Perché si parla di deflazione in Europa
Se ne è parlato parecchio in questi giorni: non è una cosa buona e l'Europa rischia di doverci fare i conti presto, scrive l'Economist
In queste ultime settimane si è parlato parecchio di “deflazione”. Si tratta di un fenomeno che sta già colpendo la Grecia, dove a ottobre i prezzi sono diminuiti del 2 per cento rispetto all’anno scorso. Ma con l’inflazione che rallenta un po’ dappertutto, la deflazione rischia di diventare un problema per tutti i paesi dell’Europa meridionale.
Che cos’è la deflazione
La deflazione è la diminuzione nel tempo del prezzo dei beni e dei servizi. Intuitivamente, è il contrario dell’inflazione, che si verifica invece quando i prezzi salgono. Tecnicamente, si verifica una deflazione quando il tasso di inflazione scende sotto lo 0 per cento.
Detta in un altro modo, con l’inflazione il valore reale del denaro diminuisce nel tempo (un euro non mi basta più per comprare un chilo di piselli, come era un anno prima). Con la deflazione il valore reale del denaro aumenta (ad esempio con un euro arrivo a comprare il doppio dei piselli che compravo un anno prima).
L’Economist nel numero di questa settimana ha dedicato un lungo articolo al fenomeno, analizzando i suoi rischi sia in America che in Europa. Si intitola “I pericoli di un’inflazione che cala”. L’inflazione troppo bassa, infatti, e ancora di più la deflazione, possono essere un grosso problema, soprattutto per paesi in difficoltà e con un debito altissimo come l’Italia.
Perché è un problema?
Anche chi non è molto esperto di economia sa che un’inflazione troppo alta non è una cosa buona. Chi ha una certa età si ricorda di quando anche in Italia l’inflazione era altissima. I più giovani magari hanno studiato a scuola l’iperinflazione della Repubblica di Weimar, negli anni Venti in Germania, o più di recente l’iperinflazione in paesi come lo Zimbabwe.
Il ruolo delle banche centrali, almeno da 30 anni a questa parte, è proprio quello di evitare questi scenari estremi, tenere sotto controllo l’inflazione e fare da “guardiani” dei prezzi; un compito svolto con un certo successo, visto che dagli anni Ottanta l’iperinflazione è sostanzialmente sparita da tutti i paesi industrializzati. Se l’iperinflazione è un problema, questo non significa che la sua totale assenza o, addirittura, la deflazione, non lo siano altrettanto (e in certi casi anche di più). Vediamo perché.
Ad occhio, l’idea di un sistema economico dove, mese dopo mese, i prezzi continuano a diminuire, sembra ideale. Ma non è così. Durante lunghi periodi di deflazione non sono solo i prezzi di quello che compriamo a calare, sono anche i prezzi dei servizi, dei trasporti e quindi, con il tempo, anche gli stipendi. C’è una cosa che però rimarrà probabilmente a un valore stabile: gli interessi sui debiti. Quindi, mentre gli stipendi calano e in generale il reddito nazionale diminuisce, diventa in proporzione sempre più difficile pagare gli interessi sul proprio mutuo o sul proprio debito pubblico.
Il secondo principale effetto della deflazione è che rende poco conveniente spendere i propri soldi. Se ad esempio qualcuno volesse comprare un televisore in un periodo di deflazione, avrebbe la tendenza a rimandare ancora un po’ l’acquisto, aspettandosi che il suo prezzo scenda. Questa tendenza non è solo dei privati: anche un’azienda potrebbe decidere di rimandare un investimento produttivo in attesa di trovare un prezzo più conveniente. Soprattutto in una situazione come quella attuale, il meccanismo può far sparire anche i timidi segni di ripresa economica a cui stiamo assistendo.
Quando il PIL non cresce può accadere un’altra cosa a paesi con un altissimo debito pubblico come l’Italia: il rapporto debito/PIL è formato da un numeratore, il valore del debito, e un denominatore, il PIL. Più è alta l’inflazione più il denominatore sale, anche in assenza di crescita “reale”, per il solo fatto che i prezzi aumentano. Nella stessa situazione, con il PIL reale fermo o in crescita molto bassa, se non c’è inflazione, o addirittura con deflazione, il PIL nominale cala, rendendo il rapporto debito/PIL sempre più elevato e potenzialmente ingestibile.
Quindi siamo in deflazione?
No, ma ci siano abbastanza vicini, come ha spiegato l’analista finanziario Mario Seminerio sul suo blog. Attualmente il tasso medio di inflazione nei paesi OCSE (i più sviluppati del mondo) è all’1,5 per cento, mentre soltanto un anno fa era al 2,2 per cento. Le banche centrali in genere fissano un obbiettivo di inflazione al 2 per cento o di poco inferiore.
In Europa la situazione è ancora peggiore. In ottobre l’indice dei prezzi al consumo (uno dei principali indicatori dell’inflazione) era cresciuto soltanto dello 0,7 per cento, mentre un anno fa era al 2,5 per cento. Questo calo è dovuto in parte ad una diminuzione dei prezzi delle materie prime, in particolare di quelle energetiche, come petrolio e carbone.
Le cose vanno appena meglio se si misura l’inflazione “depurata” dei prezzi che variano di più (alimentari ed energia), quella che gli economisti chiamano inflazione “core”. In Europa, questo indicatore è allo 0,8 per cento: un dato molto basso, se si considera che molte manovre di vari governi europei avrebbero dovuto contribuire a tenere alti i prezzi (ad esempio l’aumento dell’IVA in Italia dal 21 al 22 per cento).
Cosa si può fare?
Manovrare l’inflazione non è una cosa semplice per le banche centrali. Molti pensano che la maggior parte dei paesi sviluppati starebbe meglio con “un po’ più” di inflazione rispetto ad ora, ma, come si chiede l’Economist, qual è il giusto livello di inflazione e come si fa a raggiungerlo? È già capitato che in passato “un po’ più” di inflazione si sia trasformato in “parecchia inflazione in più” con conseguenze piuttosto spiacevoli.
Le banche centrali hanno diversi strumenti per provare a incidere sull’inflazione ma nessuno di questi è sicuro o ha conseguenze automatiche. Uno dei principali è la manipolazione del tasso di interesse con cui le banche centrali prestano denaro alle altre banche. Più è basso, più le banche sono incentivate a prendere a prestito facendo quindi – in teoria – aumentare il denaro in circolo. Esistono anche altri strumenti per ottenere lo stesso scopo, spesso definiti “non convenzionali”. Uno di questi è la cosiddetta forward guidance: in sostanza la banca centrale promette di tenere basso il tasso di interesse per un periodo prolungato, sperando di generare nel mercato un’aspettativa di inflazione futura. La seconda è il cosiddetto “quantitave easing“, cioè stampare denaro per comprare particolari tipi di titoli pubblici e privati.
Negli ultimi anni, le varie banche centrali dei paesi sviluppati hanno abbondantemente messo in pratica tutti questi sistemi. In particolare la Banca del Giappone, come parte della cosiddetta “Abenomics” ha messo in circolo moltissimo denaro riuscendo a far uscire il paese da 15 anni di deflazione e portandolo a un tasso di inflazione dello 0 per cento, che per il momento non è del tutto soddisfacente.
Su questo fronte la banca centrale che ha fatto meno è la BCE, che proprio pochi giorni fa ha abbassato il suo tasso di interesse da 0,50 per cento a 0,25 per cento, ma non ha ancora intrapreso nessuna operazione di quantitative easing. Secondo il settimanale britannico e secondo molti altri commentatori, la BCE dovrebbe intraprendere alcune delle misure non convenzionali già messe in campo dalle altre banche centrali.
Questa soluzione però non è vista bene dalla Bundesbank e dal governo tedesco. La Germania ha un’inflazione dell’1,3 per cento, più alta che nel del sud dell’Europa. Ma i tedeschi sono spesso accusati di avere un timore eccessivo delle spirali inflazionistiche e quindi di impedire alla BCE di mettere in campo le misure non convenzionali che sarebbe necessario intraprendere.