L’occasione persa della farmaceutica
Il libro Il bagnino e i samurai racconta come andò la cessione delle aziende farmaceutiche di Montedison negli anni '90, e le conseguenze che paghiamo ancora oggi
Codice Edizioni ha pubblicato il libro “Il bagnino e i samurai“, scritto dalla giornalista Daniela Minerva e dall’oncologo Silvio Monfardini, con una prefazione di Ignazio Marino (medico e attualmente sindaco di Roma). Nel libro, Minerva e Monfardini raccontano come la decisione di Montedison negli anni Novanta di cedere all’estero le aziende controllate nel settore farmaceutico abbia danneggiato la ricerca oncologica in Italia, sviluppatasi negli anni settanta soprattutto grazie all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, e la possibilità per l’Italia di avere un ruolo in un mercato che è rimasto estraneo alla crisi economica come quello farmaceutico.
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22 marzo 1993. L’aereo atterrato all’aeroporto Arlanda di Stoccolma, con a bordo Carlo Sama, il bagnino romagnolo di quarantacinque anni incaricato di liquidare il sogno italiano di avere una multinazionale italiana del farmaco, è la rappresentazione plastica del fallimento di un’impresa nazionale e delle ragioni che hanno portato il paese fuori dal grande gioco della farmaceutica mondiale. Circondato da interpreti e portaborse, l’amministratore delegato Montedison era lì per vendere ai manager della Kabi Pharmacia i gioielli di famiglia: Farmitalia Carlo Erba ed Erbamont, quotata a Wall Street e proprietaria dei raffinati Adria Laboratories. Avrebbe così portato nelle esangui casse del gruppo più di duemila miliardi di lire, liquidi necessari, dopo decenni di scelte imprenditoriali sbagliate e montagne di soldi spesi in tangenti. Montedison tracollò e pochi mesi dopo Sama era in galera, sotto il torchio del sostituto procuratore Antonio Di Pietro. Ma la storia era cominciata decenni prima, e precisamente a Milano negli anni settanta, quando l’Istituto Nazionale dei Tumori diventò protagonista dell’oncologia mondiale. Guidato da Gianni Bonadonna, un piccolo gruppo di ricercatori portò in clinica farmaci e combinazioni di farmaci ancora oggi in uso, e ancora oggi capaci di generare grandi fatturati; a partire dall’adriamicina, scoperta da Farmitalia e sperimentata all’Istituto Nazionale dei Tumori. Così l’Italia conquistò la pole position in un gran premio giocato tra le due sponde dell’Atlantico; una grande corsa “alla conquista del cancro”, come voleva la retorica di quegli anni, durante i quali gli italiani furono protagonisti, tanto quanto gli scienziati americani, dell’“invenzione” dell’oncologia medica, la nuova disciplina che prometteva di fornire le armi per la guerra al cancro. Quella guerra, negli anni ottanta, parlava italiano tanto quanto inglese e francese. Poi il tonfo, il buco infinito generato dalla crisi del settore chimico che pesava sulla nascente industria farmaceutica, la miopia di chi non capì che quello era un treno che avrebbe portato lontano… Tangenti, insipienza, e infine Sama, a Stoccolma con il cappello in mano.
Noi siamo convinti che l’intreccio virtuoso tra Farmitalia e la nascente oncologia medica italiana – se opportunamente supportato da un sistema paese cosciente di quanto la ricerca biomedica pesi sullo sviluppo economico oltre che sulla qualità dei servizi sanitari – avrebbe potuto portare il nostro paese al tavolo di Big Pharma, le multinazionali che controllano il mercato farmaceutico mondiale, e così rappresentare una chance industriale di lunghissimo respiro.
Un rapporto di Morgan Stanley rilasciato nel gennaio del 2013, sulle prospettive dei paesi europei di fronte alla crisi, dettaglia le differenze tra l’Italia e la Francia, accomunate dalle possibilità offerte sui mercati del lusso e dell’alimentare, ma distanziate enormemente sul saldo finale proprio per la presenza dei francesi sui mercati del farmaceutico e del nucleare, due opportunità che il nostro paese ha bruciato per insipienza.
E forse potremmo cominciare proprio da qui, dal dato inoppugnabile che quello farmaceutico è un mercato che non conosce crisi e del quale l’economia italiana certamente non beneficia. Raddoppiato in dieci anni, il fatturato globale dell’industria delle medicine superava alla fine del 2012 i mille miliardi di dollari, con una prospettiva di crescita, nonostante la crisi, dell’8 per cento l’anno. Stando a un rapporto dell’importante osservatorio americano sui farmaci Medco, una curva di profitto in costante ascesa nella quale l’oncologia fa la parte del leone: circa novecento principi terapeutici in sviluppo nel 2010, contro i duecentocinquanta sperimentati dai neurologi, poco più di duecento dagli infettivologi, mentre tutte le altre aree terapeutiche si assestano al di sotto dei duecento.
Così oggi la spesa per gli antitumorali è un pericoloso rompicapo in tutto il mondo: negli Stati Uniti, per esempio, hanno calcolato che entro il 2020 le terapie anticancro costeranno agli americani almeno centocinquantotto miliardi di dollari. Ci occuperemo tra breve della questione della spesa; ora serve solo sottolineare l’enorme quantità di denaro che muovono le terapie anticancro, anche in Italia, dove pur non riuscendo ad avere una cifra precisa, si può calcolare che spendiamo circa un miliardo e mezzo l’anno per questi farmaci.
È un business colossale, alimentato da una portentosa macchina da guerra. Migliaia di scienziati e un fiume ininterrotto di soldi: soltanto il National Cancer Institute americano ha investito nella ricerca e nelle sperimentazioni oltre novanta miliardi di dollari in quarant’anni. Per vincere una sfida scientifica che ieri sembrava utopia, ma che oggi garantisce una cura a duecentocinquantamila nuovi malati l’anno solo in Italia. Molti di loro sono trattati anche con i farmaci comprati dalle grandi multinazionali che hanno speso per lo sviluppo di ciascuno di essi circa un miliardo di dollari, impiegando centinaia di ricercatori di alto livello.
Esistono, insomma, un’industria e una scienza del cancro, primo motore di progresso, da cui noi siamo usciti, lasciando così fuori dalla porta uno dei settori più ricchi e palpitanti della modernità. E questo non è senza conseguenze tangibili sulla società e sulla salute degli italiani, come abbiamo già accennato e approfondiremo.
Eppure, come abbiamo detto nella prefazione, poteva andare diversamente: se si fosse configurato un circolo virtuoso, se il paese fosse stato capace di credere nel valore dei suoi cervelli, di aiutare e sostenere un’industria farmaceutica nazionale forte, senza la quale non esiste ricerca biomedica innovativa, e se avesse tenuto la politica fuori dal governo della ricerca, come avviene in tutti i paesi avanzati. Così non è stato, e in questo libro cercheremo di raccontare perché, seguendo le sorti dei due grandi attori in scena: la ricerca pubblica, strangolata da una classe dirigente premoderna, rapace e insipiente, e l’impresa, ammaliata dai guadagni facili che si ottengono con tangenti e parastato. Allo stesso tempo, però, vogliamo anche tracciare una nostra personalissima utopia, sognare un paese normale dove la ricerca biomedica non è guardata con sospetto, dove si trattengono le menti migliori in istituti capaci di produrre innovazione vera, dove l’industria capisce che copiare le molecole scoperte da altri è non solo umiliante, ma anche perdente.
Prima di cominciare la nostra storia, però, dobbiamo rendere conto del convincimento che la muove: non partecipare al grande gioco della guerra al cancro ha conseguenze importanti non solo sulla struttura produttiva del paese, ma anche sulla salute degli italiani. Partiamo proprio da questo assioma, che riecheggia lo slogan tanto spesso sentito, da quando Gordon McVie lo ha lanciato nei suoi anni di presidenza alla European Organisation for Research and Treatment of Cancer (1994-1997): «Si cura meglio dove si fa ricerca».
Per dare concretezza a questa affermazione, dobbiamo esplicitare chiaramente due fatti, francamente inoppugnabili. Il primo riguarda i benefici delle terapie anticancro, ciclicamente messi in discussione da un esercito di scettici che cercano di dimostrare la scarsa efficacia dell’oncologia medica e dei suoi utensili. Il secondo indica che la possibilità di sopravvivenza e la qualità della vita dei pazienti oncologici dipendono in larga misura dalla qualità scientifica dell’ambiente che li circonda.
Eppur si muove
I dubbi sull’efficacia dell’oncologia medica che serpeggiano nel discorso pubblico, ma anche nel mondo medico, possono essere ricondotti a due elementi: il primo è che sia stata soprattutto la chirurgia, unita alla diagnosi precoce, a dare una spinta verso il basso alla curva di mortalità, mentre la terapia farmacologica arranca; il secondo è che l’opinione pubblica fatica a considerare un successo la conquista di due, tre o anche cinque mesi di vita. La terapia medica dei tumori è nata per contrastare la malattia in fase avanzata, e non c’è dubbio che successi eclatanti siano rari, visto che si possono ottenere guarigioni con la sola chemioterapia unicamente nei linfomi, nelle leucemie, nei tumori del testicolo, in alcune neoplasie infantili, e in pochissime altre. Ci sono, però, altri dati importanti da tenere in considerazione: la terapia farmacologica associata all’intervento chirurgico ha cambiato radicalmente la prognosi per moltissime donne malate di cancro al seno, in primis, ma anche per le persone colpite al colon; la possibilità di curare i tumori ematologici infantili poi ha avuto uno straordinario impatto emotivo, e i farmaci biologici, come il glivec, l’herceptin, il tarceva e l’avastin, hanno aperto una nuova strada e cambiato nuovamente il modo di fare medicina.
È vero: questa non è una disciplina fatta di bacchette magiche quanto, per lo più, di impercettibili conquiste, magari piccoli passi per l’umanità ma grandi passi per il singolo malato che ne beneficia, quando ne beneficia. Come ha detto l’ex presidente dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), Allen Lichter: «Guardare ai progressi nel cancro dà l’impressione di guardare alle lancette di un orologio. Ma le cose stanno definitivamente andando nella direzione giusta». È poi lo stesso Lichter a sottolineare, nel suo bilancio dei quarant’anni di guerra al cancro, che certamente una battaglia vinta è quella della presa in carico. Lui la chiama clinical care e sottolinea che ciò che vede oggi non ha niente a che fare con ciò che vedeva quarant’anni fa.
L’oncologia medica, che nasce e si sviluppa dagli anni settanta in poi anche in Italia in seguito ai risultati ottenuti con la chemioterapia antitumorale, innesca un processo di profondo cambiamento nelle relazioni tra il malato di cancro (prima curato di fatto unicamente dal chirurgo e/o dal radioterapista) e un nuovo specialista, un internista che segue gli aspetti clinici legati ai tumori e al loro trattamento farmacologico (chemioterapia, così come ormonoterapia e immunoterapia), ma anche quelli che non riguardano direttamente la neoplasia. L’oncologo medico è un internista con competenze di cardiologia, ematologia, nefrologia e infettivologia endocrinologia; conosce anche, ovviamente, la sintomatologia delle diverse malattie neoplastiche, della loro evoluzione e delle loro complicazioni (infezioni, emorragie, squilibri metabolici). Da internista, è in grado di mettere in campo una serie di presidi che permettono di sedare il dolore, di migliorare lo stato di nutrizione e di controllare le complicazioni dovute alla neoplasia, e a volte indotte dalle terapie, o alle altre possibili malattie associate al tumore che spesso gravano sulle persone anziane. Conosce anche i diversi mezzi di radiodiagnostica e di laboratorio, necessari in primo luogo alla diagnosi, ma poi anche a seguire il paziente nelle diverse fasi della sua lotta contro la malattia. Con la scoperta dei primi farmaci antitumorali, infatti, arrivano anche i criteri oggettivi per misurare la risposta alla terapia e per determinarne il grado di tossicità; si apre la possibilità di combinare varie medicine antitumorali per aumentare le risposte alla chemioterapia, così come quella di decidere sulla terapia endocrina nel carcinoma mammario sulla base dei recettori ormonali identificati nel tessuto tumorale. Si tratta, insomma, di un nuovo medico le cui competenze permettono la complessiva presa in carico del paziente, e questa è già di per sé una conquista importante innescata proprio dalla spirale virtuosa avviata dalla ricerca di farmaci capaci di controllare il tumore. Questa spirale lascia poi nella sua scia un consistente armamentario clinico grazie al quale è sempre possibile fare qualcosa di utile per il paziente, e obbliga diversi specialisti – oncologi medici, chirurghi, radioterapisti, radiodiagnosti e anatomopatologi – a collaborare in modo da identificare, con i molti strumenti man mano a disposizione, una terapia quanto più efficace, ma anche un ragionevole accompagnamento a un fine vita decoroso.
Insieme ai primi farmaci antitumorali è nata quindi una nuova cultura medica, capace di assicurare la presa in carico del paziente dalla diagnosi all’eventuale fine vita. Tanto che per molti (certamente i più fortunati) il cancro può oggi essere rubricato come una malattia cronica: i pazienti sopravvivono molti anni alla diagnosi passando da una terapia e un periodo di tranquillità a un’altra terapia, e così via. Questo è possibile soltanto perché in mano agli oncologi medici ci sono decine di molecole, più o meno attive, magari solo su gruppi particolari di pazienti, ma è proprio nel loro numero che sta la mappa della vittoria: i malati passano attraverso diverse linee di trattamento, e intanto gli anni passano e la vita continua. Persino quando la malattia c’è e progredisce, la vita può essere lunga e pienamente vissuta. È infatti sempre più spesso possibile trattare il paziente anche quando la malattia tumorale è metastatizzata, e anche quando inizia l’ineluttabile fine vita.
Nel fare un bilancio dell’oncologia medica a quarant’anni dalla sua nascita non si può non tenere conto di queste trasformazioni, tutte interne agli ospedali e forse per questo difficilmente riconoscibili dall’opinione pubblica. È una rivoluzione che ha poco di eroico, ma che si traduce, nei fatti, nella presa in carico di un malato che non viene mai abbandonato. Insomma, se un successo si deve ascrivere alla guerra al cancro, dichiarata con entusiasmo all’inizio degli anni settanta dal presidente americano Richard Nixon, è certamente quello di avere messo il malato di cancro sullo stesso piano della maggior parte degli altri malati: magari non si riuscirà ad arrestare la malattia, ma di certo non la si può più stigmatizzare come “male incurabile”.
Chi vive nei reparti di oncologia medica sa bene che razza di rivoluzione ha comportato la terapia dei tumori. L’opinione pubblica fatica a coglierla fino in fondo, innanzitutto perché ciascuno di noi è prigioniero della sua vita e delle sue esperienze personali: quando è colpito, vede solo se stesso e i suoi famigliari, non ha alcun interesse a pensare che fino a quarant’anni fa una diagnosi di cancro era una condanna a morte, che nessuno si poneva il problema di accompagnare il malato nel fine vita sedando il suo dolore e lavorando perché la qualità dei suoi giorni fosse il più decente possibile.
Non c’è dubbio che a generare questa delusione collettiva sia stata l’infelice metafora della “guerra al cancro”, la quale implica che qualcuno possa sul serio vincerla, quella guerra. E non c’è dubbio che, in Italia, a pesare sul discorso pubblico sia una cronica incapacità di ragionare al di fuori dallo schema miracolistico: malato-guarito, bene-male, funziona-non funziona (di una terapia). Un paese che non riesce a pensare alla vita come a un’avventura a tempo, che non vuole accettare l’ineluttabilità della biologia, fatica ad apprezzare la differenza tra l’abbandono di un “appestato”, colpito dal male incurabile, e la pratica medica che cerca, e spesso riesce, a dialogare con la biologia, ad allontanare la morte, a restituire dignità a un corpo dolente.