano liberati, sarebbe stato possibile intervenire per preservare i monumenti danneggiati e mettersi a caccia del patrimonio artistico rubato. Così, nell’autunno del 1943, alle truppe che combattevano al suolo vennero affiancati gli uomini del MFAA. Erano architetti, bibliotecari, archeologi e storici dell’arte, americani e inglesi in parti uguali. Il loro compito era effettuare gli interventi di “primo soccorso” nei confronti delle opere storiche danneggiate e, contemporaneamente, sensibilizzare le truppe sull’importante di tutelare il patrimonio artistico. In breve divennero noti come Monuments Men, gli uomini dei monumenti.
Nella pratica le cose furono molto più difficili di come sembravano sulla carta e molte delle difficoltà arrivarono dagli stessi eserciti alleati. I Monuments Men facevano parte della AMGOT, cioè quella branca delle forze alleate che si doveva occupare di gestire il governo civile nei territori occupati. Gli AMGOT, ovviamente, non erano molto amati dagli altri soldati: non dovevano combattere sul fronte, non dovevano marciare nel fango o restare nelle trincee al freddo. Arrivavano solo dopo la fine della battaglia, occupavano i palazzi più belli della città e cominciavano a riorganizzare la vita civile (da qui il modo ironico con cui veniva interpretata la sigla: Aged Military Gentlemen on Tour, “anziani gentiluomini militari in vacanza”). Tra gli AMGOT, i Monuments Men erano considerati ancora più alieni dai soldati di prima linea, anche perché in prima linea li vedevano spesso: a bordo di vecchie automobili, mentre raggiungevano colonnelli e generali e ordinavano loro di non bombardare questo o quest’altro monumento storico.
Le prime operazioni che i Monuments Men fecero in Sicilia furono una specie di paradigma per tutto il resto della guerra. La campagna di Sicilia era stata particolarmente dura. Molte città, soprattutto sulla costa, erano state pesantemente danneggiate dai combattimenti e decine di tetti di chiese e di palazzi storici erano stati distrutti dall’artiglieria. C’erano due ordini di problemi da affrontare. Il primo era evitare altri danni. Il sole dell’estate e poi le piogge dell’autunno rischiavano di dare il colpo di grazia ai mosaici, alle statue e alle opere d’arte contenute nei palazzi scoperchiati. Il secondo problema era che per permettere la ricostruzione era fondamentale raccogliere i cocci, in senso letterale: bisognava mettere insieme i pezzi degli affreschi crollati, delle colonne e dei mosaici, catalogarli e ordinarli in attesa del restauro futuro.
I Monuments Men dovettero affrontare questi compiti tra un numero incredibile di difficoltà. La più grossa, naturalmente, era che c’era una guerra in corso. La priorità degli alti comandi era fornire risorse alle truppe di prima linea e questo significava che c’erano pochi veicoli e benzina da risparmiare per i Monuments e le loro attività. Ad esempio, per buona parte della campagna di Sicilia il capitano Mason Hammond, professore di latino ad Harvard, fu costretto a girare su una vecchissima automobile Balilla italiana. Nonostante queste difficoltà, i Monuments, con l’aiuto dei soprintendenti alle belle arti e di gruppi di operai italiani, riuscirono a mettere in sicurezza decine di siti e a iniziare la ricostruzioni di monumenti importantissimi che sembravano ormai perduti, come la Cattedrale di Palermo.
Montecassino
Quando il fronte si spostò dalla Sicilia all’Italia continentale, le cose peggiorarono anziché migliorare. Gli alleati si aspettavano una campagna facile e rapida (“una pugnalata all’ascella della Germania” l’aveva chiamata Churchill), ma invece finirono intrappolati in una serie di estenuanti battaglie dove i tedeschi fecero buon uso del terreno montagnoso degli Appennni. Gli alleati impiegarono nove mesi a risalire i 200 chilometri che separavano Napoli da Roma.
Uno dei “fallimenti” dei Monuments Men avvenne proprio in questa fase (e l’articolo dello Smithsonian non gli dedica molto spazio). Nel gennaio del 1944 le truppe americani che avanzavano lungo la costa tirrenica dell’Italia si trovarono davanti una delle posizioni meglio fortificate di tutta l’Italia: Montecassino. Il piccolo paese, che oggi si trova in provincia di Frosinone, è alla convergenza di diverse valli e rappresenta un punto di passaggio obbligato per procedere da sud verso Roma.
I tedeschi avevano fortificato la città e le montagne circostanti, tra cui il monte su cui sorge l’abbazia di Montecassino. Si tratta di uno dei monasteri più antichi del mondo, fondato dal San Benedetto da Norcia nel VI secolo. Conteneva una delle biblioteche più antiche e importanti dell’Occidente oltre che un’immensa collezione di opere d’arte (molte delle quali vennero portate via dall’esercito tedesco prima dell’inizio della battaglia e vennero più tardi recuperate proprio dai Monuments).
Il monastero, come venne confermato nel dopoguerra, non venne mai occupato da truppe tedesche all’inizio della battaglia. Ma la zona di Montecassino era facile da difendere anche senza dover occupare il monastero. Per un mese gli alleati cercarono di prendere la vallata, ma senza successo. Grazie alle loro posizioni sulle colline intorno al monastero, i tedeschi erano sempre in grado di osservare i movimenti degli Alleati che continuavano ad essere colpiti da bombe e artiglieria senza capire da dove provenissero. Molti soldati in quei giorni descrissero l’effetto psicologico che aveva su di loro il monastero, con la sua forma massiccia e minacciosa. Alla fine, a metà febbraio, i comandanti locali persuasero il generale Mark Clark a ordinare la distruzione del monastero. Il 15 febbraio 1944 circa duecento bombardieri attaccarono l’abbazia, sganciando oltre mille tonnellate di bombe.
Il monastero venne completamente sventrato, anche se, incredibilmente, alcune delle mura esterne rimasero in piedi. La distruzione del monastero non cambiò le sorti della battaglia, anzi. Con l’edificio distrutto, le truppe tedesche poterono finalmente occupare la sommità della collina e trincerarsi tra le macerie. Gli alleati dovetero combattere altri tre mesi per riuscire finalmente ad aggirare la posizione e costringere i tedeschi a ritirarsi. Fortunatamente la maggior parte dei documenti era stata portata in salvo, ma l’edificio originale venne completamente distrutto e quello che si può vedere ora è una ricostruzione, realizzata tra il 1948 e il 1955.
L’ultima campagna
Roma venne liberata il 4 giugno e gli americani trovarono una città quasi priva di danni (il primo bombardamento, uno dei pochi, fu quello del quartiere San Lorenzo). Per qualche tempo i Monuments si stabilirono in città, frequentando la comunità di intellettuali romani che non vedeva l’ora di riprendere la vita normale. I Monuments aiutarono anche ad organizzare una mostra di 48 quadri a Palazzo Venezia nell’agosto del 1944. Tra i vari Monuments, racconta lo Smithsonian, Croft-Murray era il più apprezzato perché “rideva e gesticolava come un italiano”.
L’ultima fase della campagna, nell’estate e inverno del 1944, fu la più importante: gli alleati stavano entrando in Toscana e i Monuments sapevano che sarebbe stato uno delle zone dove ci sarebbe stato più lavoro da fare. In realtà, tutto dipendeva dalla decisioni dei tedeschi. Dove sceglievano di ritirarsi i Monuments trovavano città, come Siena a Roma, praticamente illese. Dove invece decidevano di trincerarsi e resistere, come ad Arezzo, monumenti, chiese e musei finivano devastati. In certi casi la distruzione era meditata, come quando ritirandosi da Firenze i tedeschi fecero saltare in aria tutti i ponti sull’Arno (tranne Ponte Vecchio).
I Monuments vennero aiutati dai sopraintendenti alle belle arti e dai nobili toscani che, con l’avvicinarsi della linea del fronte, aveva spostato decine di opere d’arte e le avevano nascoste nei castelli della campagna. In questa fase, finalmente dotati di jeep americane e di benzina sufficiente, i Monuments si spostavano da un borgo all’altro, da un castello a quello vicino, cercando e catalogando le opere sparite dai musei. Soltanto a Firenze ritrovarono circa tremila casse di dipinti, sculture, libri e interi archivi. I Monuments trovarono statue di Michelangelo impacchettate nel garage della Villa di Torre a Cona, poco lontano da Firenze. Centinaia di dipinti degli Uffizi e della pinacoteca di Palazzo Pitti vennero ritrovati nel castello di Montegufoni.
Per compiere questi recuperi bisognava spesso arrivare pericolosamente vicino alla linea del fronte e rischiare di essere colpiti dall’artiglieria tedesca o, altrettanto spesso, da quella alleata. Ma anche lontano dalla linea del fronte c’erano parecchi pericoli. Le strade erano minate e spesso le case e i castelli venivano riempiti di trappole esplosive. Una delle preferite dai genieri tedeschi consisteva in una piccola carica esplosiva attaccata a un quadro lasciato deliberatamente storto. La filosofia di questo tipo di trappola era che quando i semplici soldati entravano in una stanza con un quadro storto l’avrebbero ignorato. Ma un ufficiale inglese, con la sua tipica pignoleria, non avrebbe resistito alla tentazione di raddrizzarlo, innescando così la trappola. Uno dei Monuments scrisse a casa per rassicurare sulla sua prudenza: “Non raddrizzo mai i quadri”.
La fine della guerra
Il lavoro dei Monuments non era tutto adrenalina, schivare pallottole e salvare dipinti perduti. Gran parte dei loro compiti furono lunghi ed estremamente noiosi, come ad esempio raccogliere frammenti di un soffitto crollato o compilare lunghe liste di opere d’arte smarrite e ritrovate. In circa due anni di guerra, i Monuments, insieme ai soprintendenti e agli operai italiani, cominciarono i lavori di conservazione e di restauro in più di 700 siti diversi. Inoltre rintracciarono e riportarono nei musei migliaia di opere d’arte. Oggi la loro memoria viene tutelata da una fondazione che ha un sito internet ricco di documenti.
Finita la guerra, tutti i Monuments abbandonarono la carriera militare e ritornarono alla loro vita civile, a volte raggiungendo anche posizioni importanti nel mondo accademico e museale dei loro paesi. Come scrive lo Smithsonian, le loro memorie e le loro relazioni si tingono di malinconia quando arrivano a raccontare il momento del loro addio all’Italia. Ma non tutti se ne andarono per sempre. Il tenente Frederick Hartt, storico dell’arte che insegnava a Yale e aveva studiato con il grande Erwin Panofsky, ritornò a Firenze nel 1966 per aiutare i suoi amici conosciuti in tempo di guerra a salvare libri e opere d’arte dall’alluvione. Come molti altri Monuments, alla sua morte Hartt venne seppellito a Firenze, nel cimitero di Porte Sante, nell’abbazia di San Miniato.