La tassa impossibile
La "web tax" è in clamorosa contraddizione con le leggi europee, scrive Gianni Riotta: e quindi farebbe molto male all'Italia
Gianni Riotta scrive sulla Stampa della cosiddetta “web tax”, il nuovo proposto sistema di tassazione per le società attive su Internet presentato da alcuni deputati del PD e approvato la settimana scorsa in commissione tra gli emendamenti della legge di stabilità, che dovrà essere votata dal Parlamento entro la fine dell’anno. Riotta spiega che l’argomento della tassazione delle società su Internet deve essere affrontato in sede europea – l’Italia “è vincolata da trattati contro la doppia imposizione fiscale con altri paesi” – e che la legge rischia di “fare dell’Italia un mercato in cui il digitale, l’innovazione è mal vista, male accolta”.
Matteo Renzi ha, di slancio, presentato la propria leadership di segretario del PD come campione dell’innovazione, politico nuovo, capace infine di trascinare la sinistra e il paese dell’era digitale e postindustriale. Era digitale e postindustriale dove produzione, cultura, vita non sono più “mass”, come nel Novecento, ma “personal”, individuali e originali. Stupisce quindi che il suo messaggio, sia, in queste ore contraddetto dalla battaglia che vari esponenti Pd, Boccia, Covello, Fanucci tra gli altri, ingaggiano in Parlamento a favore di una “tassa web”, “tassa Google”, che nega in radice l’impegno di innovazione di Renzi. Vediamo perché.
Nelle intenzioni dei promotori, in testa il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, la tassa web ha nobili intenzioni, da Robin Hood che vuole bloccare gli ignobili sceriffi della Web Foresta di Nottingham, Google, Facebook, Twitter, Amazon. Secondo Boccia si tratta “Soltanto di una misura di equità fiscale: se l’azienda di Brescia o di Catania deve pagare un’imposta per ciò che ha guadagnato in Italia, altrettanto devono fare le multinazionali del Web che guadagnano nel nostro Paese e che oggi, incredibilmente, pagano le tasse in Paesi che hanno un’aliquota fiscale più conveniente. Si tratta dei princìpi basilari dell’equità fiscale, sociale e produttiva” e l’esponente Pd è talmente persuaso della sua tesi, che in varie dichiarazioni cita oltre a Brescia e Catania anche Busto Arsizio e Matera. Come dissentire? Perché mai il gigantesco motore di ricerche da cui passa oltre il 95% delle nostre domande sul web dovrebbe non pagare tasse, mentre a Brescia, Catania, Busto Arsizio e Matera si cede ad odiosi balzelli?
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Nella foto: la sede di Google a Zurigo