La vita dei rifugiati in Giordania
Adriano Sofri ha visitato dei campi profughi con l'UNICEF e ne racconta regole, storie e abitudini, il sovraffollamento e le violenze, e perché nonostante tutto è meglio star lì
Adriano Sofri ha visitato con l’Unicef alcuni campi profughi siriani in Giordania, e ne ha scritto mercoledì su Repubblica. Secondo le Nazioni Unite, i siriani che hanno lasciato le loro case e si sono rifugiati in Giordania sono circa 600mila (per il governo giordano sono molti di più, raggiungerebbero il milione). L’ONU ha definito la crisi dei profughi siriani come tra le più gravi degli ultimi decenni: «Il sovraffollamento è universale», scrive Sofri, «i prezzi vanno alle stelle: affitti, acqua, elettricità». Da diversi mesi il simbolo della crisi dei profughi siriani è diventato il campo giordano di Zaatari, presso Mafraq, a cui diversi grandi giornali internazionali hanno dedicato reportage e approfondimenti: il campo di Zaatari a luglio aveva 145 mila abitanti, ed era la quarta città giordana. Oggi ne ha 80mila: qualcuno è tornato in Siria, molti si sono spostati nelle città o sono stati smistati.
IRBID— Harim, 45 anni, i suoi vecchi genitori, sua moglie, 36 anni, 7 figlie e l’unico maschietto abitano al sesto piano di un palazzo di Irbid. Vengono dalla favolosa Busra, distretto di Dara’a, che aveva 22 mila abitanti: è distrutta, dicono, hanno visto le strade piene di morti. Aveva una fabbrichetta, l’hanno arrestato e torturato: «Per 9 giorni, 85 in una stanza, pregavamo piegando solo la testa. Sono andato in Kuwait e ho noleggiato un’auto per loro. Era un’ora di viaggio, ce ne sono volute 14». Pagano l’affitto, non ce la fanno a pagare l’acqua, la portano su a piedi. La bambina Maysah canta, e il padre muove le labbra con gli occhi bagnati, «Ridatemi la penna spezzata, riportatemi da mia madre da cui mi avete separata…». Erano tutte bravissime a scuola, dicono, e ora già lo sono di nuovo qua.
Visitiamo con l’Unicef i rifugiati siriani in Giordania: più di 600 mila secondo l’Onu, un milione per il governo. A Irbid, l’antica Arbela, 30 km dal confine a nord di Amman, in una scuola primaria — dai 6 ai 15 anni — sono state inserite le ragazze siriane, e sono donne la direttrice le insegnanti e le bidelle. C’è l’adunata in uniforme nel cortile: lettura del Corano, inno giordano cantato in coro, lunga vita al re, alzabandiera. Sono sorpreso che bambine siriane cantino inno e slogan della nazione che generosamente le ospita, ma che non è la loro: non dovrebbe esserci qualcosa come un esonero da una cerimonia così inquadrata? Le responsabili sembrano d’accordo; una dice che dei genitori assistendo si sono messi a piangere. Hanno dovuto raddoppiare il lavoro, la lezione è passata da 45 a 35 minuti, gli scolari da 30 a 45 per classe. Trecento iscritti non vengono mai, e non riescono a venirne a capo. Hanno preso 40 giovani docenti da preparare, bisogna aprire 17 nuove scuole. Non ci sono abbastanza libri per tutti. Il sovraffollamento è universale, perfino alla moschea, e i prezzi vanno alle stelle: affitti, acqua, elettricità. Non ci sono episodi di intolleranza gravi, dicono. I siriani hanno aperto loro negozi, il ristorante e la pasticceria migliori sono loro. Molti padri lavorano in Kuwait o in Arabia Saudita.
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Foto: il campo di Zaatari, in Giordania (AP Photo/Mohammad Hannon, File)