L’amnistia in Thailandia
L'ha votata la Camera, ora tocca al Senato, e ci sono proteste perché permetterebbe il ritorno in patria dell'ex primo ministro Thaksin Shinawatra
Nella notte tra giovedì 31 ottobre e venerdì 1 novembre, la Camera della Thailandia ha votato una legge sull’amnistia: i deputati hanno adottato il testo con 310 voti favorevoli, nessun voto contrario e quattro astensioni dopo un dibattito durato circa 20 ore. Il progetto di legge – che dovrà ora essere presentato al Senato – è molto controverso: secondo l’opposizione serve soprattutto ad assolvere il politico e imprenditore Thaksin, ex primo ministro, in esilio volontario per sfuggire a due anni di prigione per reati collegati al suo conflitto d’interessi. Il partito dell’attuale premier Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin e eletta nel 2011, ha invece fortemente sostenuto il progetto di legge dicendo che un’amnistia generale permetterebbe al paese di ripartire su basi sane, dopo anni segnati da movimenti violenti.
Durante la discussione parlamentare del progetto di legge, il Partito democratico, principale partito di opposizione all’attuale governo, ha radunato circa 6500 persone nel centro di Bangkok: lo slogan principale dei manifestanti era “no all’amnistia per i corrotti”. L’opposizione ha anche detto di voler programmare una serie di manifestazioni fino a quando il disegno di legge non sarà ritirato: «Il governo del primo ministro Yingluck vuole sfruttare la sua maggioranza parlamentare per far passare un disegno di legge di amnistia sulla corruzione che assolverebbe Thaksin, oltre ai capi terroristi che lo sostengono», ha detto uno dei leader del Partito democratico, Suthep Thaugsuban.
Thaksin Shinawatra è stato una figura centrale della politica del paese degli ultimi dieci anni: leader del partito populista Thai Rak Thai, fu primo ministro dal 2000 al 2006, quando il suo governo fu interrotto da un colpo di stato organizzato dai generali che si dichiaravano fedeli al re. Nel 2008 venne condannato in contumacia a due anni di carcere per appropriazione indebita. Da allora, ha quasi ininterrottamente vissuto in esilio soprattutto a Londra e a Dubai. I seguaci di Thaksin – che hanno scelto di indossare camicie di colore rosso per distinguersi dagli oppositori che erano soliti condurre le loro marce di protesta con indumenti colorati di giallo – subito dopo il colpo di stato occuparono per circa due mesi il centro di Bangkok, accusando il primo ministro di allora Abhisit Vejjajiva di essere salito al potere illegittimamente, grazie a brogli e supporto militare. La crisi politica che ne derivò fu la più grave nella storia recente della Thailandia: provocò 90 morti, 1.900 feriti e decine di arresti.
Da allora le “camicie rosse” tengono molte manifestazioni, numerose quanto quelle che ciclicamente protestano contro il governo e che sono culminate in una serie di scontri molto violenti nel 2010 e nel 2012. Il regno è infatti da anni profondamente diviso tra le élites di Bangkok vicine al re e le masse povere delle campagne e delle città del nord e del nord-est del paese fedeli a Thaksin. Il movimento delle “camicie rosse” viene visto, a seconda dei punti di vista, sia come un baluardo democratico contro il regime aristocratico, sia come un gruppo violento interessato ad acquisire potere. Raccoglie al suo interno fasce diversissime di thailandesi, dalla classe operaia sottopagata alla borghesia che vuole aumentare il proprio potere economico.