Gli sdraiati – Michele Serra
I figli adolescenti sono quello che eravamo noi, o è in corso una mutazione genetica?, si chiede Michele Serra nel suo nuovo libro
Esce oggi per Feltrinelli Gli sdraiati, il nuovo romanzo di Michele Serra, scrittore, giornalista e autore televisivo. Gli sdraiati del titolo sono gli adolescenti, che Serra racconta a partire dalla propria esperienza di padre che cerca, fra intense difficoltà di comunicazione e comprensione, di capire la posizione nel mondo di un figlio che vive “nel fuso orario di Anchorage”, nel momento del passaggio all’età adulta: e se le distanze generazionali contemporanee siano la normale declinazione di quelle precedenti o se sia in corso una mutazione nuova. Il libro sarà presentato lunedì 11 novembre alle 21 a Torino, al Maneggio della Cavallerizza Reale.
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Ma dove cazzo sei?
Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai. Il tuo cellulare suona a vuoto, come quello dei mariti adulteri e delle amanti offese. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva renitenza o la tua soave distrazione: e non so quale sia, dei due “non rispondo”, il più offensivo.
Per non dire della mia ansia quando non ti trovo, cioè quasi sempre. Ho imparato a relegarla tra i miei vizi, non più tra le tue colpe. Non per questo è meno greve da sopportare. Ogni sirena di ambulanza, ogni riverbero luttuoso dei notiziari scoperchia la scatola delle mie paure. Vedo motorini schiantati, risse sanguinose, overdosi fatali, forze dell’ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale. Leggo con avidità masochista le cronache esiziali del tuo branco, quelli schiacciati nella calca dei rave party, quelli fulminati dagli intrugli chimici, quelli sgozzati in una rissa notturna in qualche anonimo parcheggio di discoteca, quelli pestati a morte da gendarmi indegni della loro divisa.
Una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e contemporaneamente sgridarti, caricatura schizofrenica dell’autorità.
(Autorità: attorno a questa parola organizzo, da quando sei nato, convegni tanto pomposi quanto inconcludenti. Ciascuno dei relatori ha la mia faccia, è un’assemblea dei miei cocci intellettuali che cercano la perduta unità, ciascuno rinfacciando agli altri la loro insipienza. Titolo ideale di questa farraginosa convention dovrebbe essere: “Quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei dovuto mandarti a fare in culo”.)
L’unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un’alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono rivoltati da ogni tuo singolo passo.
Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all’insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l’orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim. D’estate il disastro è più lindo, meno suggestivo rispetto al trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l’anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. L’orbita della Terra attorno al Sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio, avete relegato il tempo atmosferico tra i dettagli che bussano vanamente sulla superficie del vostro bozzolo.
In cucina il lavello è pieno di piatti sporchi. Macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli. Questa è la norma, l’eccezione (che varia, in festosa sequenza) è una padella carbonizzata, o il colapasta monco di un manico, o una pirofila con maccheroni avanzati che produce le sue muffe proprio sul ripiano davanti al frigo: un passo ancora e avrebbe trovato salvezza, ma la tua maestria nell’assecondare l’entropia del mondo sta esattamente in questo minimo, quasi impercettibile scarto tra il “fatto” e il “non fatto”. Anche quando basterebbe un nonnulla per chiudere il cerchio, tu lo lasci aperto. Sei un perfezionista della negligenza.
Più di un posacenere, in giro per la casa, rigurgita di cicche. Spero non solo tue. Dalla piccola catasta è tracimata qualche unità ribelle, rotolata sul tavolo o caduta per terra. Scaglie di cenere ornano specialmente il divano, tuo habitat prediletto. Vivi sdraiato. Tranne che in cucina, dove domina il puzzo di rancido, la casa è impregnata del tanfo di sigaretta spenta, e perfino a me, che fumo, pare impossibile classificare quella cappa mortifera come il residuo di un piacere. Il tabagista più irrecuperabile dovrebbe venire qui un paio di volte alla settimana, respirare con quello che gli resta dei polmoni quest’aria combusta e melmosa. Si redimerebbe.
Quasi radiosa, in questo quadro bisunto e tendente allo scuro, è l’aureola candida che sta sotto la macchina del caffè. È fatta di zucchero. Deve sembrarti lezioso centrare con il cucchiaino la circonferenza della tazzina, e dunque spargi virilmente il tuo zucchero con il gesto largo e brusco del seminatore. Levando poi la tazzina, rimane al centro un piccolo cerchio intonso, e intorno un anello di zucchero. Mi ci sono affezionato, quasi come le formiche che a volte, in disciplinata fila, vengono a pascolare sul tuo astro involontario.
In bagno, asciugamani zuppi giacciono sul pavimento. Appendere un asciugamano all’appendiasciugamani è un’attività che deve risultarti incomprensibile, come tutte quelle azioni che comportano la chiusura del cerchio. Come richiudere un cassetto, o l’anta di un armadio, dopo averli aperti. Come raccogliere da terra, e piegare, i tuoi vestiti buttati ovunque, quelle felpe che paiono indossate da un corpo fatto di soli gomiti, bozzute anche nelle parti che non hanno ragione di esserlo, e per giunta farcite della maglietta che sfili in un solo colpo insieme a qualunque indumento sovrastante. La parte superiore del tuo vestiario è tutt’una, un multistrato che si compone vestendosi ma non si divide svestendosi.
Calzini sporchi ovunque, a migliaia. A milioni. Appallottolati, e in virtù del peso modesto e dell’ingombro limitato, non tutti per terra. Alcuni anche su ripiani e mensole, come palloncini che un gas misterioso ha fatto librare in ogni angolo di casa.
Qualche apparecchio elettronico lasciato acceso, sempre. Sulle pareti della casa buia, bagliori soffusi di spie, led, video ronzanti, come le braci morenti del camino nelle case di campagna. Spesso la televisione di camera tua replica anche in tua assenza uno di quei cartoon satirici americani (Griffin o Simpson) che dileggiano il consumismo. Oppure è il computer che sta scaricando musica, e sobbolle abbandonato sul letto (ho cercato di farti credere, inutilmente, che è pericolosissimo, che può bruciare la casa. Di questi miserabili espedienti è fatta la mia autorità).
Tutto rimane acceso, niente spento. Tutto aperto, niente chiuso. Tutto iniziato, niente concluso.
Tu sei il consumista perfetto. Il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa.
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Intorno alla metà di questo secolo, secondo tutte le previsioni, la classe dominante, in Occidente, saranno i vecchi. A meno di invasioni vincenti dei popoli poveri (poveri e giovani saranno, anzi già sono, ormai sinonimi), le persone dai settantacinque in su saranno più della metà della popolazione. Ripeto e sottolineo: più della metà della popolazione. Miliardi di dentiere batteranno il ritmo del tempo residuo, miliardi di pannoloni assorbiranno le ultime acque di corpi disseccati. Un’umanità sfinita e transennata cercherà di protrarre oltre ogni logico limite il proprio potere. Ho qualche probabilità di farne parte, se tengo in ordine le mie arterie, la smetto di bere e fumare, evito i formaggi. Ma potrò fare tai chi in un parco, insieme ad altri cadaveri animati come me, senza che un cecchino del Fronte di Liberazione Giovanile, appostato su un tetto, mi centri in piena fronte? Ponendo fine, con un solo colpo bene assestato, alle mie pene e soprattutto alle sue?
Questa spettacolare pagina bellica, qui appena accennata, è solo uno dei tanti, appassionanti episodi della Grande Guerra Finale, quella tra Vecchi e Giovani, che dà il titolo a un romanzo grandioso e definitivo al quale sto lavorando da parecchio tempo: La Grande Guerra Finale. Almeno un paio di volumi. Di ampiezza tolstojana, come minimo. Naturalmente, la stesura definitiva richiede una maturità espressiva irraggiungibile alla mia età. La scriverò tra i novanta e i novantacinque, asserragliato in un resort fortificato insieme ad altri facoltosi moribondi come me, difeso manu militari da mercenari asiatici e africani giovanissimi, strapagati perché sparino sui loro coetanei per proteggere le nostre oscene agonie. Per adesso prendo appunti, imposto qualche capitolo, lavoro ai personaggi. Un giorno se vuoi ti faccio leggere qualcosa.
Non so ancora se farò vincere i Vecchi o i Giovani. Ciascuno dei due esiti ha i suoi pro e i suoi contro, dico dal punto di vista narrativo, perché da quello biologico non esistono dubbi: o vincono i Giovani o l’umanità, con tutto il suo glorioso strascico di vestigia, va a farsi fottere. È peraltro possibile, fortemente possibile, che un autore novantacinquenne (tale sarà la mia età quando uscirà, con clamore mondiale, La Grande Guerra Finale) parteggi disperatamente per la sopravvivenza dei Vecchi, ma sia abbastanza ipocrita da dissimularlo, anche per non urtare il senso etico dei lettori e specialmente delle lettrici, per definizione molto affezionate, si sa, all’idea della prosecuzione della specie.
Ho stabilito che l’eroe del libro deve essere in grado di portare a sintesi la superiore lungimiranza dei Vecchi – ovvero dell’autore stesso – e le ragioni di quella confusa ma in fondo lecita prospettiva che chiamiamo “futuro dell’umanità”.
L’eroe del libro, insomma, non può che essere un traditore. Si chiama Brenno Alzheimer (il nome è provvisorio, temo sia troppo caricaturale: La Grande Guerra Finale, sia ben chiaro, sarà un affresco storico di forte impronta drammatica), è uno dei leader dei Vecchi, un intellettuale decrepito e molto rispettato. Simpatizza con il nemico, e trama in gran segreto per l’affermazione dei Giovani, fino a immolarsi per la causa. Scoperto, viene condannato alla fucilazione ma riesce a morire prima dell’esecuzione sospendendo i farmaci contro l’ipertensione.
Naturalmente, Brenno Alzheimer sono io.
© Giangiacomo Feltrinelli editore Milano
(il disegno è di Gipi)