Dove sono i morti di Lampedusa
I funerali sono stati celebrati senza i morti, sepolti anonimamente in giro per la Sicilia; i test del DNA sono a carico dei parenti che, se riescono a venire in Italia, non sanno dove trovarli
A poco più di due mesi dal naufragio del barcone vicino all’isola di Lampedusa in cui sono morte 366 persone, per la maggior parte provenienti dall’Eritrea, BBC ha intervistato il fratello di una delle vittime. L’uomo ha raccontato quanto sia complicata la faccenda della sepoltura, della ricerca e del riconoscimento dei corpi, denunciata in Italia anche dal “Comitato 3 febbraio” nato nei giorni successivi all’affondamento.
Le notizie sulla fine che hanno fatto quei corpi non sono semplici da reperire e la situazione appare molto confusa. Quel che appare è che le vittime del naufragio a cui era stato promesso un funerale di Stato sono state invece seppellite in maniera anonima – visto che in molti casi non se ne conosce l’identità – e senza una cerimonia in diversi cimiteri della Sicilia. I funerali sono stati celebrati di fatto senza i morti, una parte dei quali era già stata seppellita anonimamente e senza cerimonie, mentre un’altra parte era ancora in mare. Ottantacinque corpi si trovano ad Agrigento, nel cimitero di Piano Gatta, otto a Canicattì, altri otto a Caltanissetta, venticinque a Mazzarino, due a Favara, due a Valledolmo, in provincia di Palermo. Gli altri sono stati trasportati su camion nei cimiteri degli altri comuni che hanno dato la loro disponibilità.
Lo scorso ottobre il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini aveva scritto su Twitter:
Ho casualmente appreso che si sta procedendo alla sepoltura delle salme partite da #Lampedusa. Senza funerali, ne’ di Stato ne’ di paese
— GiusiNicolini (@giusi_nicolini) 15 Ottobre 2013
Successivamente Nicolini ha spiegato:
«Ad avvertirmi per caso dell’arrivo delle salme negli altri comuni sono stati gli stessi sindaci che avevano dato disponibilità. Letta aveva promesso funerali di Stato, ma immagino che sia una decisione che non dipende da lui. Se però avessi saputo che non ci sarebbe stato alcun funerale, avremmo organizzato noi un ultimo saluto per quelle bare».
La maggior parte dei morti sono identificati solo da un numero inciso nel cemento o collocato accanto alle tombe. Solo alcune tombe sono state decorate con le immagini delle persone sepolte e, scrive BBC, «molto probabilmente sono state messe lì dai parenti che vivono in Europa e che sono stati in grado di trovare i loro familiari». Finora però, dato che non c’è stato alcun «processo di identificazione corretta», non è stato possibile per nessuno portare a casa i corpi.
A Lampedusa intanto continuano ad arrivare i parenti delle vittime. La prefettura di Agrigento ha fatto sapere che «la tumulazione delle salme dei migranti non impedirà eventuali restituzioni dei corpi ai familiari che ne faranno richiesta». Ci sono però molti problemi: innanzitutto il fatto che la maggior parte di queste persone non può ottenere il visto necessario per lasciare l’Eritrea. In generale si tratta di persone che vivono in situazioni complicate e per le quali è difficile ottenere la restituzione della salma di un congiunto. Alcune organizzazioni internazionali hanno anche segnalato che l’eventuale richiesta di restituzione potrebbe portare a ritorsioni da parte del governo eritreo.
C’è poi la questione dei test del DNA, che dovrebbero portare all’identificazione e al riconoscimento delle vittime. Perché il test sia affidabile serve un legame di parentela diretto, tra padre e figlio o tra sorelle, per esempio. «Nonostante le ripetute promesse seguite alla tragedia, le procedure per il riconoscimento dei corpi non sono mai state avviate. Dove necessario, i parenti delle vittime sono anche disponibili a sostenere i costi dei test del DNA purché siano messi in condizione di sapere con certezza dove sono sepolti i loro cari», ha detto il Comitato. In alcuni casi è accaduto proprio questo: Alem Araya, l’uomo intervistato dalla BBC, aveva la residenza in Italia, viveva in Sicilia e aveva le risorse necessarie per sostenere i costi dell’esame che ha portato all’identificazione del fratello e che in una clinica di Agrigento gli è costata 150 euro.
Il 29 novembre, in occasione di un’udienza al Tribunale di Agrigento a cui hanno partecipato i nove superstiti al naufragio che hanno riconosciuto e indicato lo scafista, uno dei familiari delle vittime ha preso la parola e ha descritto bene la sua situazione e quella delle altre persone come lui:
Il mio nome è Abraham, sono parente di una delle vittime della tragedia di Lampedusa del 3 ottobre. Mio fratello è una delle persone annegate quel giorno. Sono stato a Lampedusa e ho cercato mio fratello tra i sopravvissuti e tra i morti, ma senza risultato. Non lo ho trovato né in vita né morto. Ho incontrato alcuni dei suoi amici tra i sopravvissuti che mi hanno detto che erano insieme a lui fino a che la barca non è affondata. Io vorrei ora chiedervi di aiutarmi, in un modo o nell’altro, ad identificare mio fratello attraverso il test del DNA. Non è solo una mia richiesta, è la richiesta di molti altri che hanno perso i loro cari. Sarebbe per noi una nuova tragedia se non fossimo in grado di trovare i corpi dei nostri familiari, avere un posto dove accendere una candela e pregare per loro e avere un luogo della memoria dove possano riposare in pace.
Vi ringrazio sin d’ora della vostra risposta