Israele ha liberato 26 palestinesi
Come richiesto dalla Palestina per riprendere i colloqui di pace, che però sono già in crisi dopo tre mesi
Nella notte tra martedì 29 e mercoledì 30 ottobre il governo israeliano ha rilasciato 26 detenuti palestinesi, come richiesto dal presidente palestinese Mahmoud Abbas per la ripresa dei colloqui di pace promossi dagli Stati Uniti, che sono iniziati il 29 e 30 luglio scorsi con due giorni di incontri preliminari a Washington DC. In Palestina le persone liberate – tutte condannate per aver ucciso o per essere state complici nell’uccisione di israeliani – sono considerate dei prigionieri politici: sono state accolte a Ramallah da centinaia di parenti, amici e sostenitori e sono salite su un palco con il presidente Abbas.
La sera prima della loro liberazione, circa tremila israeliani con le mani dipinte di rosso si erano radunati per protesta davanti al centro di detenzione in Cisgiordania dove erano stati trasferiti in attesa del rilascio i 26 prigionieri, visti invece come terroristi e assassini. Molti israeliani sostengono che la loro scarcerazione è un prezzo troppo alto da pagare per proseguire trattative che potrebbero terminare senza alcun accordo di pace: «Non siamo più vittime del terrorismo. Ora siamo vittime delle azioni del governo israeliano che rilascia quei prigionieri» ha detto Merav Osher, figlia di una delle persone uccise da un detenuto liberato, in un’intervista telefonica al New York Times.
Un primo gruppo di 26 prigionieri era già stato rilasciato a metà agosto: Israele ha infatti promesso che nel giro di nove mesi libererà in tutto 104 detenuti palestinesi, in quattro fasi distinte e in relazione ai progressi dei negoziati. Nonostante questo primo gesto distensivo del governo israeliano, le trattative sono comunque a rischio a causa della decisione di costruire 1.500 nuovi alloggi nella colonia ebraica di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est. Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano Jerusalem Post, che cita fonti governative, l’autorizzazione per la costruzione dei nuove colonie è stata decisa come “compensazione” per il rilascio di 26 detenuti.
In entrambi i paesi sembra esserci poca fiducia sul buon esito delle trattative: la scarsa visibilità dei colloqui che si svolgono in segreto e una recente ondata di episodi di violenza in Cisgiordania in cui molti palestinesi e israeliani sono morti non hanno contribuito a creare un clima favorevole. La soluzione dei “due popoli-due Stati” (cioè la creazione di due stati separati) è ancora la posizione ufficiale dei negoziatori che si sono succeduti nel tempo per provare a trovare una soluzione. La questione che finora ha ostacolato i colloqui è quella relativa ai confini esistenti tra il 1949 e il 1967. Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, Israele occupò tutta l’attuale Cisgiordania, compresa l’intera Gerusalemme, oltre a Gaza, il Golan e il Sinai (quest’ultimo venne restituito diversi anni dopo all’Egitto come stabilito dal trattato di pace).
(Guida al trattato di pace fra Israele e Palestina)
Al contrario delle precedenti, queste nuove conquiste territoriali non vennero mai riconosciute dalle Nazioni Unite. L’ONU, nelle risoluzioni 242 e 338, chiese a Israele di ritirarsi nei territori precedenti al ’67 riconoscendo invece le conquiste del ’48. Israele, al contrario, cominciò a costruire sempre più insediamenti sui territori occupati. Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono considerati illegali dalla maggior parte della comunità internazionale e i palestinesi sostengono che rendono difficile uno stato unitario e contiguo: si calcola che nelle colonie vivano circa 500 mila israeliani, insieme a 2,5 milioni di palestinesi. Questi insediamenti, e la questione dei confini, sono ancora oggi il principale ostacolo al trattato di pace: nel settembre del 2010 i negoziati tra Israele e Palestina vennero interrotti proprio sulla questione della colonie, alla quale Israele non intende rinunciare.