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  • Lunedì 4 novembre 2013

Quella notte lì

Le foto e la storia di un giorno che finirà sui libri di storia, a prescindere

during an election night gathering in Grant Park on November 4, 2008 in Chicago, Illinois. After nearly two years of presidential campaigning, U.S. citizens went to the polls today to vote in the election between Sen. John McCain (R-AZ) and Sen. Barack Obama (D-IL).

during an election night gathering in Grant Park on November 4, 2008 in Chicago, Illinois. After nearly two years of presidential campaigning, U.S. citizens went to the polls today to vote in the election between Sen. John McCain (R-AZ) and Sen. Barack Obama (D-IL).

Di poche date del tempo presente possiamo dire già adesso, con una qualche certezza, che finiranno sui libri di storia: una di queste è il 4 novembre del 2008. Il 4 novembre del 2008 fu il giorno in cui gli elettori degli Stati Uniti scelsero Barack Hussein Obama – un nero, per la prima volta nella loro storia – come nuovo presidente. Un nero, per giunta con “Hussein” come secondo nome, dopo otto anni di presidenza Bush e “scontro di civiltà”: sarebbe bastato questo, ma Obama aggiunse alla spettacolarità della sua storia personale e del suo carisma una vicenda politica altrettanto spettacolare e cinematografica, che lo portò da essere il candidato più debole e squattrinato a diventare l’aggregatore di un enorme consenso, molto più che statunitense, a sconfiggere la corazzata Hillary Clinton e arrivare alla Casa Bianca con un messaggio semplice e forte – “speranza” e “cambiamento”.

Sono passati un po’ di anni, nel frattempo Obama è stato rieletto alla Casa Bianca, da tempo sono giustamente i suoi successi e i suoi insuccessi politici a definirlo, piuttosto che la portata straordinaria della sua elezione. Ma quello che di speciale successe quella notte – a Grant Park a Chicago e non solo – rimane e rimarrà in ogni caso qualcosa da ricordare: Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, lo fece così nel suo libro Un grande paese (qui il capitolo completo).

***

Avevo passato la notte che Obama era diventato presidente degli Stati Uniti assieme a un gruppo di amici tra i trenta e i quarant’anni. Alle cinque del mattino ci eravamo abbracciati e avevamo brindato. Avevamo scherzato un po’ sull’ultima gioia di questo genere di cui ci ricordavamo – i Mondiali dell’82, ma alcuni erano troppo piccoli – e avevamo quindi convenuto che questa fosse la cosa più bella capitata al nostro mondo dal 1989, era novembre anche allora. Qualche ora prima, la tensione della vittoria che non arrivava ancora era stata alleggerita da un servizio di Porta a Porta che si apriva sulle «somiglianze tra Obama e Berlusconi» e proseguiva sostenendo che tra i primi sostenitori di Obama in Italia c’erano stati i ministri Sandro Bondi e Maria Stella Gelmini. Era stato il più clamoroso momento di incongruenza tra quanto stava accadendo davvero e le persone che lo commentavano in televisione: il mondo com’è e l’Italia come si mostra.

La vittoria di Barack Obama, quella notte, era stata la prima grande gioia storica della generazione dei trentenni. Gli osservatori tradizionali nel circo italiano l’avevano paragonata alla caduta del Muro, allo sbarco del primo uomo sulla luna, o persino – e non erano pochissimi – alla fine della guerra mondiale. Passioni a cui parteciparono, eventi che avevano travolto le loro vite e le loro emozioni, ormai corrose dall’età e dal disincanto nel momento in cui un nero diventava presidente degli Stati Uniti. Avevano fatto ricorso a tutto il loro repertorio di esperienze e di cliché per analizzare quello che era successo quella notte: ma semplicemente non era più roba loro. La vittoria di Barack Obama era di quelli che avevano l’età di Barack Obama, e di quelli che ci avevano investito tutte le speranze e gli altruismi che fino ad allora non avevano mai avuto l’occasione di tirar fuori e che il tempo non aveva ancora sbriciolato. Loro lo capivano e appartenevano a quello che stava succedendo, alla retorica sincera della speranza e del migliorare il mondo che era nei suoi discorsi, alla modernità che era stata nella sua campagna, alla leggerezza poco pomposa che stava nelle sue discrete consapevolezze, a una comunicazione fatta di immagini e condiviso interesse per il futuro. Erano loro che quella nottata l’avevano seguita sui blog e in rete, che si erano congratulati con migliaia di mail, che avevano festeggiato assieme dai quattro angoli del mondo; che avevano saputo cogliere il senso di ogni nuovo dato e non si erano fatti ingannare da notizie sbagliate o male interpretate, come nel frattempo avveniva nei talk show televisivi¹. Erano loro che si erano abbracciati, quella notte, ed erano stati felici di una cosa che neanche li riguardava, a giudicarla con lo sguardo distaccato dei loro padri. Felici di una gioia vera, buona, lieve delle soddisfazioni incattivite e «contro» che gravano spesso sugli altri eventi con cui hanno a che fare. Non era per la sconfitta di Bush, che erano felici, né per lo smacco dei bianchi razzisti: e il rivale McCain lo avevano persino apprezzato e molto. Erano invece felici perché questa era una cosa che sentivano finalmente dentro il loro tempo, una cosa che era come loro, e che conoscevano. Il mondo di fuori adesso sembrava assomigliare al loro mondo, la vita del mondo alle loro vite, non erano più controcorrente: almeno fino a che non avessero rimesso testa e piedi sul suolo italiano. Obama era uno di loro, e uno dei migliori. Quella notte avevano messo piede sulla luna anche loro, finalmente. Ed era tutta un’altra luna.

¹ Per più di un’ora la tv italiana aveva dato la Virginia a McCain, sbagliando. Intanto, nella matura redazione online di un quotidiano italiano si aggiornavano i dati ricopiandoli freneticamente a matita dalle schermate televisive e poi inserendoli sul sito.