Le aziende USA e i risarcimenti in Bangladesh
Il New York Times prova a capire perché i grandi marchi americani non partecipano alle raccolte di fondi per i familiari dei morti nell'incendio alla Fashion Tarzreen e nel crollo di Rana Plaza
Il New York Times ha raccontato in un lungo articolo perché a un anno dall’incendio scoppiato alla Fashion Tazreen – una fabbrica di abbigliamento della periferia di Dacca, la capitale del Bangladesh, in cui morirono più di 120 persone – e a sette mesi dal crollo di un palazzo a Rana Plaza, in cui morirono oltre mille persone, le aziende statunitensi che producevano e vendevano capi d’abbigliamento negli edifici crollati continuano a non voler contribuire al risarcimento per le famiglie dei lavoratori morti.
Da mesi l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite, sta collaborando con i funzionari del governo del Bangladesh per distribuire alle famiglie coinvolte e agli oltre 1.800 lavoratori che sono stati feriti in modo grave una quota di risarcimento. A questa iniziativa hanno aderito al momento soltanto poche aziende, tra quelle che producevano vestiti a Dacca: le più attive, scrive il New York Times, sono la Primark, una società inglese che ha speso per gli aiuti e i risarcimenti circa 2,3 milioni di euro, e l’azienda tedesca C&A.
Una serie di altre aziende europee – la Benetton, la Loblaw e la El Corte Ingles – stanno collaborando con l’agenzia delle Nazioni Unite per istituire un fondo di circa 50 milioni di euro. Al contrario, nessuna tra le aziende statunitensi che producono da anni capi d’abbigliamento nella città ha deciso di aderire: tra queste ci sono Walmart, Sears e Children’s Place, che vendevano merci prodotte per una parte importante a Rana Plaza e alla Fashion Tazreen.
Secondo gli avvocati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alcuni documenti recuperati dopo l’incendio alla Fashion Tazreen indicherebbero che all’epoca il 55 per cento della produzione della fabbrica era stato appaltato dalla multinazionale statunitense Walmart, proprietaria dell’omonima catena di negozi al dettaglio. Altri documenti mostrerebbero inoltre che la Walmart aveva firmato un accordo con un’azienda canadese per produrre dei jeans nello stabilimento Ether Tex, che si trovava all’interno dell’edificio crollato a Rana Plaza. I dirigenti della compagnia hanno spiegato che quei contratti, firmati con altre aziende per la produzione di capi di abbigliamento, non erano stati autorizzati e che la società non ne sapeva nulla.
Rajan Kamalanathan, uno dei vicepresidenti della Walmart, ha ribadito in un’email che la società non ha intenzione di partecipare alle raccolte di fondi per il Bangladesh, confermando che non c’erano produzioni in corso nelle fabbriche colpite nell’incendio a Fashion Tazreen o in quelle crollate a Rana Plaza. Altre società statunitensi, come The Children’s Place, che possiede una serie di negozi che vendono vestiti per bambini prodotti nelle fabbriche che si trovavano a Rana Plaza, non hanno aderito perché al momento del crollo nessuno stava producendo abiti per conto loro. Anche Howard Riefs, il portavoce della Sears – una grande catena di distribuzione statunitense – ha spiegato che la società non aveva concesso alcuna autorizzazione alla fabbrica che stava producendo vestiti a loro nome all’interno della Fashion Tazreen.
Secondo alcuni esperti del settore – citati dal New York Times – queste aziende hanno deciso di non aderire alle campagne di raccolta di fondi per non dare l’impressione di essere in qualche modo responsabili dei precari livelli di sicurezza che si riscontrano nelle fabbriche del Bangladesh, e per evitare controlli legali. Ma anche per non essere sospettate di un coinvolgimento diretto, dopo aver spiegato che le produzioni a loro nome non erano state autorizzate dalle singole società. Molte grandi aziende che producono e vendono vestiti in tutto il mondo decidono di avviare parte delle proprie produzioni in Bangladesh grazie ai bassi costi della manodopera, la peggio pagata al mondo.
Foto: un’immagine della Fashion Tazreen dopo l’incendio (STR/AFP/Getty Images)