La bufala dell’Ungheria
Non c'è nessun boom economico, non ha cacciato il Fondo Monetario Internazionale e c'è parecchio da dire sulla democrazia del suo primo ministro
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
Nelle ultime settimane sui social network si è parlato parecchio dell’Ungheria. A quanto si racconta in vari articoli, status di Facebook e blog (ad esempio qui) l’Ungheria è uscita trionfalmente dalla crisi dopo aver cacciato a pedate l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, la BCE e gli altri “usurai” che strangolavano il paese.
Gli articoli citano spesso molti dati, alcuni dei quali esatti, ma per lo più incompleti – come minimo – e spesso male interpretati. Se guardiamo bene come stanno le cose viene fuori una storia diversa: l’Ungheria è un paese dove non c’è nessun boom economico, che non ha “cacciato” proprio nessuno e dove le leggi approvate dal governo non lasciano ben sperare per il futuro della democrazia nel paese.
In altre parole, l’Ungheria si aggiunge a Ecuador, Argentina e Islanda: una lista di paesi spesso indicati come modelli alternativi per il nostro paese, esempi da seguire per uscire da una crisi economica molto complessa e che dura da tempo. Dal punto di vista economico, quei paesi hanno fatto “cose strane” che a volte hanno funzionato, almeno per breve tempo, ma che di sicuro non sono un esempio da seguire per l’Italia. Hanno però fatto nascere ricostruzioni distorte, in cui soluzioni semplici e scontate per uscire dalla crisi sembrano a portata di mano.
Il governo ungherese
Nella bufala che gira sull’Ungheria c’è almeno una cosa assolutamente esatta e precisa: il nuovo governo ha adottato una serie di politiche non ortodosse. Nel 2010 le elezioni sono state vinte con una larghissima maggioranza da Viktor Orbán, capo del partito di centrodestra Fidesz. Orbán ha impostato la sua campagna elettorale e la retorica del suo governo su una durissima critica dell’Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e del comunismo, che secondo lui minaccia ancora il paese e ha infiltrato l’opposizione di centrosinistra.
Orbán ha ottenuto con la sua coalizione due terzi dei seggi al parlamento e grazie a questa maggioranza ha modificato la costituzione (ne parleremo tra poco) e ha intrapreso una serie di politiche, appunto, “poco ortodosse”. Ma che cosa significa? Il termine in genere si riferisce alle politiche monetarie praticate dalle banche centrali e significa, in sostanza, creare moltissimo denaro ed immetterlo nell’economia con metodi in precedenza poco o nulla utilizzati e detti quindi “non convenzionali” (durante la crisi quasi tutte le banche centrali del mondo sono ricorse in varie misure a politiche non convenzionali).
Riprendiamoci la sovranità monetaria!
Secondo la bufala che gira, Orbán ha restituito al paese la sua “sovranità monetaria” riconsegnando al governo il controllo sulla banca centrale. Riconquistare la “sovranità monetaria”, almeno nel senso in cui lo intende chi scrive articoli sul boom economico dell’Ungheria, è il primo passo per consentire a un paese di cominciare a stampare denaro per finanziarie ogni sorta di spesa da parte del governo.
Mettere sotto controllo la banca centrale è in un certo senso la politica non ortodossa per eccellenza praticata dai paesi con difficoltà di bilancio (ad esempio, l’Argentina, ma in modo meno drastico, è stato fatto recentemente anche dal Giappone, anche se per altri motivi).
La pratica di separare il governo dalle banche centrali si è sviluppata nel corso degli ultimi quarant’anni in quasi tutti i paesi sviluppati. Oggi i governi mantengono il diritto di nominare i governatori delle banche centrali, ma queste ultime hanno perso il mandato e l’obbligo di finanziare il governo.
Questo per un semplice motivo: se un governo sa che avrà sempre una banca centrale che stamperà denaro per finanziarlo, rischia di essere incoraggiato a spendere senza controllo per assicurarsi la rielezione. Stampare denaro senza controllo può portare a spirali iperinflattive o comunque a inflazioni a due cifre, un fenomeno che nei paesi sviluppati è sostanzialmente scomparso da quando è stata introdotta la separazione tra governi e banche centrali.
In Ungheria, però, nonostante Orbán abbia davvero messo sotto controllo la banca centrale, non è ancora accaduto nulla di tutto questo. Nonostante le preoccupazioni della BCE, l’attuale governatore della banca centrale ungherese György Matolcsy, considerato il braccio destro di Orbán, non si è messo a stampare denaro come un matto e, seppur abbia abbassato i tassi d’interesse, si è finora comportato in maniera abbastanza ortodossa. L’inflazione in Ungheria è ancora al minimo storico del 2,3 per cento.
Tassare i cattivi
Le banche, insieme all’Europa e al Fondo Monetario internazionale, sono i bersagli preferiti della retorica di Orbán e delle sue misure economiche. Per mantenere entro i parametri europei il deficit del governo (semplificando, la differenza tra quanto incassa e quanto spende) negli ultimi anni Orbán ha aumentato le tasse alle banche, alle assicurazioni e alle grandi imprese in generale. Attualmente l’Ungheria ha le tasse sul settore finanziario più alte d’Europa.
Il settore finanziario e assicurativo è in gran parte straniero, e questo ha aiutato Orbán a dipingerlo come composto da usurai venuti dall’estero. Tasse, multe e la pressione che hanno subito le banche hanno aiutato il governo a mettere in ordine il bilancio, ma hanno anche causato grossi danni al settore (il Financial Times ne ha parlato qui). Dal 2008 ad oggi i prestiti sono diminuiti, caso unico tra i paesi dell’Europa orientale. Le banche fanno sempre meno soldi, ne distribuiscono sempre meno e hanno crescenti difficoltà a finanziarsi all’estero, perché in pochi si fidano del governo e molti temono che ulteriori tasse o misure non convenzionali colpiscano il settore. Ad esempio, Orbán ha nazionalizzato moltissimi fondi pensione privati, per un valore superiore ai 10 miliardi di euro.
Orbán ha anche innalzato il salario minimo del 18 per cento, oltre ad aver costretto le società energetiche ad abbassare del 20 per cento le tariffe e promettendo di obbligarle ad abbassarle ancora l’anno prossimo. Messe insieme, tutte queste misure probabilmente scoraggeranno moltissimo gli investimenti diretti esteri (cioè investimenti produttivi, come la costruzione di una fabbrica, da parte di stranieri all’interno del paese). E questo tipo di investimenti sono molto importanti per l’Ungheria e sono pari a più o meno un quarto del PIL. In certi settori, come le banche e le assicurazioni, i capitali stranieri contano per più del 70 per cento del totale.
E quindi?
Nonostante tutto, la situazione economica in Ungheria non è ancora gravissima. Il 2012 l’economia si è contratta dell’1,2 due per cento. Nel 2013 si prevede una piccola crescita di poco superiore allo 0,1 per cento, mentre nel 2015 il paese dovrebbe crescere dell’1,2 per cento. Meglio dell’Italia, ma molto peggio di quasi tutti i suoi vicini (Repubblica Ceca, Slovacchia e, soprattutto, Polonia, che l’anno prossimo dovrebbe crescere più del doppio dell’Ungheria).
La disoccupazione è intorno all’11 per cento, un livello simile a quello dei suoi vicini, ma l’occupazione (cioè quanti lavorano sul totale della popolazione attiva) è al 58 per cento, percentuale simile a quella italiana ma molto lontana dal 65 per cento della media europea e dai livelli ancora più alti dei suoi vicini.
L’Ungheria, insieme ad altri paesi dell’Europa centrale, è anche considerata un paese molto influenzato da come vanno le cose in Germania. In altre parole: quando la Germania cresce, anche l’Ungheria riceve dei vantaggi (se ne parla anche in un lungo documento del FMI). Parte della crescita in Ungheria è forse dovuta alla ripresa della Germania: ad esempio, nel giugno del 2013 ha aperto a Gyor un nuovo impianto dell’Audi, un investimento totale di circa 900 milioni di euro.
In conclusione: l’Ungheria sta uscendo dalla crisi e in questo si sta avvantaggiando anche dal fatto che i suoi vicini corrono molto velocemente. Non è ancora chiaro che effetti avranno le sue politiche economiche a lungo termine. Per ora gli investitori esteri stanno fuggendo e le banche sono in crisi, con sempre più difficoltà a prestare denaro. Nonostante questo, il paese sembra avviato a una timida ripresa. Di certo l’Ungheria non è ancora ridotta come il Venezuela (dove oggi si vota per delle elezioni piuttosto importanti) o l’Argentina, ma sembra piuttosto difficile parlare della “rinascita” dell’Ungheria grazie alle politiche di Orbán.
Orbán il ribelle
Spiegata la situazione economica del paese bisogna dare un’occhiata all’altro elemento chiave della bufala che gira in questo giorni. Orbán avrebbe ottenuto tutti i suoi successi dopo essersi liberato dell’UE, della BCE e del FMI, o, in una sola parola, della cosiddetta “Troika”.
Tra questi tre, il nemico numero uno è certamente il Fondo Monetario Internazionale. È un’istituzione che può non piacere, e di certo a Orbán non piace: nel luglio del 2013 il governo ha chiesto che gli uffici del fondo a Budapest venissero chiusi perché “non c’era più bisogno di loro”. Forse era vero, ma tre anni prima del FMI c’era un gran bisogno. Nel 2010, insieme all’Unione Europa, l’FMI ha di fatto salvato l’Ungheria dalla bancarotta prestando al paese 20 miliardi di euro. È vero, come è scritto sui social network, che il governo ungherese ha restituito il prestito con due anni di anticipo nell’estate del 2013, ma questo, più che un gesto da ribelli, sembra il comportamento di un pagatore modello.
A questo bisogna aggiungere che tra il novembre del 2011 e il gennaio del 2012, Orbán – nonostante tutta la sua retorica contro gli “usurai stranieri” – intraprese tutti i passi necessari per richiedere al FMI un nuovo prestito (alcuni scrissero che Orbán andava “con il cappello in mano” a chiedere soldi). Le condizioni richieste da Orbán vennero ritenute inaccettabili dal FMI, che quindi si rifiutò di concedere un secondo prestito.
Orbán si sarebbe ribellato anche all’Unione Europa, un altro caso in cui, in realtà, il premier ungherese sembra più un allievo modello che un rivoluzionario controcorrente. Come abbiamo visto, tutti gli aumenti di tasse e le nazionalizzazioni compiute dal governo avevano come obbiettivo far rientrare il deficit nei parametri europei. Un obbiettivo che il governo ungherese ha più che raggiunto, portandolo dal 4,2 per cento del 2010 all’attuale 1,9 per cento (sul piano delle cifre più rigoroso dell’Italia di Monti e Letta, quindi).
La critica alla democrazia
Infine, prima di ritenere quello di Orbán un buon modello per l’Italia o anche soltanto un modello positivo, bisognerebbe dare un’occhiata alla situazione dei diritti politici e civili nel paese. Gli scontri con l’Unione Europa hanno probabilmente ragioni diverse da quelle economiche. Da quando si è insediato, il governo Orbán è accusato di aver varato una serie di leggi che minano la democrazia e mettono il paese a rischio di una svolta autoritaria.
Nel 2010 il governo approvò una serie di leggi per il controllo nei confronti dei media e introdurre la possibilità di multare le testate giornalistiche per reati molto ambigui come le “lesioni della dignità umana”. Nel marzo 2013 il governo ha fatto approvare una serie di emendamenti alla Costituzione che sono stati considerati da Unione Europea e Stati Uniti ulteriori violazioni dei principi della democrazia.
Oltre al controllo sulla banca centrale, il governo ha ridotto i poteri della corte costituzionale, limitato le possibilità di fare propaganda sui media nazionali ai partiti (il governo, naturalmente, sui media ci compare tutti i giorni), ha introdotto multe e pene detentive per i senzatetto ed è stata ridefinita la categoria di “famiglia”, che non includerà più le coppie non sposate, quelle senza figli e quelle formate da persone dello stesso sesso.