Un’Italia senza immigrati?
La proposta sull’immigrazione di Luigi Manconi e Valentina Brinis, nel libro Accogliamoli tutti
Il Saggiatore ha pubblicato il libro Accogliamoli tutti di Luigi Manconi, sociologo, senatore e presidente di A Buon Diritto Onlus, e di Valentina Brinis, ricercatrice e esperta di immigrazione, con una prefazione del Ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge. Il libro propone l’accoglienza come soluzione più utile e efficace, sia per gli immigrati che per gli italiani, al problema dell’immigrazione. In queste pagine Manconi e Brinis analizzano cosa succederebbe in un’Italia senza immigrati.
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Da quasi un lustro, un dato affiora dalle ricerche sociali più avvertite e fa capolino su alcuni organi di stampa: gli immigrati se ne vanno dall’Italia. Si tratta, in realtà, di un dato controverso.
Se consideriamo il solo indicatore rappresentato dalla mera statistica demografica, il fenomeno è incontestabile. I dati del censimento generale del 2011 evidenziano che il numero degli stranieri residenti è triplicato rispetto alla rilevazione del 2001. Questo aumento non ha avuto un andamento costante, risentendo della legislazione nazionale e internazionale in tema di immigrazione.
Al 1° gennaio 2012 i dati dell’Istat segnalano la presenza in Italia di 4.859.000 stranieri, che rappresentano l’8 per cento della popolazione totale residente. Rispetto al gennaio del 2011 si registra un incremento di 289.000 unità. Il che è significativo, in quanto l’incremento è in termini assoluti inferiore a quello registrato negli anni precedenti: 2011, +335.000; 2010, +425.000; 2009, +343.000; 2008, +459.000; 2007, + 494.000. In altre parole, dal 2009 aumenta la popolazione straniera, ma a un ritmo meno sostenuto, e si riduce la misura di quell’incremento. Un dato che sembra confermato anche dalla «sparizione» di circa 800.000 immigrati: ci riferiamo allo scarto tra popolazione residente e popolazione registrata dal censimento 2011. La differenza si deve, probabilmente, a molti fattori: non si possono di certo trascurare i cambi di residenza da comune a comune non correttamente trasmessi all’anagrafe, ma molte fonti considerano l’ipotesi che una parte degli «spariti» sarebbe rientrata in patria, mentre un’altra parte si sarebbe indirizzata verso altri paesi. Un’altra quota ancora si è sottratta presumibilmente alla compilazione di un modulo, quello del censimento, che sembrava corrispondere a una forma di controllo non desiderabile per più ragioni (non tutte necessariamente illecite). Contribuisce a spiegare il fenomeno in questione anche il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno, che ha riguardato nel 2011 circa 140.000 persone. E va aggiunto che, pur in assenza di precise statistiche, è altamente probabile che un certa frazione di coloro che non hanno potuto o voluto rinnovare il titolo di soggiorno sia rimasto qui, in una condizione di «invisibilità»: ovvero di irregolarità. Un’occasione persa per tutti.
In ogni caso, un fatto appare incontrovertibile: il numero degli immigrati presenti in Italia non aumenta più come prima. Anzi, il tasso di crescita tende a diminuire. Molti i motivi, alcuni dei quali di non facile decifrazione. Se è vero che la crisi economico-finanziaria internazionale impoverisce in particolare i paesi del sottosviluppo, è altrettanto vero che rende meno attraenti e appetibili quelli dello sviluppo. Moltiplica le spinte a emigrare ma pone ostacoli maggiori alla possibilità di immigrare in un certo numero di paesi sviluppati; fa fuggire persone, gruppi familiari e segmenti di comunità, ma finisce con il costruire barriere di ogni sorta alla possibilità di una loro accoglienza.
Per esempio, i ricongiungimenti familiari – qui intesi in senso non esclusivamente legale – diventano assai più complicati e onerosi per coloro che, già presenti nei paesi industrializzati, vorrebbero riunirsi ai propri cari: si sono ridotte le possibilità di lavoro e le protezioni sociali, ma anche gli spazi nelle abitazioni e il numero dei mezzi pubblici di trasporto (e tutto ciò mentre si irrigidivano i criteri relativi proprio alle procedure di ricongiungimento). Più in generale, l’immagine dell’Italia sembra essere profondamente mutata nelle aspettative di quanti si rivolgono all’Europa per trovarvi una prospettiva di vita futura: ai loro occhi, il nostro paese appare nel complesso assai meno attraente e comunque intenzionato a chiudersi. La conseguenza è un duplice processo di scoraggiamento, che porta l’Italia a un ruolo marginale (più propriamente: transitorio e provvisorio) rispetto ai grandi flussi migratori; e che induce quanti, in Italia, avevano trovato nuove chance di vita a non accontentarsene più, fino a considerare quella italiana come una sorta di «tappa di passaggio» per una successiva destinazione. Accade così che se un dato, qui assai valorizzato, come quello della imprenditoria straniera mantiene pressoché intatta la sua vitalità, altri indicatori vanno in un senso affatto diverso. In particolare quello relativo all’impiego della forza lavoro straniera. Qui i dati sembrano chiari, e se incrociati con quelli prima ricordati sul mancato rinnovo del permesso di soggiorno, confermano la sensazione di un minore investimento sull’Italia da parte di una crescente percentuale di migranti.
Tutto ciò in uno scenario profondamente segnato dalla peculiare crisi demografica del nostro paese. Da alcuni decenni ormai si sente ripetere che «l’Italia è invecchiata». Vero, verissimo: siamo un paese letteralmente «vecchio», il cui tasso di fecondità è tra i più bassi dei paesi occidentali, come dimostra il valore del «saldo naturale» di -20.642 individui per il 2012, dato dalla differenza tra il numero dei nati e il numero dei morti in quell’anno.
In genere, quell’affermazione («l’Italia è vecchia») suggerisce considerazioni, tutte ragionevoli e condivisibili, sulla necessità di favorire il «ringiovanimento» della società nazionale. E, tra i rimedi proposti, l’arrivo di persone straniere, dotate di grandi risorse, energia e voglia di fare, disponibilità al cambiamento e interesse per le novità, in grado di spostarsi rapidamente e di affrontare le incognite di nuovi luoghi, nuovi lavori, nuove condizioni di vita, è considerato un’importante opportunità. Si tratta di un ragionamento accettabile, perché è indubbio che alcuni dei tratti rilevanti del «carattere nazionale», quelli che hanno determinato fenomeni di immobilismo sociale e stagnazione culturale, possano essere sottoposti a utile pressione e a sfide stimolanti dall’arrivo di nuovi competitori – a patto, sia chiaro, che si eviti il rischio di una sorta di «guerra» tra «nuovi» poveri). Ed è altrettanto indubbio – anche se è solo un esempio – che il fenomeno costituito dalle piccole imprese con titolare straniero non abbia rappresentato un fattore di concorrenza nociva per le piccole aziende italiane, bensì un fattore di dinamizzazione del mercato e di più ampia offerta di servizi.
Ma l’età avanzata della popolazione italiana pone, fin da ora, un altro grande problema, che presenta aspetti drammatici. Ancora una volta, l’analisi demografica può essere di aiuto. Partiamo dalla vetta della piramide generazionale, con riferimento agli ultimi dati del censimento generale del 2011: in Italia le persone che si trovano nella fascia 100-105 anni sono circa 15.000, e 503.000 quelle che hanno compiuto tra i 90 anni e un secolo.
Scendendo alcuni gradini di questa scala, troviamo che sono 3.107.000 le italiane e gli italiani tra gli 80 e gli 89 anni, e 5.587.000 quelli tra i 70 e i 79. Se osserviamo, infine, quella fascia d’età dove approssimativamente si colloca l’inizio del pensionamento, vi troviamo 4.452.000 individui. Se anche si esclude quest’ultima classe, si può notare che nel complesso dai 65 anni in su si trovano 12.290.000 italiane e italiani.
È questo dato, così crudo e imponente, a costituire una delle motivazioni di fondo – razionale, razionalissima – di quell’«accogliamoli tutti» che dà il titolo al nostro libretto. E qui giova ascoltare le parole di un demografo. Il professor Giuseppe Gesano ci illustra i contenuti essenziali del saggio da lui scritto con Salvatore Strozza sulla rivista internazionale Genus: «Tutti i dati confermano che l’immigrazione ha un ruolo centrale nel ridurre l’invecchiamento generale della popolazione nel breve periodo, ma non può ribaltarlo a meno che non sia ammessa l’accoglienza di grandi flussi di individui. Nel medio periodo (venti-quarant’anni), gli effetti indiretti dell’immigrazione sul “ringiovanimento” potrebbero svanire rapidamente, dato che la differenza nei livelli di riproduzione si riduce in proporzione alla durata della permanenza dei migranti. La prima generazione di immigrati progressivamente passa nell’età adulta e, se non sono tornati a casa, anche loro contribuiscono all’invecchiamento della popolazione nel paese di accoglienza».
In altre parole, sostiene Gesano, non può essere certo un flusso migratorio occasionale e limitato nel tempo a contenere il processo di invecchiamento della popolazione: «Solo una politica di continui flussi di nuovi immigrati potrebbe risultare efficace». Per paradosso, «in un equilibrio esclusivamente demo-economico» si può sostenere che una politica di immigrazione costante sia ulteriormente vantaggiosa, in quanto «le nascite al di fuori del paese di accoglienza e la conseguente immigrazione di lavoratori adulti consentono di risparmiare le spese per l’educazione nei primi anni d’età». In ogni caso, «l’invecchiamento della popolazione è stato e sarà un processo inevitabile, legato soprattutto alla riduzione dei tassi di fecondità nei paesi occidentali e al prolungamento della durata media della vita umana».
In estrema sintesi, la conclusione che propone Gesano è questa: «Le politiche presenti e future per l’Italia, così come per altri paesi con un basso tasso di fecondità e un rapido tasso di invecchiamento, dovrebbero combinare incentivi all’aumento delle nascite attraverso l’immigrazione regolata da flussi annuali e programmi per l’integrazione, specie in ambito lavorativo».
Ecco spiegato il sottotitolo di questo nostro pamphlet: per «salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati» sono necessarie (meglio: indispensabili) intelligenti e lungimiranti politiche per l’immigrazione, capaci di combinare misure di sostegno all’incremento della popolazione, accogliendo e regolarizzando, con strategie di integrazione e di inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza.
A questo punto, si potrebbe replicare: vi nascondete dietro un demografo. Non abbiamo alcuna difficoltà ad ammetterlo: sì, ci nascondiamo dietro al nostro bravo demografo. E il motivo è semplice. Siamo a tal punto convinti della assoluta ragionevolezza delle argomentazioni fin qui svolte e di quelle che svolgeremo, e così certi dell’incondizionato buon senso delle nostre proposte, che talvolta ci stupiamo di come il senso comune – per Antonio Gramsci nemico, appunto, del buon senso – sembri andare in tutt’altra direzione. È propriamente allora che ci sembra opportuno chiamare in soccorso la scienza. Ossia l’aspra materialità dei dati economici e di quelli relativi alle dinamiche delle popolazioni e dei processi sociali e culturali. Sappiamo che nemmeno i numeri sono sufficienti, di fronte alla vischiosità degli stereotipi e all’oscura resistenza opposta dalle ansie collettive. Ma, indubbiamente, possono aiutare.
foto: ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images