8½ di Fellini, per quelli con l’iPad

Fellini morì oggi 20 anni fa, e il suo collega Paolo Virzì racconta il suo film più importante a chi oggi vive in un altro mondo

di Paolo Virzì

©roma press/lapresse
archivio storico
spettacolo
cinema
anni ’50
Federico Fellini
nella foto: il regista Federico Fellini sul set

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anni ’50
Federico Fellini
nella foto: il regista Federico Fellini sul set

Mi dice Luca Sofri, il peraltro direttore del Post: il 31 ottobre sono vent’anni dalla morte di Federico Fellini e tutti rischiamo di dire le solite cose su Fellini, ci scrivi qualcosa per spiegare a un adolescente di oggi che guardare un suo film non è una cosa noiosa?
Lì per lì sono andato in confusione, non avendo mai preso in considerazione l’ipotesi che guardare una di quelle cose meravigliose che Fellini ha combinato potesse mai annoiare qualcuno. I suoi film sono come un Luna Park fantasmagorico, un circo scintillante: divertenti e tristi, con le belve, i domatori e la donna cannone, come si fa ad annoiarsi? Ma Luca a volte si diverte ad incarnare la perfidia e il disincanto dei moderni direttori di giornali, forse per scandalizzare e far arrossire noi candidi e poveri di spirito, e ha insistito: prova ad immaginare un figlio sedicenne che sbuffando alza gli occhi dall’iPad mentre in casa i genitori stanno riguardando La Dolce Vita.
Fatico ad immaginare una scena del genere; non ci credo, mi sembra impensabile.

Forse Fellini è stato l’unico tra i grandi narratori per lo schermo capace d’incantare tutti, intellettuali e popolino, cinephiles accigliati e spettatori scanzonati. Ha creato strepitose commedie buffe e languide sui perdigiorno velleitari e neghittosi di provincia, fiabe da lucciconi su saltimbanchi burberi e ragazze clown ingenue che suonano il tamburo, affreschi corali esilaranti sulla gentarella patetica di una minuscola città negli anni pomposi e stupidi del fascismo, grandi romanzi ammalianti sulla vitalità infelice dell’umanità notturna metropolitana.
Ma soprattutto ha fatto 8 1/2.

Che cos’è questo strano film che ha come misterioso titolo proprio un numero, equivalente a quello dei film che Fellini aveva diretto fino a quel momento? Io sono nato precisamente un anno dopo la sua uscita nelle sale e credo che fossi ignaro di tutto, della letteratura che aveva suscitato, del consenso mondiale, dell’Oscar, della nascita negli Stati Uniti dell’aggettivo “fellinesque”, quando, almeno una dozzina d’anni più tardi, lo vidi per la prima volta sullo schermo del televisorino in bianco e nero che avevamo in tinello nella casa dove abitavo da ragazzo. C’erano ancora soltanto due canali, o uno solo. Forse devo anche spiegare ai lettori più giovani che all’epoca, dopo il tiggì e Carosello, non si usava per gli adulti guardare ogni sera i talk con i politici che si accapigliano, mentre i figli si isolano in cameretta chini sul tablet per connettersi coi propri coetanei; si guardava volenti o nolenti la tivù tutti insieme: il sabato Canzonissima – presentato da Johnny Dorelli, con cantanti come Ranieri e la Cinquetti, comici come Panelli, i balletti delle gemelle Kessler – e durante la settimana i grandi film, specie quelli italiani, con Alberto Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi e appunto con Mastroianni.

Quella sera davano quel film con Marcello Mastroianni del quale i miei avevano sentito parlare, diretto dal regista marito della Masina, attrice cinematografica e televisiva all’epoca molto popolare. L’inizio mi lasciò subito di stucco: una scena senza parole, senza musica, solo col respiro angosciato di Mastroianni chiuso in un’automobile, in un ingorgo immobile e silenzioso, coi volti pallidi e inquietanti di altri automobilisti prigionieri nei loro abitacoli. Poi Mastroianni riusciva a fatica ad uscire dall’auto e prendeva a volare su quell’ingorgo, a braccia aperte, col suo cappello a falde larghe ed un lungo cappotto nero che svolazzava, s’innalzava fin sopra le nuvole, attraversato da un brivido di incredulità, di gioia e di sgomento.

Quindi comparivano due signori misteriosi su una spiaggia abbacinante, uno a cavallo col mantello, l’espressione arcigna, ed un altro sorridente col maglione a dolce vita bianco e gli occhiali da sole, e quest’ultimo teneva tra le mani un lungo filo al quale Mastroianni, lassù tra le nuvole, sembrava legato come un palloncino. Spulciando fascicoli di conti e preventivi, il cavaliere arcigno ordinava a bassa voce: “Giù, definitivamente.” Allora il filo veniva tirato e Mastroianni, lassù, provava a far resistenza, si opponeva, sembrava non voler scendere, ma infine si arrendeva e col respiro affannato precipitava rapidamente verso un vortice di onde schiumose. Ma si trattava di un sogno: Mastroianni infatti si svegliava col cuore in gola nel letto di una specie di clinica dove stava facendo delle cure, circondato da medici affabili che nel misurargli la pressione lo canzonavano chiedendogli: “Cosa ci sta preparando? Un altro film senza speranza?”

Insomma era la storia di un regista, professione all’epoca del tutto misteriosa, per me ma credo anche per la maggioranza degli spettatori cinematografici. Di un regista che alla vigilia delle riprese di un film pare aver smarrito il motivo per il quale finora aveva dato vita a quell’impresa complessa e costosa, e per questo si trova in cura in una località termale, dove riceve la visita di collaboratori preoccupati, del produttore, di attrici coi loro agenti, di giornalisti che cercano di cavargli di bocca una qualche anticipazione. Ma ho sbagliato a dire che si trattava di una storia, perché in realtà non è che ci fosse proprio una storia da film: il regista non s’innamorava, non veniva arrestato, non doveva fuggire inseguito dagli assassini. Semplicemente passava da un incontro all’altro, e così come nei sogni a volte le situazioni si susseguono in modo apparentemente illogico, Mastroianni incontrava un amico di mezza età che aveva lasciato la moglie per una giovane stralunata fidanzata straniera, poi un vecchio mago con la moglie veggente, quindi si vedeva di nascosto con un’amante culona, sciocchina e cagionevole di salute, riceveva la visita della moglie amareggiata, chiedeva udienza e consiglio ad un alto prelato in odore di santità, infine faceva un giro in auto di notte con l’attrice Claudia Cardinale che fremeva per ricevere indicazioni sul suo personaggio da interpretare, senza saper proprio cosa dirle.

Ma soprattutto si lasciava andare ai ricordi: di quando era bambino in collegio, e correva con gli altri bambini a guardare una matta dagli occhi bistrati e la chioma arruffata che ballava oscenamente sulla spiaggia; o si lasciava lavare, asciugare e profumare di borotalco da premurose tate romagnole prima di farsi mettere a letto sotto le coperte scaldate da un braciere. E poi fantasticava, immaginava situazioni dolcissime e crudeli come farsi coccolare da un harem di donne, tenendole a bada con un frustino da domatore, tutte le donne che aveva incontrato e desiderato nella sua vita, anche un’algida hostess danese che doveva averlo turbato nell’annunciare un atterraggio a Copenaghen, anche la patetica ballerina di avanspettacolo ormai invecchiata, col tacco rotto e le calze smagliate, vista esibirsi una volta chissà in quale teatrino.

Che cosa diavolo stavo vedendo? Che cos’era quello strano oggetto dal bianco e nero nitidissimo, eppure avvolto da un alone enigmatico, commentato da una colonna sonora che ricordava certe spensierate fanfare da circo, che a tratti però mormorava certe sommesse melodie in minore che mettevano il magone, che ti facevano domandare: cos’è questo dolore, questo lutto? Chi mi è morto di così caro? Si poteva fare un film così, la cui trama non era altro che un viaggio nella testa di quella complicata, affascinante, confusa persona che era quel regista di nome Guido interpretato da Mastroianni? Sicuramente una cosa del genere non era mai stata fatta prima, io non l’avevo mai vista, nessuno l’aveva mai vista.
Era noiosa una cosa così?

O meglio: poteva interessare gli spettatori un film la cui sostanza drammatica ed il suo svolgimento drammaturgico sono i dubbi, le esitazioni ed i sogni di una persona che svolge una professione agli occhi dei più incomprensibile, se non addirittura elitaria e odiosa come quella del regista cinematografico? Evidentemente sì. Anzi, sembrava proprio che il cinema fosse stato inventato quasi un secolo prima solo per quello, per permettere a Fellini di narrare liberamente, in quel suo modo sorridente e malinconico, tutto quello che gli passava per la zucca.

Quella sera non riuscii a staccar gli occhi dallo schermo del televisore di casa nostra per tutta la durata del film, convinto di non aver mai visto nulla di più stupefacente, pieno di un’energia che non conoscevo, che poi nel tempo ho ritrovato solo dentro certi geniali fumetti psichedelici che all’epoca non erano ancora stati disegnati, e anche i miei genitori e mia zia Ada, e mia nonna Maria, persone semplici, rimasero ipnotizzati a guardar quel bizzarro film che non avrebbero saputo descrivere. Mia zia che si vantava di averlo già visto al cinema nell’anno della sua uscita in sala, sosteneva che “quelli della televisione” avevano tagliato delle scene che lei si ricordava e che stavolta non aveva visto e che ci raccontò: scene licenziose di baci e d’amore. Io stesso, quando l’ho visto successivamente un altro milione di volte – perché bisogna che lo ammetta, 8 1/2 per me è come una medicina da tenere a portata di mano sul comodino per spararsela al volo quando ci si sente spenti o infelici – credo di averci cercato scene che ritenevo di aver visto, ma che poi non c’erano e di averne scoperte altre che invece non ricordavo.

E qui sto per dire una cosa che potrebbe suonare un po’ ridicola, ma sono lieto di correre questo rischio specie con quei famigerati lettori adolescenti ai quali Luca mi ha chiesto di rivolgermi: quel film è magico, ma non solo perché è bellissimo da guardare e da ascoltare, ma proprio nel senso che è come un rito esoterico: una specie di seduta spiritica intorno alla psiche di una persona. E dunque a quel film può anche capitare il sortilegio di mutare il montaggio, le inquadrature, perfino la durata, a seconda dell’umore e della disposizione d’animo di chi lo guarda. Io sono arciconvinto, per esempio, di averlo visto una notte ininterrottamente, in una versione che durava appunto tutta la notte; ed un’altra volta di averlo sbirciato in fretta e furia tra un impegno e l’altro, e stavolta durava pochi intensissimi minuti. E il divertimento che suscita è misterioso, liberatorio e potentissimo, e sono certo che la faccenda non riguarda solo chi poi per l’appunto per uno scherzo del destino è finito a far di lavoro proprio quello strano, antipatico mestiere lì; perché la storia di Guido e dei suoi incontri, dei suoi ricordi, dei suoi incubi, del suo sentirsi in colpa per non riuscire ad essere quello che gli altri si aspettano che lui sia, ha a che fare con la natura segreta e indicibile dei pensieri delle persone, perché induce ad avventurarsi nelle tenebre del nostro smarrimento con il sorriso sulle labbra, ad accettare la nostra confusione, l’imperfezione umana, come se fosse un regalo. Per questo Fellini è stato qualcosa di più di un regista di film; si dice di lui che sia stato una specie di stregone, uno sciamano, un arguto, pietoso psicoterapeuta mascherato da clown.

Che cosa dire dunque agli adolescenti che non hanno ancora visto i suoi film e che – come dice Luca per farmi arrabbiare – temono di annoiarsi?
Che sono fortunati di poterli scoprire per la prima volta, per poter vivere quello stesso stupore che provai da ragazzo nel tinello di casa, davanti ad un televisore acceso, e poi successivamente al cinema, quello stesso godimento che provammo tutti noi nell’innamorarci di quei capolavori che col tempo, invece d’invecchiare, son persino diventati più sorprendenti e preziosi.
Aggiungo anche che, se ne hanno voglia, questi ragazzi possono venire a Torino, nei giorni del festival, e godersi 8 1/2 proiettato su un grande schermo, nell’occasione della presentazione di una nuova magnifica copia splendidamente restaurata. Mi hanno assicurato che dovrebbe avere la durata ufficiale di 138 minuti, ma non è detto.
Non si sa mai.

Le proiezioni del film nella versione restaurata al Torino Film Festival sono:
mercoledì 27 alle ore 19 – proiezione ufficiale  sala Massimo1
repliche venerdì 29 e sabato 30  alle 9 di mattina sala Massimo 1
Versione restaurata digitale a cura della Cineteca Nazionale di Roma, Medusa Film e Cinecittà-Deluxe