I fantastici mondiali di rugby del 1995
Quelli del film “Invictus”: storia, foto e video di come Mandela riuscì a trasformare una "cosa da bianchi", odiata dai neri, in un'opportunità per unire il Sudafrica
Nel 1995, appena un anno dopo l’elezione di Nelson Mandela a presidente del Sudafrica e tre anni dalla fine ufficiale dell’apartheid, il Sudafrica si apprestava ad ospitare i Mondiali di rugby. Il paese usciva da un periodo difficilissimo: il sistema legislativo razzista imposto dalla minoranza bianca era durato per 42 anni, lasciando dietro una tensione sociale altissima e rapporti nel migliore dei casi inesistenti – nel peggiore, pessimi e violenti – tra bianchi e neri. L’80 percento della popolazione era nera, mentre il rugby – portato in Sudafrica dai Paesi Bassi e dalla Germania alla fine dell’Ottocento – era generalmente considerato uno sport per bianchi: era praticato quasi soltanto dai cosiddetti afrikaner e la percezione era condivisa e rafforzata dal fatto che durante le partite il pubblico (bianco) mostrava spesso striscioni con frasi razziste o cori contro giocatori neri. Motivo per cui la grandissima maggioranza degli abitanti del Sudafrica tifava contro la nazionale di rubgy, e anche Mandela raccontò di aver fatto lo stesso da giovane.
Il modo in cui Mandela riuscì a trasformare un evento potenzialmente molto rischioso e controverso – ospitare i mondiali di uno sport “da bianchi” in un paese appena uscito dalla segregazione razziale – rimane una grande storia, testimoniata anche dalle molte dimostrazioni di affetto di gran parte del mondo del rugby alla notizia della sua morte. La storia fu raccontata in un libro di John Carlin intitolato Ama il tuo nemico, a sua volta trasposto nel 2009 nel film di Clint Eastwood Invictus, con Morgan Freeman nel ruolo di Mandela.
Mandela era un grande appassionato di sport in generale. Si racconta che apprezzasse molto gli sport di squadra, fra i quali calcio e cricket: da giovane aveva praticato la boxe a livello amatoriale. Si racconta inoltre che cercò di tenersi in forma anche durante gli anni passati in prigione, correndo sul posto nella sua cella oppure attorno all’edificio. A un certo punto Mandela fece richiesta per ottenere un fornelletto da cucina, per riscaldarsi il cibo in cella, ma la dirigenza della prigione rifiutò la sua richiesta. Mandela allora decise di rivolgersi direttamente al capo della prigione che era un certo Maggiore Van Sittert, un grande appassionato di rugby: cominciò quindi a interessarsi di rugby, per poter condividere un argomento di conversazione e sperare così di avere la sua approvazione. Circola un aneddoto secondo cui Mandela passò un mese a studiare gli articoli di giornale che parlavano di rugby e a imparare a memoria i nomi dei giocatori più famosi: Mandela cominciò a parlare con lui di rugby e presto ottenne un fornelletto.
Tenendo conto di questo episodio, e quindi di cosa significasse il rugby per Mandela prima che uscisse di prigione e diventasse presidente, arriviamo ai mondiali del 1995. Mandela si convinse che ospitarli in Sudafrica fosse una grande occasione per trovare un elemento comune di unità per una popolazione così divisa. Due mesi dopo essere stato eletto, nel giugno del 1994, Mandela incontrò il capitano della nazionale di rugby Francois Pienaar – bianco come 25 giocatori su 26 della nazionale – e gli spiegò cos’aveva in testa: approfittare dei mondiali di rugby per unire il paese.
Mesi prima dell’inizio del torneo furono organizzati diversi momenti di “avvicinamento” tra la nazionale di rugby e i sudafricani neri, a cominciare dagli allenamenti aperti al pubblico. Su suggerimento dello staff della nazionale, poi, i giocatori impararono a memoria Nkosi Sikelele, l’inno nazionale per la popolazione nera in lingua Xhosa – una delle 11 riconosciute dallo Stato, parlata da circa l’80 per cento degli abitanti della provincia di Capo Orientale. La nazionale fece inoltre visita a Robben Island, la piccola isola dove venivano tenuti i prigionieri politici del regime, fra cui lo stesso Mandela.
Pienaar racconta che durante il ritiro della nazionale sudafricana, Mandela telefonava di continuo chiedendogli cose come «I ragazzi sono concentrati? Stanno bene? Sono rilassati?». Un giorno fece una visita a sorpresa alla squadra: arrivò in elicottero, li salutò e gli disse: «Avete l’opportunità di fare una gran cosa per il Sudafrica, e di unire la gente. Ricordate solo questo, che tutti noi, neri o bianchi, siamo con voi».
Il mondiale cominciò e il Sudafrica vinse una partita dopo l’altra: nella partita inaugurale batté l’Australia, una delle squadre più forti del torneo, per 27 a 18. Vinse il suo girone a punteggio pieno, dopo aver sconfitto anche la Romania per 21-8 e il Canada per 20-0. Agli ottavi e ai quarti eliminò Samoa e la Francia, arrivando in finale contro la fortissima Nuova Zelanda. Il 24 giugno 1995, giorno della finale, Mandela indossò la maglietta di Pienaar, quella col numero 6, e fece visita alla squadra nello spogliatoio. Pienaar, riguardo quell’episodio, racconta che «non ci sono parole per descrivere l’emozione che provai in tutto il corpo». Mandela si fece vedere sul campo dell’Ellis Park, a Johannesburg, con la maglia della nazionale e un cappellino: quando entrò, il pubblico esultò e fece partire un coro: “Nelson! Nelson! Nelson!”.
Alla fine del primo tempo il Sudafrica era in vantaggio per 9-6, ma la Nuova Zelanda recuperò quasi subito e la partita finì pari. Ai supplementari il sudafricano Joel Stransky fece un drop goal, cioè mandò la palla in mezzo ai pali e al di sopra della traversa. Il Sudafrica diventò campione del mondo di rugby.
Mandela consegnò personalmente il trofeo a Pienaar, e gli disse: «Grazie per tutto quello che avete fatto per il nostro paese». Pienaar rispose: «No, signor presidente, grazie per quelli che ha fatto lei per questo paese». Carlin, nel libro, scrive:
«per decenni, Mandela aveva combattuto per tutto quello di cui i sudafricani bianchi avevano paura, e la nazionale era il simbolo di tutto ciò che i neri odiavano di più. Adesso, davanti a tutto il paese e a gran parte del mondo, questi due simboli si sono fusi fra di loro, fino a crearne uno nuovo, giusto e costruttivo».