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  • Lunedì 4 novembre 2013

I cani di San Francisco

Le carceri della California, Abu Ghraib e altre storie dal libro di Enrico Deaglio La felicità in America

È uscito per Feltrinelli La felicità in America, il nuovo libro di Enrico Deaglio, giornalista, scrittore e conduttore televisivo. Il libro rappresenta una specie di viaggio sentimentale alla scoperta dell’America attraverso storie importanti o sconosciute che Deaglio ha raccolto in trent’anni di frequentazione assidua degli Stati Uniti.

***

Diane Whipple pensava di essere tornata a casa, quando venne sbranata da Bane e Hera, due Presa Canario

Il fatto successe il 26 gennaio del 2001, al numero 2308 di Pacific Avenue, in una delle zone più chic di San Francisco. Un palazzo di pietra con una maestosa vista sulla baia, un’entrata art déco tra il religioso e il lugubre, scale antincendio, bovindo e pinnacoli. Agli inizi del secolo scorso residenza di uomini dall’improvvisa ricchezza, oggi diviso in appartamenti di prestigio in affitto.

Al sesto piano si affacciavano sul corridoio gli appartamenti di Diane Whipple, 26 anni, insegnante di ginnastica in una scuola femminile cattolica appena fuori città; quello degli avvocati Robert Noel e Marjorie Knoller (studio e abitazione) e quello della signora Esther Birkmaier, ultrasettantenne che raramente usciva di casa. Fu Esther la prima che sentì, e poi vide, quel poco che lo spioncino le permetteva. Terribili ululati, poi grida, poi sangue sul pavimento e sulla parte bassa delle pareti. Chiamò il 911, la polizia arrivò in sette minuti e trovò morente la giovane Diane Whipple, coperta di sangue sulla soglia della sua abitazione. Impietrita, sotto shock e anch’essa sporca di sangue, l’avvocato Marjorie Knoller davanti alla sua porta.

Dentro i suoi due cani: Bane il maschio e Hera la femmina, della feroce razza dei Presa Canario, bestie da più di 70 chili di peso. Erano insieme alla loro padrona sulla soglia di casa quando Diane Whipple aprì la porta dell’ascensore con le chiavi di casa in una mano e la borsa della spesa nell’altra. Bane le saltò addosso e le sbranò la testa, Hera partecipò strappandole i vestiti. L’avvocato Knoller riuscì con fatica a riportare i due cani in casa. Agenti specializzati assediarono le due bestie per più di un’ora, sparando loro proiettili sedativi, prima di averne ragione. Bane fu ucciso sul posto, Hera portata al canile municipale e trattata come un “testimone”. Robert Noel, che non era presente alla scena, l’aveva però intuita quando arrivando in macchina aveva visto tutto l’isolato circondato dalla polizia. Sollevato nell’apprendere che la vittima non era sua moglie, cominciò a pensare a una linea di difesa.

La notizia si sparse subito attraverso radio e televisioni in una città notoriamente amante degli animali e dei cani in particolare. (Una vignetta mostra due barboncini che si azzuffano in un salotto e uno grida: “Io, non tu, io sono il figlio che lei avrebbe voluto avere!”.) I cani di San Francisco sono la manna per psicologi, allenatori, accompagnatori, cuochi, dietologi, reumatologi, coiffeur e opinionisti: è necessario cibo kosher per i cani di padroni ebrei?

I centralini furono sommersi di chiamate. Perché Bane era stato ucciso? Si poteva salvare Hera? Perché i vicini di casa avevano tollerato la presenza di bestie così pericolose? Dov’era l’amministratore di condominio? Perché erano senza museruola? Ci sarebbero state restrizioni al passeggio dei cani nei parchi e nelle strade? Una certa quantità di persone immediatamente si informò sulla razza dei Presa Canario, per acquistarne un esemplare. Si scoprì subito, e con amarezza, che la compagna di Diane Whipple, Sharon Smith, con cui la vittima divideva l’appartamento e in favore della quale aveva fatto testamento, non aveva il diritto di costituirsi parte civile. E questo nonostante si fosse nella patria dei diritti dei gay.

Ma lo stupore crebbe il giorno dopo, quando l’avvocato Robert Noel fece avere al procuratore distrettuale e alla stampa venti pagine di fax con la sua versione dei fatti. Spiegava l’avvocato che i cani erano sempre stati gentili e obbedienti ai comandi, benvoluti dal vicinato e che l’attacco aveva, a suo parere, una spiegazione plausibile: Diane Whipple, lesbica e sportiva professionista, probabilmente faceva uso di ormoni che avevano spinto il cane maschio a difendere la sua padrona. D’altronde, spiegava ancora l’avvocato, se Diane Whipple non fosse stata ferma sulla porta (la vittima aveva ancora le chiavi in mano), ma fosse entrata e l’avesse chiusa dietro di sé, nulla sarebbe successo. Ed era quello che sua moglie Marjorie le aveva gridato.

Non era finita. La polizia scoprì che Bane e Hera erano tenuti “in custodia” dalla coppia di avvocati, per conto di un detenuto della prigione di massima sicurezza di Pelican Bay, su, all’estremo Nord dello stato. E che detenuto! Nientemeno che Paul “Cornfed” Schneider, ergastolano, nemico pubblico numero uno, presunto capo della Fratellanza ariana, la principale gang presente nel circuito carcerario americano, di cui Noel e Knoller erano i procuratori legali. Cliente e patrocinatori avevano rapporti così stretti che i secondi lo avevano legalmente adottato: quindici giorni dopo l’assalto, l’iter burocratico terminò e Noel, Knoller e Schneider festeggiarono la nascita di una “nuova famiglia”.

Un circuito così fosco, accompagnato da rivelazioni dei media su fotografie erotiche dei cani che genitori adottivi e figlio adottato si scambiavano da tempo, convinse il procuratore Terence Hallinan a ordinare l’arresto della coppia. Nel frattempo anche Hera, terminate le esigenze istruttorie, era stata messa a morte, tra non poche proteste. Tra le sue feci, le prove della sua partecipazione al delitto, sotto forma di brandelli del vestito di Diane Whipple.

Come si diventa adepti della Fratellanza ariana

Nel 1979, lo scrittore Truman Capote intervistò nel carcere di massima sicurezza di San Quintino, California, uno dei più strani tra gli appartenenti alla banda di Charles “Satana” Manson, Robert Beausoleil, che dieci anni prima, all’epoca della strage di Beverly Hills, era stato un bellissimo e promettente attore cinematografico. Scampato alla sedia elettrica per una moratoria delle esecuzioni capitali, Beausoleil ricordò allo scrittore i bei tempi della famiglia Manson e le sue speranze: lunghe corse in motocicletta nei boschi, fare l’amore sulla spiaggia, comporre musica con la chitarra. Ma aggiunse anche: “Qui dentro mi vedo come un detenuto, ma soprattutto come un uomo bianco, che lotta per tutto quello per cui lottano gli uomini bianchi…”. Capote gli chiese se era vero che fosse un membro della Fratellanza ariana e Beausoleil diventò ostile. “Che cosa ne sai tu, della Fratellanza?” “Oh,” rispose Capote, “so che è un gruppo di ottusi uomini bianchi, una confraternita di fascisti nata qui in California e oggi è sparsa in tutto il sistema penitenziario americano. So anche che le autorità la ritengono molto pericolosa.”

Beausoleil reagì: “Un uomo deve difendersi. Siamo in minoranza, tu non hai idea di quanto sia pesante qui. Neri e chicanos hanno le loro bande; gli indiani pure. O forse dovrei dire ‘nativi americani’, come vogliono loro? Non farmi ridere! Lo sai, tu, che cosa capita qui dentro, con tutte le tensioni razziali, la droga, la politica, il gioco d’azzardo e il sesso? I neri danno la caccia ai bianchi. L’unica cosa che vogliono è piazzare i loro grossi cazzi neri nel culetto di un bianco”.

Venticinque anni dopo, la Fratellanza era enormemente cresciuta. E con essa i suoi nemici, la Black guerrilla e la Mexican mafia. Le tre sigle oggi contendono alle guardie l’enorme mercato delle prigioni e dalle celle dirigono molta parte del crimine organizzato.

Secondo l’Fbi, Paul “Cornfed” Schneider, il figlio adottivo dei due avvocati, capo della Fratellanza in California, era in grado di muovere soldi e affari dalla sua cella e di ordinare omicidi. Gliene imputavano dodici; di uno era sicuramente colpevole, quello del suo precedente avvocato. Lo aveva ucciso in tribunale, con un cucchiaio trasformato in coltello che per settimane aveva tenuto nascosto nel retto.

Se Robert Beausoleil e Charles Manson erano stati i frutti ribelli dei figli dei fiori, Paul Schneider era l’ultima versione del desperado americano. Un fusto alto quasi due metri, occhi azzurri, spessi capelli biondi, fanatico delle opere di Tolkien e pittore di una certa vena: dato che gli era vietato comprare colori, li otteneva stingendo sotto l’acqua le pagine della pubblicità dei giornali; il rosso lo otteneva dai pacchetti di Marlboro. Da ragazzo aveva lavorato per una piccola compagnia che forniva cani in affitto ai negozianti di El Cerrito per proteggerli dai rapinatori. Li portava la sera e li andava a riprendere al mattino e gli era successo una volta di trovarne uno con i tendini tagliati: “Ma il cane, nonostante le ferite, non aveva tradito”.

Poi era stato nell’aviazione ed era diventato un esperto di survival, un Rambo. Lì aveva imparato a far soffrire in silenzio il proprio corpo e quei nascondigli dei cucchiai. Ma era anche un imprenditore, seppure costretto per ventidue ore al giorno in un locale di due metri per due. Per prima cosa, dato che ormai a ogni trasferimento gli passavano i raggi X dappertutto per scoprire dove potesse nascondere armi, fece causa alle guardie per danni alla sua salute, vinse e incassò 11.000 dollari. Quindi li investì nel progetto dei cani da guerra, dogs of war. Sapeva come piazzarli: a Los Angeles, San Diego e oltre il confine, a gente della Mexican mafia, che li avrebbe usati come feroci e leali guardiani dei propri laboratori di droga.

L’avventura della povera signora Janet Coombs

Certo, i detenuti non possono condurre affari dalle loro celle, ma Paul trovò l’aiuto di Janet Coombs. La signora Coombs (che oggi è scomparsa all’interno del programma di protezione dei pentiti dell’Fbi) viveva allora in uno dei luoghi più poveri della California, un’ex città mineraria di nome Hayford, al confine con l’Oregon, in mezzo ai boschi, in una baracca sgangherata tra rottami di vecchi camper, allevando oche, galline e maiali. La povera signora, cinquantenne obesa e malata, con la figlia Daisy di 17 anni a carico, campava vendendo le sue bestie e con un po’ di assistenza sociale; ma essendo una donna mormone molto osservante, aveva tra i suoi obblighi l’assistenza ai carcerati; ogni settimana si faceva quasi 300 chilometri con la corriera attraverso i boschi per arrivare fino a Crescent City ed entrare nella famosa, terribile, spaventosa “prigione modello” di Pelican Bay, carcere di massima sicurezza e morte civile per 1200 detenuti.

Parlava di Dio con Paul, voleva convertirlo. Gli propose anche di sposarlo. Paul le parlava del suo progetto sui cani e le propose di allevarli lassù a Hayford. Lei ci avrebbe guadagnato qualcosa, Janet accettò. Nove cuccioli comprati su internet arrivarono da Chicago all’aeroporto di Sacramento e poi su per le montagne con un pulmino attrezzato. Erano Presa Canario, una razza quasi estinta di mastini spagnoli dalla ferocia e dalla lealtà leggendarie; in combattimento se la vedevano alla pari con un toro e, grazie ad accoppiamenti con il mastino inglese, avevano dato origine a una razza di moderni opliti che durante la Seconda guerra mondiale trascinarono senza sosta carrelli di carbone dalle miniere del Galles, visto che i minatori erano andati al fronte. Lassù nella fattoria, i cuccioli cominciarono a crescere e mangiavano molto. Poi presero a uccidere oche e gattini. Poi diventarono enormi e talmente pericolosi che Janet e Daisy decisero di tenerli legati.

Paul Schneider, nel suo cubicolo, guardava al futuro. Bane – inglese per “Nemesi” – sarebbe stato il capostipite della sua stirpe di dogs of war. Nel futuro albero genealogico stava in cima alla piramide: “El Supremo Bane”. Ma non gli piaceva come quella stupida donnetta trattava il suo investimento. Per questo le mandò prima i suoi sodali a controllare, poi la fece minacciare. Infine incaricò i suoi legali di prendere in custodia i cani. Marjorie Knoller e Peter Noel salirono su nei boschi e si incaricarono della questione: sette cuccioli furono venduti “a un certo tipo” di Los Angeles, Bane e Hera vennero ospitati nell’appartamento in affitto a San Francisco.

Era un appartamentino ben messo, stanza da letto e studio, e in pochi mesi Bane e Hera ne presero possesso lordandolo e devastandolo. Ma gli avvocati erano ugualmente contenti e mandavano fotografie a Paul, loro futuro figlio adottivo: “Caro Paul, ecco i grandi testicoli del Supremo Bane…”. Due settimane prima dell’attacco, Peter Noel aveva scritto a Schneider: “Qui al sesto piano abita una stupida topina che ha visto Bane uscire dall’ascensore e per poco non le è venuto un infarto!”. Dopo l’aggressione, anche Paul Schneider disse la sua: “Bane forse non ha un grande cervello, ma ugualmente ha capito che in quella donna c’era qualcosa che non andava”.

Non si diventa capi della Fratellanza ariana per caso.

Il bestialismo? Non è poi una cosa così terribile

Poi successero diverse cose strane. Per esempio molti furono turbati dal fatto che il mondo carcerario fosse arrivato fino alla soglia di un buon appartamento, invadendo una conquistata libertà di scelte di vita. E altrettanti furono schifati di come i due imputati non dicessero mai una parola di scusa o di pentimento, quasi rivendicando le loro azioni e dichiarandosi esponenti di un mondo potente e dalle nuove regole. Intervistati più volte dalla tv, Bane era sempre il loro idolo e punto di riferimento. Quando, fotografie alla mano, la coppia venne accusata di “bestialismo”, Robert Noel rispose tranquillo: “In questa città, non molti anni fa, anche la convivenza tra due persone dello stesso sesso era considerata uno scandalo”. A suo modo, poneva anche lui un problema della sfera delle libertà individuali.

I due imputati, comunque, fecero a tutti una pessima impressione. Noel, un omone di 60 anni coi capelli e i baffi rossi, era quel tipo di avvocato puntiglioso e pomposo che aveva conosciuto tempi migliori. Marjorie Knoller, 48 anni, appariva stralunata e impaurita. E così il processo, che occupò i media per moltissimi mesi, dimenticò il carcere da cui aveva avuto origine il delitto per concentrarsi sulla bizzarria dei suoi protagonisti.

Il procuratore distrettuale era Terence Hallinan, un ex gesuita che da tempo aveva scelto un aperto stile di vita gay; sua assistente era la bellissima Kimberly Guilfoyle, ex modella per la biancheria intima di Victoria’s Secret, che venne messa sotto protezione perché minacciata di morte dalla Fratellanza ariana, moglie di Gavin Newsom, facoltoso e brillante politico democratico e all’epoca sindaco della città; a sostenere la causa dei due imputati, la quasi sconosciuta avvocata Nedra Ruiz che in aula si produsse in latrati e si mise a camminare a quattro zampe per ricostruire la scena dell’assalto; giudice era James Warren, nientemeno che il nipote del giudice della Corte suprema Earl Warren che quarant’anni prima aveva firmato il discusso rapporto sull’omicidio di John Kennedy.

Spostate le udienze a Los Angeles per incompatibilità ambientale (Warren disse apertamente che i due imputati erano la “coppia più disprezzata di tutta San Francisco”), il processo mise da parte il lato carcerario della vicenda e si concentrò sulla possibile volontarietà dell’assalto omicida. Robert Noel ostentatamente si presentò alle udienze con la tuta arancione dei detenuti di Guantánamo, prendendo ossessivamente appunti; Marjorie Knoller ebbe invece un clamoroso crollo psicofisico, con macchie e bubboni che le crescevano sulla pelle e una forma di paralisi nervosa che la costrinse spesso in carrozzella. La giuria popolare si espresse per una pena pesante – da quindici anni all’ergastolo, intendendo che il modo in cui i cani erano stati allevati fosse una causa sufficiente a spiegare l’assalto – ma il giudice Warren ribaltò il verdetto (“non avrebbe retto in Appello”) e condannò Noel e Knoller a soli quattro anni.

Il segreto delle prigioni californiane

Jaxon Van Derbeken è il giovane giornalista che per il “San Francisco Chronicle” ha seguito tutto il caso. Mi diede appuntamento nel suo ufficio, accanto a quello del procuratore, nel grande edificio di Bryant Street in cui sono ospitati il tribunale e la prigione della contea. All’ingresso del palazzo c’era una coda di almeno tre isolati che si muoveva molto lentamente. Gli chiesi chi fossero quelle persone. “Parenti di detenuti. La coda è lenta per le perquisizioni. Dopo l’11 settembre, le procedure si sono molto allungate.”

Parevano più di 1000 persone. Era una giornata particolare? “Oh, no. Anzi, oggi sono pochi. La polizia qui in media arresta 2000 persone a settimana. Ma, tutto sommato, San Francisco è una cittadina. A Los Angeles viaggiano sui 6000 a settimana. Il mio giornale si occupa praticamente ogni giorno di abusi: perquisizioni corporali, detenzioni in posti orribili. Il lavoro non manca. Noel e Knoller, per dirla in breve, erano due avvocati fuori dal circuito delle grosse cause. Certo, facevano finta di essere dei tipi chic, con un bell’appartamento ma, in realtà, l’unico posto dove raccattavano qualche cliente era il sistema carcerario. Un po’ difendevano le guardie, un po’ i detenuti. Tutta robetta, comunque, roba che si può risolvere con una transazione di qualche migliaio di dollari. Che io sappia, non hanno mai vinto un processo, ma erano sempre lì, si davano da fare. Non hai idea di quante cause si facciano intorno alle prigioni: è un lavoraccio, ma diventerà l’affare del secolo. Già ora ci sono avvocati che prendono assegni da milioni di dollari, per difendere sia le guardie che i detenuti. Noel cercava clienti, ecco tutto. E probabilmente l’affare dei cani e dell’adozione di Cornfed gli era sembrato vantaggioso.”

Dov’è Cornfed, adesso? “Non si sa di preciso. Non è più a Pelican Bay, comunque. C’è una grossa indagine sulla Fratellanza ariana, c’è stata una spaccatura al loro interno con delatori e pentiti. Credo che sia a Chicago, comunque. L’ultima volta che l’hanno portato in aula, qui hanno bloccato per un’ora il Golden Gate per paura che i suoi organizzassero un’evasione.”

Mentre Jaxon – auricolare fisso, piedi sul tavolo – telefonava e mi faceva segno di avere pazienza, feci un rapido calcolo dell’ingresso annuale di cittadini della California nelle locali prigioni: veniva fuori qualcosa come mezzo milione di persone. Chiesi a Jaxon se era davvero possibile.

“Più o meno, forse più che meno. Naturalmente poi la maggioranza esce, ma è anche vero che circa il 40 per cento ritorna. È una porta girevole e tutto dipende dalla legge che qui si chiama third strike: hai commesso un reato e vai in galera; poi ti rilasciano; ne commetti un altro, idem. Ma se ne commetti un terzo, anche solo se passi col rosso, se mandi affanculo un vigile o se rubi un cioccolatino al supermercato, ti fanno scontare tutto. Chi ha inventato il third strike doveva essere un genio! Tanti dicono che gli uomini nuovi della California sono i dot.commer, i geni di internet. Per me, il genio è stato Don Novey, il fondatore del sindacato delle guardie carcerarie. Lo chiamano ‘l’uomo dal cappello floscio’. Lui ha fatto i soldi su tutto ciò. Ma dubito che ti concederà un’intervista.”

Che cosa succederebbe se qui, di colpo, tutti diventassero virtuosi? Voglio dire, se non ci fosse più la droga eccetera? “Un disastro. Dovrebbero licenziare un sacco di guardie, per prima cosa. Poi chiuderebbero gli hotel vicino alle prigioni. Poi intere zone che vivono sulle carceri andrebbero in crisi. Sarebbe una crisi pesante, più pesante di quella che ha colpito la new economy.”

Come Don Novey divenne l’uomo più potente dello stato

Don Novey non rilascia interviste e oggi è formalmente un semplice pensionato. Famiglia di polacchi da tre generazioni in America, agente del controspionaggio Usa in Centro Europa durante la Seconda guerra mondiale, guardia carceraria e figlio di una guardia carceraria, per i suoi è diventato una figura leggendaria: l’uomo che ha fatto diventare i secondini la forza politica più importante della California, una lobby in grado di eleggere il governatore, di modificare i bilanci dello stato e di dettare la politica economica. Come ha fatto? Semplice: ha puntato su una delle istituzioni che sembravano più obsolete e che invece si è rivelata formidabile: il sindacato. Ha cominciato ad agire con forza circa vent’anni fa, quando la popolazione carceraria cominciò a crescere, e oggi si gode il successo. “Bene,” disse Don Novey, “volete sempre più gente in carcere per potere stare tranquilli? Sono d’accordo. Fate fare a me.”

Ecco la lista dei suoi successi:

– I detenuti in California vent’anni fa erano circa 50.000. Oggi sono 161.000, su una popolazione di circa 35 milioni di abitanti. Il numero delle prigioni, statali, federali e private, si è triplicato. Erano 13 nel 1985, oggi sono 33.

– Chi è in grado di tenere a bada una così imponente massa di criminali? Semplice, ha pensato Don Novey: le guardie. Il sindacato da lui fondato, la California Correction Peace Officers Association (Ccpoa) raggiunge ora circa 40.000 iscritti, che versano nelle casse della Ccpoa qualcosa come 2,1 milioni di dollari l’anno. Risultato: il salario delle guardie, che vent’anni fa era un misero 14.000 dollari l’anno, oggi è di circa 64.000, più di quanto guadagna un ricercatore universitario. Il budget che la California assegna al sistema carcerario è decuplicato in vent’anni; oggi è di 5,7 miliardi di dollari l’anno e si mangia la maggior parte degli stanziamenti per sanità, case e istruzione.

E non pensate che il mercato di Don Novey si limiti ai detenuti dietro le sbarre. No, visto che in California ci sono altri 485.000 cittadini in libertà vigilata, o su cauzione, o agli arresti domiciliari, e che l’iscrizione alla Ccpoa è da tempo allargata (altro colpo di genio di Don Novey) ai funzionari che si occupano della vigilanza sui detenuti rilasciati, agli assistenti sociali, agli addetti alla prevenzione del crimine. La Ccpoa ha un faraonico ufficio per le relazioni esterne, diversi studi legali permanenti, è determinante nell’elezione di sindaci, procuratori e naturalmente del governatore. Dagli ultimi due che ha appoggiato – il democratico Gray Davis e il repubblicano Arnold Schwarzenegger – ha ottenuto non solo enormi benefici salariali, ma soprattutto la “mano libera” nella “gestione” di circa mezzo milione di californiani.

Mezzo milione su 35 milioni. Togliete i vecchietti, le vecchiette e i bambini e vi accorgerete che se fate parte di tutto il resto dell’umanità che vive in California, avrete più possibilità, prima o poi, di avere a che fare con il sindacato di Don Novey, che di acquistare un computer di Steve Jobs. Se siete neri, latinos e poveri avrete serie possibilità di finire stritolati nella “macchina”. Se non lo siete, ne avrete molte meno, ma è comprensibile che non vogliate parlare troppo dell’argomento. Tra quelli che ne parlano (le associazioni per i diritti civili, per esempio) alcuni definiscono il sistema “complesso carcerario industriale”, altri, con stravaganti paragoni, sostengono che la California “è il più grande gulag dai tempi di Stalin”.

Le guardie, dice il sindacato, fanno un lavoro sporco, violento e pericoloso. Lottano contro detenuti organizzati in bande, vengono assalite al ritmo di 8 feriti al giorno, devono intervenire quotidianamente per impedire sommosse, stupri, vendette, traffico di droga. Le guardie usano il gas per sedare i tumulti nei reparti. Grosse pallottole di gomma quando la situazione è più seria. Manganelli con scariche elettriche. Celle di “deprivazione sensoriale” per detenuti pericolosi. Metodi di “tranquillizzazione”. Certo, usano anche i cani, per sniffare la droga e come intimidazione. Tutto ciò è permesso dal regolamento. Non solo: il sindacato delle guardie ha ottenuto di usare, come prova a discarico del proprio comportamento, i filmati che le guardie stesse girano. Ciò vuol dire che se c’è una sommossa e le guardie intervengono, vale come prova il filmato (girato da un collega della guardia) che la Ccpoa produrrà in tribunale. È una delle conquiste dell’ultimo contratto tra il sindacato e il governatore Schwarzenegger.

Tutto si svolge, in California, lontano dagli occhi del cittadino comune. Le carceri sono quasi tutte in zone rurali, le morti (ci sono 30 omicidi irrisolti) avvengono nel silenzio; sevizie e maltrattamenti sono quotidiani. Certo, si possono vedere le lunghe code dei parenti che attendono di essere perquisiti, ma questo avviene in periferia. Al centro di San Francisco si vendono magliette che ricordano, con battute spiritose, il terribile e fascinoso carcere di Alcatraz (chiuso da anni).

Un’altra prigione di massima sicurezza, questa volta alle porte di Baghdad

L’altra parte di questa storia si svolge in Iraq, nella famigerata prigione di Abu Ghraib, 20 chilometri a ovest di Baghdad. Ai tempi di Saddam era il monito del dittatore, dove si torturava e dove la sirena suonava più volte al giorno per annunciare decapitazioni e impiccagioni. Poche settimane prima dell’invasione angloamericana, con una mossa a sorpresa, Saddam la svuotò di tutti i suoi detenuti, si calcola circa 20.000 persone. I quali non se lo fecero dire due volte e, nella notte stessa dell’ingresso dei carri armati a Baghdad, cominciarono il più grande saccheggio urbano che la storia moderna ricordi diventando, con il bottino, i “nuovi ricchi” dell’Iraq liberato e democratico.

Così, quando l’esercito americano arrivò ad Abu Ghraib, trovò solo un complesso abbandonato, con pecore nei cortili, ossa nei sotterranei e tracce di sangue rappreso sui muri nelle stanze di tortura. Alcuni generali giustamente proposero di raderlo al suolo, in quanto simbolo più odiato del vecchio regime; invece venne riaperto in pochi mesi e si cominciò a riempirlo. A gestire le operazioni venne chiamato uno specialista civile, Lane McCotter, che era stato a capo delle prigioni dello Utah e aveva dovuto dimettersi dopo la morte, per sevizie, di un detenuto. McCotter portò ad Abu Ghraib i suoi uomini e i suoi metodi. Passò la primavera del 2003 e Abu Ghraib ora funzionava, le celle erano piene. Paul Bremer, allora governatore dell’Iraq, comunicò alla stampa che “i locali avevano cambiato aspetto, con celle ampie e arieggiate e una biblioteca a disposizione dei detenuti”.

Nell’estate dello stesso anno una sezione del carcere venne messa sotto la giurisdizione del generale Geoffrey Miller, proveniente dall’esperienza di Guantánamo. Si trattava della gestione di detenuti “di alto valore” che, secondo Miller, avrebbero potuto dare eccezionali informazioni all’intelligence. Il nuovo reparto venne gestito da militari che in passato erano stati guardie carcerarie: sapevano il mestiere. In base a un consiglio della Casa Bianca, secondo cui l’umiliazione sessuale ha un enorme peso nella cultura islamica (libro di testo consigliato: The Arab Mind, pubblicato nel 1973 dall’antropologo Raphael Patai), “la squadretta” si mise al lavoro ordinando ai detenuti di indossare biancheria femminile e fotografandoli in ammucchiate sessuali.

Ma i risultati erano ancora scarsi. Si passò quindi alla “valorizzazione” dei sistemi basici: deprivazione sensoriale, scosse elettriche, finte esecuzioni, finti annegamenti. Più o meno nello stesso periodo venne ammesso l’uso dei cani per “portare un valore aggiunto” agli interrogatori. I cani dovevano ringhiare a pochi centimetri dall’interrogato, nudo e legato. Come per tutte le altre procedure, i comandi militari lasciarono traccia burocratica delle loro iniziative, sotto forma di circolari e disposizioni, firmate da tutta la “catena di comando” – una infinità di commissioni e nuclei speciali, di consulenti, di appaltatori privati, di studi legali, su su fino al generale Ricardo Sanchez e al Pentagono.

Si parlava, a proposito dei detenuti, di “addolcirli”, “prepararli all’interrogatorio”, “creare le condizioni favorevoli per il secondo interrogatorio”, “sfruttare il fattore tempo”. Richiesto di un parere estremamente specifico: “I cani devono essere usati con o senza museruola?”, l’ufficio del ministro della Difesa Donald Rumsfeld autorizzò la prima ipotesi, ma la limitò al locale dell’interrogatorio. Appena fuori dalla porta, o nel corridoio, della museruola si poteva fare a meno.

Stessi cani, stesse prigioni

Il sistema viene esportato. Il resto lo sapete: le fotografie e lo scandalo. Insomma, in un mondo globale, il mondo delle prigioni americane si era riprodotto a distanza. I cani erano stati chiamati a fare “il loro dovere”, anche se questa volta stavano senza collare nelle mani di soldati e guardie e non in quelle di avvocati ed ergastolani. Se Schneider leggeva Tolkien, le guardie leggevano The Arab Mind. Se Robert Noel e Marjorie Knoller cercavano, nella loro pazzia, un po’ di guadagno extra moltiplicando la discendenza del Supremo Bane, i contrattisti guadagnavano 100.000 dollari l’anno. Il generale Miller disse di avere un’utopia: “Trasformare Abu Ghraib in un centro di informazioni per la guerra globale contro il terrorismo”; il sindacato delle guardie carcerarie della California sostiene nel suo statuto di operare “in nome delle vittime”, per la “sicurezza dei cittadini” e definisce i suoi iscritti “operatori di pace”. I detenuti di Abu Ghraib erano per la massima parte persone fermate ai posti di blocco, quelli californiani sono in grande quantità ragazzi afroamericani imputati di spaccio di marijuana o cocaina.

Sarebbe improprio, però, fare paragoni. Per esempio, secondo quanto riporta il famoso giornalista investigativo Seymour Hersh nel suo libro Catena di comando: “Numerose donne irachene detenute avevano inoltrato messaggi alle famiglie, pregandole di far pervenire loro del veleno allo scopo di farla finita, mentre altre hanno inoltrato messaggi simili in cui chiedevano insistentemente di venire subito uccise, appena fossero state rilasciate. Un codice d’onore vigente in molte zone del Medio Oriente. Vite innocenti devono andare perdute perché le famiglie possano sopravvivere alla vergogna”. E questo comportamento non fa parte della cultura della California.

Il buon marinaio. William J. Kimbro

Neppure la vendetta alligna in California. Al massimo potrete trovare qualche spirito caustico che scrive lettere ai giornali: “Ministro Donald Rumsfeld, quando lei testimonierà di nuovo di fronte alla Commissione d’inchiesta del Congresso, pensa che sarà più facile tirarle fuori la verità se la mettessero nudo legato a testa in giù, con un cane che le ringhia davanti alla faccia e un soldato mascherato che ogni tanto le ficca la testa in un secchio d’acqua fino a farle perdere il respiro?”. Piccoli sogni innocenti.

Pochi giorni fa, cercando il suo nome su Google, ho finalmente visto, in un breve video, una brava persona di cui avevo annotato il nome, in questa storia di cani, perversioni e prigioni.

Si chiama William J. Kimbro, marinaio di prima classe: basso di statura, con la testa rasata e il grugno alla Popeye, compare nei cortili della base americana di Sigonella, in Sicilia, con il suo cane Nicky, un pastore belga, cui fa compiere semplici esercizi. Poi un colonnello gli appunta una medaglia, con la motivazione: “Da tre anni istruttore di cani nella nostra base, assegnato per una missione, Kimbro ha portato la sua morale, la sua coscienza e i valori della Marina fino alla prigione di Abu Ghraib, in Iraq, dove si è rifiutato di prendere parte a interrogatori impropri”.

Il commento della giornalista Michelle Kurak, che cura il sito ufficiale della base militare: “Questo è stato un gran giorno, l’ultimo giorno del marinaio di prima classe Kimbro alla nostra base, ma Kimbro non si monterà la testa. Sarà però rimpianto dai suoi superiori, dai suoi commilitoni e dal suo cane, con il quale ha lavorato per due anni e mezzo”.

Il fatto è successo alla fine del 2003, quando ad Abu Ghraib a tre istruttori di cani venne chiesto di partecipare agli interrogatori. Il sergente Michael Smith arrivò con Marco, il sergente Santos Cardona portò Duco, il marinaio William Kimbro portò Nicky. Tutti e tre pastori belgi. Il sergente Frederick ordinò di far ringhiare i cani contro un detenuto “non collaborativo” ammanettato nel corridoio. Cardona e Smith erano perplessi: “Senza museruola?”. Frederick assicurò che la procedura era autorizzata, per cui accettarono. Kimbro invece portò via Nicky e quando il generale Taguba lo interrogò nell’ormai famosa “inchiesta interna”, Kimbro rispose secco: “Gli altri cani erano eccitati e non volevo che la stessa cosa succedesse a Nicky”. Il generale inserì nel rapporto una nota di encomio per il marinaio. Anche il detenuto venne interrogato. Si chiama Ballendia Sadawi Mohammed. Dichiarò: “Mi hanno mandato due cani contro. Uno mi ha morsicato la gamba sinistra, mi hanno dato dodici punti e ho perso molto sangue”. Dall’interrogatorio del soldato Sabrina Harman si apprende che era Duco, il cane di Cardona, e che Cardona lo sciolse perché convinto che il detenuto stesse per attaccare il soldato Charles Graner jr.

Un latrato a San Francisco non può produrre un tuono a Baghdad, è vero. Certo, giocare a “unite i puntini e vedete che cosa apparirà” può portare, su mappe così vaste, a disegni sconclusionati o mostruosi. Ma forse Novey, Schneider, Noel, Knoller, Bane, Hera, Whipple, Coombs, saputo che cosa era successo così lontano da loro, sulla scena della storia, avranno pensato: “In fondo, noi fummo i precursori”.

Dieci anni dopo

Dieci anni dopo l’assassinio di Diane Whipple, alcune notizie ricordano quanto quell’evento spaventoso fosse ancora presente, nei suoi protagonisti, nelle sue metafore e nei suoi luoghi.

Diane Whipple a San Francisco è ricordata per il suo sacrificio con una veglia nell’anniversario della sua morte. La sua compagna, Sharon Smith, dopo una lunga battaglia legale (legata a un’interpretazione più liberale dei diritti di una coppia gay) è stata ammessa come parte civile e le sono stati riconosciuti 1,5 milioni di dollari di danni dalla coppia di avvocati. La somma è stata devoluta al St. Mary’s College presso il quale Whipple era allenatrice della squadra di lacrosse.

Marjorie Knoller, nel 2008, si è vista aumentare la pena dalla sentenza d’Appello. Dovrà scontare una detenzione dai quindici anni all’ergastolo.

Paul “Cornfed” Schneider, il detenuto del carcere di massima sicurezza Pelican Bay, figlio adottivo della coppia di avvocati e reale proprietario dei due Presa Canario, è al centro di una vicenda misteriosa. La Fratellanza ariana, di cui era uno dei leader, non ha gradito una sua intervista alla rivista “Rolling Stone”, in cui si dilungava in particolari sui suoi rapporti erotici con i due cani; possibile oggetto di una vendetta, Schneider è stato portato in un’altra prigione, sconosciuta. Secondo altre fonti, il detenuto avrebbe testimoniato contro la Fratellanza e sarebbe quindi diventato un infame. L’ultima volta che è stato visto è stato nel 2012 in un processo in cui ha collezionato il terzo ergastolo, come mandante dell’omicidio del vicesceriffo della contea di Sonoma. Ai giornalisti ha detto di essere detenuto nel carcere di Santa Rita (a nord di San Francisco) e di aver lasciato la gang. Si è detto preoccupato per la sua vita e sicuro di doverla passare tutta in un carcere. Ha aggiunto di essere stato subito colpito dalla morte di Diane Whipple e di aver chiesto ai due avvocati, suoi genitori adottivi, di portare dei fiori sulla sua tomba; ma questi non lo fecero e anzi scelsero come linea difensiva di dare la colpa alla vittima.

Nel luglio del 2013 il sistema carcerario della California è letteralmente esploso, con lo sciopero della fame di 30.000 detenuti, un terzo dei 132.800 presenti nelle trentatré prigioni dello stato. Lo sciopero è partito dal carcere di Pelican Bay, dove 4500 detenuti appartenenti a gang e considerati pericolosissimi dal sindacato delle guardie carcerarie, sono costretti per ventidue ore e mezza al giorno in celle di 2,5 metri per 2,5. Molti di loro sono in queste condizioni da dieci o addirittura vent’anni. Migliaia di detenuti non hanno potuto fare una sola telefonata alla famiglia per dieci anni. Migliaia sono privati inoltre di medicine (in particolare vaccini) che li espongono a un virus potenzialmente letale, detto “the valley fever”. La loro condizione è stata addirittura paragonata a quella dei prigionieri di Guantánamo o a quelli di Abu Ghraib in Iraq.

Nel 2010, il censimento di San Francisco ha registrato la presenza di 150.000 cani su 800.000 abitanti. I bambini erano invece solo 108.000. Era la prima volta che si verificava il sorpasso, con conseguenze non del tutto immaginabili.