Vita di Schulz
L’introduzione alla biografia dell’autore dei Peanuts, scritta da David Michaelis e appena uscita in Italia
Tunué-Editori dell’Immaginario ha pubblicato il libro Schulz e i Peanuts: la vita e l’arte del creatore di Snoopy, Charlie Brown & Co., di David Michaelis, nella traduzione di Alessandro Bottero. Il libro, uscito nel 2007 negli Stati Uniti, è una biografia molto dettagliata di Charles M. Schulz, l’autore che per oltre cinquant’anni ha disegnato quotidianamente le strisce dei Peanuts, pubblicate ogni giorno dal Post.
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Quando Charles Schulz è morto, ha lasciato dentro alle sue strisce cinquant’anni d’indizi sulla sua vita. Per un uomo ritenuto riservato com’era lui, aveva concesso un numero stupefacente d’interviste, ricolme di dettagli rivelatori e a volte connotate da sorprendente candore. Nella sua vita adulta erano state sue abitudini il porre domande puntute e spesso personali a chiunque incrociasse il suo cammino e la sottile ricerca di una comprensione dei misteri della vita ovunque andasse. Eppure non mostrava il minimo interesse per la comprensione di sé stesso e per le implicazioni della sua opera. Insisteva sul fatto che la sua serie a fumetti parlasse su di lui e per suo conto.
Come molti artisti, Schulz sosteneva di poter essere conosciuto solo attraverso il suo lavoro. Nella quiete del suo studio di Santa Rosa, una piccola città nella California settentrionale, raccoglieva quotidianamente in quattro (e in seguito tre) vignette a fumetti disegnate con cura. «Una vignetta», aveva imparato in un corso per corrispondenza negli anni Quaranta, «è precisamente un disegno che mostra un pensiero sotto un’altra forma». Tutte le volte che poteva, offriva ai suoi lettori qualcosa di sé: «Chi legge le mie strisce ogni giorno mi conoscerà di certo; saprà con esattezza chi sono». Quelli che lo conoscevano per davvero avevano capito che era «difficile da conoscere, arduo da capire» e, come un suo amico ha ammesso, «non voleva diventare troppo intimo con nessuno». Un altro amico a cui i suoi modi erano ben noti ha detto: «gli piaceva pensare di sé di essere un uomo semplice, ma non era semplice: era enigmatico e complesso». Si portava appresso un’aria di mistero, un bisogno di riservatezza. La parola più spesso usata per descriverlo, dopo «timido» e «umile», era «complicato».
Parte del mito di Schulz risiede in quella che era la sua totale autosufficienza. Per quasi cinquant’anni, secondo la leggenda, era stato «il solo essere umano di tutti i tempi che abbia scritto, disegnato, inchiostrato o calligrafato la striscia a fumetti dei Peanuts». Aveva disegnato ogni singola striscia delle totali 17.897 e tutte senza l’aiuto di assistenti. Ancora più importante, non aveva ripreso idee da altri; ogni singola storiella dei Peanuts era sua e solo sua, un piccolo fascio di luce gettato sul mondo, che allo stesso tempo rendeva possibile al fumettista rimanere separato da quello stesso mondo. Per fare quello che faceva aveva bisogno di rimanere da solo, padrone esclusivo del suo modesto ma ben definito universo. Una persona più equilibrata e capace di delegare non avrebbe mai potuto creare il sempre sofferente ma inaffondabile Charlie Brown; l’arcigna, spesso spinosa Lucy; il filosofico Linus; l’indomita Piperita Patty; il monomaniaco di Beethoven, Schroeder; e il grandioso, egocentrico bracco Snoopy. «Una persona normale non ci sarebbe riuscita», s’è detto di lui.
(Le strisce dei Peanuts sul Post)
Eppure continuava a ripetere a tutti di essere «nient’altro che una persona qualsiasi», «solo un normalissimo tizio del Midwest», ben poco differente dal «giovanotto qualunque» che era cresciuto a St. Paul, figlio unico di un barbiere retto e dedito al lavoro e di una madre a volte distaccata ma in realtà sempre dolce e amorevole. La sua ambizione, diceva spesso, era «piacere alle persone, come mio padre». Perfino quando divenne il disegnatore di fumetti più pagato al mondo ebbe a dire: «Ho avuto un enorme successo? Lo pensate davvero?». Tornava sempre a essere il figlio del barbiere, il ragazzo all’angolo fra la Selby e la Snelling.
Ai suoi milioni di lettori appassionati il creatore dei Peanuts appariva come un amichevole conoscente di quartiere: egli stesso ci scherzava su dicendo di sembrare un droghiere. Il nome Schulz deriva da un termine tedesco che significa «sindaco del villaggio», e in effetti egli si era fatto sovrintendente di quello che il giornalista Walter Cronkite opportunamente chiamò «un villaggio a fumetti», in grado di esser letto in tutto il mondo. Fu presentato al suo pubblico come «un amico del mondo, caloroso, con cui ci si trova a proprio agio, familiare e facile da amare». Ovunque le persone sentivano di essere cresciute con lui, di essere state curate da lui durante l’infanzia, consolate nell’adolescenza, rasserenate nell’età adulta. Perfetti sconosciuti lo consideravano uno di famiglia. Tuttavia all’apice della fama Schulz si vide rivolgere la domanda, «Si sente disponibile a mostrarsi al mondo intero?», solo per rispondere, contraddicendosi, «Sì, ma non voglio che loro mi vedano».
«È quasi come se Charles Schulz fosse morto con un segreto custodito in sé», ha suggerito a suo tempo un giornalista sulle colonne di un quotidiano. Aveva lasciato che il suo pubblico sapesse moltissimo su Peanuts. A parte il suo aver riconosciuto che Snoopy era stato modellato su Spike, il cane selvaticamente indipendente della sua infanzia, egli lasciò deliberatamente senza risposta qualsiasi domanda circa il fatto che Charlie Brown e Lucy, con le loro rispettive ansie e spigolosità, potessero essere stati basati su modelli reali, negando qualsiasi parallelismo fra le relazioni tra i suoi personaggi e quelle della sua vita privata, alludendo a volte a delusioni personali e imbarazzi nei quali era caduto nel passato, o semplicemente aggirando qualsiasi tentativo d’analogia asserendo che tutti i personaggi erano ripresi da sé stesso: «Sono tutti lati del mio carattere», ebbe a dire.
«Se state per creare personaggi a fumetti potete crearli solo a partire dalla vostra personalità. Non potete davvero creare granché osservando gli altri. Non c’è in verità molto da osservare»: un’affermazione sorprendente, da parte di qualcuno in perenne osservazione e dallo sguardo arguto.
Disegnare fumetti può essere un’attività intensamente personale ed espressiva. Schulz aveva bisogno di sapere che stava raggiungendo il lettore con la propria voce – quasi come se il suo mezzo di comunicazione fosse stato la radio – perché voleva che il suo pubblico si identificasse non con lui ma col suo carattere. Col passare del tempo e con l’espansione del successo dei Peanuts dal consenso iniziale prima diffuso solo tra pochi intenditori – insomma dalla popolarità presso gruppi di lettori di formazione universitaria – fino al definitivo raggiungimento di un successo universale e trasversale, Schulz cominciò a essere sempre più guardingo circa il fatto che i lettori decifrassero quanto di sé veniva costantemente riversato nelle sue strisce settimanali. Laddove egli inizialmente aveva ritenuto importante il fatto che i lettori pensassero che egli fosse Charlie Brown, nel 1972 cominciò a rispondere, alla classica domanda ricorrente «Charlie Brown è davvero il suo alter-ego?», dicendo, con un sogghigno, «Non proprio, però è una fantasia interessante».
(Le strisce dei Peanuts sul Post)
Dieci anni dopo, la scrittrice Laurie Colwin gli chiese se qualcuno che avesse seguito la striscia fin dagli esordi potesse «scrivere una vera e propria biografia» dell’uomo Schulz; egli rispose, con voce pacata: «Credo di sì. Ma dovrebbe far sfoggio di tanta immaginazione, suppongo». Un saggista ebbe a salutare la notizia del suo ritiro dall’attività di fumettista con un’altra affermazione: «Non possiamo pensare ad alcun altro americano più meritevole di una ricerca biografica in vero e proprio stile “Rosebud”. Ma Schulz, da sempre un maestro della narrativa in (quattro) vignette, ci ha già fornito tutte le tessere».
E infatti le cose stavano proprio così: nel 1941, Quarto potere era stato proiettato a St. Paul, al cinema Park Theatre, e un elettrizzato Sparky Schulz ne riconobbe immediatamente la grandezza. Negli anni esso sarebbe divenuto una piccola ossessione, il suo film preferito. Schulz rivide la pellicola più e più volte, forse quaranta: la storia di un uomo potente e riservato, figlio unico di genitori poco affezionati, mandato via dalla sua umile casetta nella nevosa prateria e gettato nel bel mezzo della vita metropolitana, dove, allevato da un ricco banchiere, diventa una ricchissima ma solitaria autorità, isolato nel suo immenso castello, Xanadu. Come l’eroe di Welles, Charles Foster Kane, che «ottenne tutto quel che voleva, per poi perderlo», Charles Monroe Schulz avrebbe raggiunto un successo superiore a qualsiasi suo sogno d’infanzia, e tuttavia avrebbe sempre lottato per dare e ottenere amore.
Per tutta la vita si sentì solo, e passò la maggior parte dei suoi cinquant’anni di vita adulta cercando di essere accudito e compreso. Perché? Se sua madre non lo avesse lasciato suo malgrado quand’era ragazzo, sarebbe lo stesso scaturita in lui, e da dove, questa dolorosa sensazione che la cosa di cui più egli aveva bisogno gli era stata sottratta?
Ogni volta che Schulz veniva sollecitato a parlare della sua vita, non cominciava mai dall’inizio. Mai dalla sua nascita, il 26 novembre 1922, o dai suoi primi anni, ma sempre dalla morte della madre, il 1° marzo 1943, dalla sua chiamata alle armi e dalla spietata rapidità di quegli eventi: in una sola, fatidica settimana, Dena Halverson Schulz moriva di lunedì, veniva sepolta di venerdì e sabato l’esercito si portava il figlio chissà dove.
La storia cominciava sempre con un giovanotto solitario. Un semplice ragazzo condotto chissà dove su di un treno che viaggiava lungo un binario che tagliava sferzante un paesaggio immerso nella neve.