13 canzoni dei Waterboys
Scelte dal peraltro direttore del Post, per chi li ha visti a Roma o andrà stasera al concerto di Milano (e per tutti gli altri)
Stasera, 22 novembre, i Waterboys suoneranno all’Auditorio di Milano, ieri erano a Roma, all’Auditorio della Conciliazione. Per chi è già stato al concerto e vuole riascoltarli, o per chi vuole ripassare per stasera o per le prossime date, queste sono le loro tredici canzoni migliori, scelte da Luca Sofri per il suo libro Playlist. Oltre a quella di stasera i Waterboys faranno altre due date in Italia: il 23 novembre saranno a Bologna all’Auditorio Manzoni, e il 24 novembre a Padova al Gran Teatro Geox.
The Waterboys (1981-1993 e poi nel 2000, Londra, Inghilterra)
Una di quelle band che sostanzialmente è una persona, in questo caso Mike Scott. Di grande culto, inventori nella prima parte della loro grande carriera di un sound tutto loro fatto di pianoforti incalzanti e rock con assonanze celtiche. Poi andarono più sull’irlandese tradizionale, e poi via via su altre cose, sempre con testi pieni di storie, fedi e mitologie. Il nome della band viene da un verso di “Berlin” di Lou Reed.
Gala
(The Waterboys, 1983)
“Gala” è straordinaria: dieci minuti di punching sul pianoforte, di sbattere sui tasti, e lui che arriva dopo tre minuti a raccontare di una donna tormentata, di castelli e marinai che issano a bordo le nostre anime, urlando esaltato su un ritmo massiccio.
A girl called Johnny
(The Waterboys, 1983)
Ragazzi, che attacco. Da-da da-dadàn, da-dàn da-da-da. Se il mondo fosse un posto normale, nelle discoteche si ballerebbe musica così. La ragazza di nome Johnny è Patti Smith, uno dei molti miti poetici e letterari di Scott.
Church not made with hands
(A pagan place, 1984)
Altrettanta potenza, ma stavolta sostenuta da un commando di fiati da invaderci la Scozia. La “chiesa che non ha costruito nessuno” è la donna indipendente e ammirata di cui si racconta, metafora di madre natura.
The big music
(A pagan place, 1984)
È che Mike Scott urla, ma dall’inizio alla fine: non come Bono, solo nei refrain (”In the name of love!”). Gasato come un pazzo, o si è fatto di qualcosa di ottimo o ci crede: “I have heard the big music, and I’ll never be the same!”. Ma il risultato è contagioso, esaltante. “The big music” è diventata la definizione della trilogia dei primi dischi dei Waterboys, quelli con questo suono portentoso: ed è poi stata estesa ad album di altre bands nordbritanniche, dai Simple Minds agli Alarm, ai Big Country.
The whole of the moon
(This is the sea, 1985)
Fu uno dei più grossi successi dei Waterboys, nonostante il rifiuto di Scott di andare a Top of the pops a cantare in playback. La sua fidanzata gli aveva chiesto come faceva a scrivere le sue canzoni, e lui aveva messo insieme quest’ode ai grandi che lo ispiravano. In mezzo a un circo di trombe, sassofoni e colpi di cannone. “Io parlavo di ali, tu volavi. Io mi chiedevo le cose, pensavo, cercavo di capire: tu sapevi. Mi chiedo come diamine tu facessi, dal fondo della tua stanza: io vedevo una falce, e tu vedevi la luna intera”.
This is the sea
(This is the sea, 1985)
Un ritmo da prender fiato, ma con la stessa passione. “This is the sea” parla del cambiamento, del mollare gli ormeggi, del fregarsene delle piccole cose del passato e buttarsi “sul treno che sta partendo”: “that was the river, this is the sea!”
Strange boat
(Fisherman’s blues, 1988)
Passata l’eccitazione della “big music”, Scott portò i Waterboys su un suono irlandese più familiare e moderato, ma sempre con un debole per i contenuti marinari. Dovrebbero vedersi, in un bar del porto, lui e Lucio Dalla, e declamare assieme:
“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio”
And a bang on the ear
(Fisherman’s blues, 1988)
Un elenco delle ragazze passate (fino alla sopravvissuta) a cui Scott manda tutto il suo amore, e un bang nell’orecchio. Che cosa sia esattamente un bang nell’orecchio non si sa, e forse le ragazze precedenti non apprezzavano.
A man is in love
(Room to roam, 1990)
“A man is in love” è una delle più belle canzoni d’amore di sempre. Non tanto per un andamento struggente o sdolcinato che non ha (è un’allegra danza irlandese di violini e chitarre): ma per come racconta di quest’uomo innamorato, e di tutti i suoi imbarazzi, e di come non smetta di parlare quando tu sei vicina, e del modo in cui ti guarda, e insomma di quanto sia innamorato, quest’uomo. E sono io, quest’uomo.
Something that is gone
(Room to roam, 1990)
Canzone stupenda, dal suono più americano, sull’aver perso qualcosa – ma cosa? –, un attimo, un pensiero, un’occasione. Così, in un lampo.
How long will I love you?
(Room to roam, 1990)
Un testo da Cole Porter, elenco di metafore sulla durata dell’amore: “Quanto ti amerò? Tanto quanto le stelle staranno in cielo, e se posso di più”.
Glastonbury song
(Dream harder, 1993)
Glastonbury non è solo la cittadina dove si tiene ogni anno il festival pop più affollato d’Inghilterra; secondo la leggenda è anche il luogo della prima chiesa cristiana dell’isola, fondata da Giuseppe d’Arimatea nel primo secolo dopo Cristo per ospitare il Sacro Graal. Altri miti l’associano ad Avalon o la danno come passata sede della tomba di re Artù. Qualcosa di tutto questo, e molto
altro ancora, ha a che fare col fatto che Mike Scott “ci abbia trovato Dio, dove è sempre stato”.
Divenne tutt’altra storia nella traduzione di Samuele Bersani, quella intitolata “Cosa vuoi da me”.
Too close to heaven
(Too close to heaven, 2002)
Dodici anni dopo, Mike Scott pubblicò in un cd i brani avanzati da Fisherman’s blues. Tra cui questi dodici minuti di canzone, eredi nella lunghezza e nell’andamento sia di quello che erano stati i dischi iniziali dei Waterboys, che della vita da pub irlandesi che aveva generato Fisherman’s blues.