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  • Martedì 22 ottobre 2013

Il testo della mozione di Gianni Cuperlo

Per le primarie alla segreteria del Pd del prossimo 8 dicembre: il titolo è «Per la rivoluzione della dignità»

Il testo integrale del documento congressuale presentato da Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria nazionale del Pd, in vista delle primarie del prossimo 8 dicembre. Il titolo è «Per la rivoluzione della dignità».

PER LA RIVOLUZIONE DELLA DIGNITÀ

A fine agosto abbiamo presentato le Note per il congresso del Partito Democratico. Le alleghiamo a questa piattaforma che segna il secondo passaggio del nostro cammino. Con le Note abbiamo scelto di raccontare le radici della crisi che ha investito l’Europa e l’Occidente, indicando i principi sui quali fondare una diversa cultura politica del PD, della sinistra, e descrivendo il profilo del partito che vogliamo. Con questa piattaforma entriamo nel merito dei nostri compiti dopo la destra, dopo la stagione di un leaderismo solitario e di un riformismo senza popolo. Porteremo questi documenti nei circoli, li confronteremo con movimenti e comitati, con le associazioni della legalità e del civismo, coi mondi del lavoro, le forze economiche, sociali, professionali. E innanzitutto con i giovani e le donne. Racconteremo la nostra visione del tempo e, con umiltà, ascolteremo voci e bisogni che spesso vivono fuori da noi. Alla fine usciremo da questo percorso arricchiti in ogni senso, ma soprattutto avremo raccolto i semi di quell’alternativa – di quel nuovo centrosinistra – che dovrà candidarsi a guidare l’Italia per i prossimi anni. Il nostro PD – il tuo PD per il Paese di tutti – sarà credibile perché largo, aperto, inclusivo. Sarà – questo vorremmo – il partito che abbiamo sperato, immaginato, e che adesso è tempo di costruire.

1. Per una rivoluzione della dignità

Il Partito democratico può guidare la riscossa civile, economica e morale del Paese. Riusciremo a farlo se avremo coraggio e passione per cambiare tutto ciò che oggi è da cambiare: nella politica, nello Stato, nelle responsabilità dei singoli, nelle logiche del mercato, in élite arroccate a difesa di poteri immobili e conservatori, se non opachi. A noi tocca portare al centro il valore della persona, dell’uguaglianza, del senso di comunità. Il PD deve mettersi a servizio di una rivoluzione della dignità. L’Italia, provata dalla crisi più drammatica dell’intera storia repubblicana, ritroverà la fiducia solo in un nuovo patto di cittadinanza fondato su libertà e giustizia sociale, sulla legalità, sulla coscienza di sé come nazione unita. La nostra società tornerà a crescere se contrasterà disuguaglianze immorali e se partirà dalla sfera dei diritti indivisibili – umani, sociali, civili – e dalla dignità di ciascuno per ridisegnare economia, scienza, cultura, il bene comune. Tutto ciò vorrà dire aprirsi al futuro tessendo la rete del civismo, della solidarietà, delle autonomie sociali, promuovendo comunità, che poi è il fondamento della speranza. Dalla crisi non usciremo come siamo entrati. Ma possiamo uscirne con un mondo migliore. A patto di credere che un tempo nuovo è già cominciato. Per cambiare l’Italia il PD deve cambiare se stesso. Le ragioni della sua fondazione sono più vive che mai. Da quella ambizione non si torna indietro perché è la grande opportunità per una società frammentata, in una nazione che può spezzarsi. Tuttavia, dobbiamo dirlo: dal suo battesimo, sei anni fa, abbiamo deluso le aspettative di tante e tanti. Non abbiamo avuto la capacità di un cambiamento radicale a iniziare da luoghi, strumenti e linguaggi della politica. La stessa costruzione del nuovo partito è stata segnata da un deficit di partecipazione e novità che ha penalizzato il suo radicamento e favorito un correntismo ossessivo.

Dobbiamo recuperare la nostra autonomia culturale. Non lo si fa da soli, ma alzando lo sguardo sul mondo. Sulle spinte all’emancipazione e sul desiderio di libertà che sale da angoli diversi della terra. Anche così possiamo ricollocare nel futuro i valori e le idee che sono nelle radici del progetto e che trovano l’espressione più alta nella Costituzione. La crescita assurda delle diseguaglianze che ha segnato l’ultimo ventennio non sono solo insopportabili sul piano morale, ma costituiscono una delle massime cause della crisi esplosa negli ultimi anni. L’ideologia secondo la quale il privato è sempre più efficiente del pubblico e il mercato determina da sé l’allocazione migliore delle risorse ha dilapidato una parte consistente del patrimonio industriale e produttivo del Paese, allargando la forbice tra Nord e Sud, provocando una caduta brusca della competitività e depauperando saperi, civismo, beni pubblici. La sinistra ha reagito con debolezza all’affermazione di un liberismo senza freni e vincoli, di un’economia piegata alla speculazione finanziaria, con indici di borsa divenuti più preziosi del valore sociale del lavoro e della sua dignità. In quel passaggio è maturata una sconfitta culturale prima che politica, quando le forze progressiste hanno ceduto all’idea che compito loro, e nostro, fosse temperare gli effetti sociali negativi di quel modello. Abbiamo subito, e talvolta assimilato, la personalizzazione della politica e il mito dell’uomo solo al comando, come se potesse bastare. L’effetto è stato uno svuotamento del Parlamento e delle istituzioni che ha indebolito anche la nostra capacità di rappresentare le fasce deboli e chi la crisi l’ha pagata di più sul piano morale e materiale. Alla fine quel liberismo antipolitico si è risolto in un fallimento. Ma noi non siamo nati per correggere la punteggiatura della destra. Siamo nati per cambiare l’Italia come finora nessuna classe dirigente ha saputo o potuto fare. Per tutto questo al PD ora serve uno scatto. Perché serve una sinistra autonoma e consapevole di sé, almeno se vogliamo invertire il declino. La drammaticità della crisi impone coraggio e radicalità, non per sfuggire alla responsabilità di governo. Al contrario, per guidare una trasformazione vera, per conquistare la nostra nuova frontiera. Chi pensa che basti sostituire gli attori senza cambiare lo spartito di questi vent’anni, non ha capito ciò che è accaduto e la sfida che abbiamo di fronte.

Il PD, dunque, deve cambiare il suo modo di stare tra le donne e gli uomini che sceglie di rappresentare, a cui vuole dare voce e potere. Dobbiamo parlare la nostra lingua dentro questo tempo. Piantare bene a fondo le radici sociali di una comunità che vada oltre le aree tradizionali della sinistra. La sfida è promuovere una nuova cittadinanza. Un’alleanza per la piena e buona occupazione. Un nuovo legame tra l’impresa che sceglie di rinnovarsi e investire, il lavoro che cambia, il campo vitale del no profit e di un terzo settore che incrocia volontariato e nuovi bisogni, i saperi che travolgono antichi argini. Dobbiamo guardare a una imprenditoria diffusa che da sempre è il tessuto connettivo della nostra economia. Dobbiamo offrire la certezza di riforme vere a quanti si battono sull’avamposto della creatività. Lo fanno spesso con fatica, sudando e lottando per l’apertura di una linea di credito anche di poche migliaia di euro. Lo fanno perché credono nel loro lavoro e progetto di vita e sperano di poterlo realizzare nel loro Paese. Gli avversari del cambiamento, oggi come ieri, sono rendite e corporazioni che bloccano la mobilità sociale e tengono i giovani e le ragazze – spesso le migliori – ai margini della vita democratica. Noi siamo nati per portare quelle ragazze e quei giovani al centro, con la loro domanda di futuro. Non possiamo accettare che nella crisi si formi una generazione fantasma, abbandonata tra contratti precari, atipici, sottopagati e lavori informali. Parliamo di un ‘popolo’ di oltre otto milioni di cittadini che chiedono diritti e riconoscimento, ma anche indipendenza e partecipazione. Un PD con radici più profonde nella società deve valorizzare questi nuovi soggetti. E scommettere sui talenti, deve stare dalla parte di chi rischia per innovare, deve sostenere le tante start up che aprono strade nuove nei mercati e offrono al Paese qualità e lavoro.

Il Partito Democratico in Europa con i socialisti e i progressisti per il dialogo e la pace.
Questo percorso di rinnovamento ha senso solamente in un orizzonte europeo. Per noi la costruzione di un’Europa politica e sociale oggi è la sfida fondamentale. È la condizione per la salvezza dell’Italia, per la riconquista di uno spazio per la democrazia, per promuovere un ordine mondiale più democratico e soprattutto più giusto. Per questo il PD che scegliamo è un partito europeo. Orgoglioso della sua identità originale e frutto dell’incontro tra culture e tradizioni del riformismo italiano. Ma schierato saldamente nella sinistra e nel centrosinistra europei, e capace per questo di portare l’Europa al centro della politica italiana e del suo discorso pubblico. Il nostro sostegno alla candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione punta a far emergere un sistema politico europeo e affermare una novità cruciale per dare una diversa legittimità democratica alle istituzioni dell’Unione. Ma deve anche costituire l’occasione per completare il percorso avviato con la costituzione del gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo: collocando i democratici italiani nel PSE, e al tempo stesso contribuendo al suo allargamento e rinnovamento. Per questo proponiamo che il PD partecipi al Congresso del PSE che nel prossimo febbraio ufficializzerà la candidatura alla Presidenza della Commissione, e in quella sede concorra alla costituzione del Partito dei socialisti, dei progressisti e dei democratici europei. Noi sosteniamo Enrico Letta con lealtà e autonomia. Ma la nostra responsabilità è incalzare il governo sul lavoro, la lotta alle povertà, l’equità nello sviluppo. La scelta del governo di servizio non è stata facile anche perché è nata da un rovesciamento della nostra proposta elettorale. La ragione del nostro impegno sta anzitutto nell’emergenza sociale e nella necessità di realizzare alcune prime riforme a partire dalla legge elettorale. Un’altra elezione dall’esito nullo rischierebbe di delegittimare lo stesso edificio costituzionale. Il PD deve sollecitare il governo affinché realizzi i presupposti sociali e istituzionali del cambiamento. Il governo non continuerà a ogni costo. Il suo orizzonte temporale è la conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Ma bisognerà dare battaglia perché la legislatura produca risultati positivi in termini di sviluppo economico, redistribuzione di opportunità e redditi, lotta alle povertà, affermazione del principio di legalità. E tutto ciò a partire dalle modifiche necessarie alla legge di Stabilità che può essere migliorata non solo nella struttura ma anche nella dimensione. E’ positivo infatti che per la prima volta da molti anni la manovra dia più di quanto toglie. E tuttavia crediamo vi siano alcuni punti fermi. Garantire le pensioni sino a sei volte il minimo e non penalizzare ulteriormente chi per la crisi ha già pagato un prezzo pesante. Chiudere la vergogna degli esodati. Rafforzare l’intervento sulle politiche sociali e di contrasto alla povertà. Concentrarsi sul rilancio della domanda interna, aiutando i redditi più bassi (anche con un’azione mirata e selettiva della riduzione del cuneo fiscale sul lavoro per i giovani e le donne). Inoltre si deve prendere atto che i vincoli europei offrono maggiori margini di azione. Portando il deficit dal 2,5 previsto al 2,7 (quindi sempre al di sotto del 3%), si potrebbero destinare circa 3miliardi agli esodati, all’occupazione giovanile e a un programma straordinario di investimenti per la messa in sicurezza del territorio e delle scuole che avrebbe un impatto virtuoso sulla crescita e l’occupazione senza compromettere e anzi rendendo più sostenibile il percorso di riduzione debito/Pil. Il governo è un bisogno per l’Italia ma non annulla un terreno di battaglia politica con la destra. Il PD deve affermare le proprie ragioni e priorità nell’azione parlamentare.

Dobbiamo da subito costruire il cambiamento. L’orizzonte politico del PD non sono le larghe intese come strategia, né un neocentrismo esplicito o camuffato. E neppure il sogno dell’autosufficienza. Lavoriamo per una moderna democrazia dell’alternanza, fondata su grandi partiti di tipo europeo. Dobbiamo fare più grande il PD, essere perno e motore di una grande alleanza civica, politica e sociale, coinvolgendo le forze del lavoro, dell’impresa, della conoscenza, della società che si organizza. Di questa alleanza il sindacato è interlocutore essenziale, e le recenti intese con gli imprenditori dimostrano come la crisi rilanci urgenza e potenzialità del patto sociale. Il PD rispetta l’autonomia sindacale: la riteniamo parte di un sistema più ampio di autonomie e partecipazione che oggi non si può scindere dall’idea stessa di democrazia, e dunque vogliamo aiutare quel processo unitario che molto può dare al Paese. Di riforme c’è bisogno, eccome. Per rafforzare la Costituzione, non certo per allontanarsene. Le soluzioni presidenzialiste sono estranee alla nostra storia e rischiano di spingerci verso esiti populisti. Benché si presenti come una semplificazione, la proposta del cosiddetto sindaco d’Italia si inserisce nel solco di quel presidenzialismo che non è la risposta ai problemi dell’Italia. Molti paesi europei, pure con sistemi tra loro diversi, dimostrano che le forme di governo parlamentare non ostacolano governi forti e leadership autorevoli. E ciò sempre con partiti responsabili, mai costretti a improbabili alleanze artificiose per conquistare premi di coalizione. Tenendo la barra della manutenzione costituzionale, accantonando definitivamente i propositi di una nuova Carta coltivati a lungo dalla destra, si può uscire dall’incubo dell’ultimo ventennio. Ovviamente, la premessa irrinunciabile è una legge elettorale che cancelli la vergogna del Porcellum. Noi continueremo a batterci per il maggioritario a doppio turno di collegio. Ma comunque con le vecchie regole non si deve più votare. È questo un impegno solenne che il PD deve assumere coi propri iscritti ed elettori. L’ipotesi di una riforma che preveda il ballottaggio eventuale tra i due partiti, o coalizioni, meglio piazzati al primo turno, è un buon terreno di lavoro. In ogni caso, le intese vanno cercate nel quadro di un rafforzamento della forma di governo parlamentare, sul modello del cancellierato o del governo del primo ministro. È necessario il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari, da affiancare alla riforma del titolo V e alla istituzione di un Senato delle Regioni e delle Autonomie. Lo sviluppo anomalo del federalismo italiano è stato uno dei fattori che hanno contribuito a portare la spesa pubblica fuori controllo, ad aumentare inefficienze e clientelismo.

Bisogna costruire l’alternativa di un nuovo centrosinistra. Non una semplice alternanza di governo dentro i binari dell’ortodossia liberista. Il cambiamento ci sarà comunque: la sfida della sinistra è dargli un esito democratico, sottrarlo alla sovranità delle oligarchie e tecnocrazie, imprimergli un contenuto sociale. Dobbiamo raccogliere e fare nostro l’appello di Papa Francesco per vincere la “globalizzazione dell’indifferenza”. Questa è la partita storica che abbiamo di fronte: o la democrazia saprà rinnovarsi, costruendo una nuova sovranità dei cittadini, oppure il potere abbandonerà le istituzioni rendendoci tutti sudditi. Bisogna pensare, progettare una svolta profonda che affronti i nodi irrisolti del Paese. A partire dal Sud, che è l’avamposto della crisi e costituisce oggi la più drammatica delle nostre fratture sociali. Il legame tra questione democratica e questione sociale resta inseparabile. Per tornare a crescere bisogna ricomporre l’unità della nazione. La prova è redistribuire fiducia, non solo redditi e opportunità. Sono i cardini di una democrazia sociale che vuole portare l’articolo 3 della Costituzione nel cuore della costituzione materiale del Paese.

2. Un’altra Europa

L’asse fondamentale della nostra visione è l’Europa. Un’Europa protagonista, fuori e dentro i suoi confini, di un’azione incessante per il dialogo, la cooperazione, la pace. Vogliamo un’Italia più europea e un’Europa diversa. Diciamolo con chiarezza: siamo europeisti per cambiare a fondo questa Europa. Vogliamo un’Europa che abbandoni la linea dell’austerità e del metodo intergovernativo. Un’Europa che si doti di un vero governo economico democratico dell’euro imperniato sulle istituzioni dell’Unione e fondato sul metodo comunitario, capace di promuovere la crescita, l’occupazione e la coesione sociale. Un’Unione federale che dia corpo alla cittadinanza europea rendendo effettivi i diritti fondamentali su cui è basata, e che ricostruisca le condizioni per un reale esercizio della sovranità democratica. L’orizzonte ideale e politico degli Stati Uniti d’Europa implica per noi passi concreti. L’Europa deve rinnovare e rilanciare il proprio modello di economia e società, basato sul welfare state, la democrazia sociale di mercato e la centralità della persona. Per questo occorre voltare pagina, superando l’idea, alla base delle politiche di austerità e di svalutazione del lavoro, di uno sviluppo tutto orientato alle esportazioni. L’Europa deve rilanciare il suo mercato interno. Lo deve fare realizzando un grande scambio politico tra la costruzione di una vera unione fiscale e una riforma del Patto di stabilità che scorpori gli investimenti dal calcolo del deficit. Lo deve fare rafforzando il bilancio dell’Unione, alimentandolo con risorse proprie (a cominciare dall’imposta sulle transazioni finanziarie) ed emettendo Eurobond per la crescita. Per canalizzare le risorse verso l’innovazione, la ricerca, l’energia, la sostenibilità ambientale e le grandi reti materiali e immateriali. E lo deve fare costruendo finalmente il pilastro sociale dell’Unione economica e monetaria: attraverso l’introduzione di parametri sociali vincolanti (il tasso di disoccupazione e di povertà, la dispersione scolastica, gli asili nido, ecc. ) da affiancare a quelli legati alla competitività e alla finanza pubblica; l’istituzione di un “fondo europeo di stabilizzazione” che finanzi gli ammortizzatori sociali legati alle fluttuazioni del ciclo economico; e l’introduzione di un salario minimo europeo che contrasti il dumping sociale interno all’Europa. Infine, una politica europea per la crescita e l’occupazione richiede di orientare la regolamentazione dei mercati finanziari al fine di favorire gli investimenti di lungo termine rispetto agli impieghi speculativi; di ridurre i differenziali tra i tassi di interesse attraverso la creazione di un Fondo europeo per il riscatto del debito; di introdurre criteri sociali e ambientali negli accordi commerciali internazionali per contrastare la delocalizzazione delle imprese e la deindustrializzazione dell’Europa e per sostenere e incentivare il progresso sociale e la sostenibilità ambientale su scala globale.

Tutto ciò potrà essere realizzato solo se il superamento delle politiche di austerità si accompagnerà a un deciso balzo in avanti dell’integrazione politica. È un compito che intendiamo mettere al centro della piattaforma comune dei progressisti europei e che costituisce una significativa innovazione rispetto alle posizioni tradizionali dei socialisti europei. Alcuni obiettivi, per essere realizzati, richiedono una riforma dei Trattati, che va preparata in una Convenzione e completata nel corso della prossima legislatura europea. Ma ci sono scelte cruciali da compiere nei prossimi mesi, alle quali il semestre italiano di presidenza europea è chiamato a dare un impulso fondamentale. Dal completamento dell’Unione bancaria, per spezzare il circolo vizioso tra crisi delle banche e crisi del debito ed evitando che esso ricada sulle spalle dei contribuenti, all’avvio della costruzione di un pilastro sociale dell’eurozona; dalla democratizzazione e il rafforzamento dei meccanismi di governance economica, alla scelta del prossimo presidente della Commissione da parte dei cittadini.

L’Europa deve cambiare in profondità anche il suo rapporto con i propri vicini. La tragedia di Lampedusa è uno spartiacque: bisogna chiudere una stagione in cui le politiche migratorie sono state prevalentemente politiche di sicurezza, declinate in chiave nazionale nel controllo delle frontiere e nelle politiche di respingimento. Questa stagione è finita il 3 ottobre 2013: quelle morti in mare sono una vergogna per tutti noi e interrogano l’Europa come comunità di valori e come progetto politico che mette al centro le persone, la loro vita e la loro dignità. L’Unione europea non può accontentarsi di essere un’entità di supporto finanziario e operativo. Il principio di solidarietà e di una ripartizione equa delle responsabilità, previsto dal Trattato di Lisbona, deve divenire la stella polare per la revisione delle strategie di immigrazione e asilo. Offrire protezione e accoglienza a chi fugge da persecuzioni e guerre è responsabilità comune. Richiedere asilo è un diritto fondamentale, e deve essere riconosciuto ovunque sul territorio dell’Unione, superando il sistema di Dublino. L’Europa deve inoltre rafforzare il coordinamento delle forze di polizia e delle magistrature nazionali per stroncare il traffico di persone e le organizzazioni criminali che lo controllano. Ma l’Europa deve diventare anzitutto un attore politico collettivo, a partire dalle politiche di mobilità delle persone, da principi e condizioni comuni per l’ingresso per lavoro, studio, ricerca e da un più forte impegno per l’inclusione e i diritti di cittadinanza che riconosca il contributo dei ‘nuovi europei’ al benessere e al futuro della società europea. E ciò non può prescindere da un nuovo partenariato politico con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, che vada oltre gli accordi di sicurezza e riammissione per investire insieme ai Paesi di provenienza sulle risorse umane, sullo sviluppo, sulla formazione, sui diritti fondamentali. Per far questo, occorre pensare in lungo,lavorare per una nuova politica di vicinato come occasione per un investimento politico forte sui Paesi della sponda sud del Mediterraneo.

Occorre definire uno statuto avanzato di partnership per questi Paesi, che tenga insieme il sostegno ai processi di democratizzazione, lo sviluppo economico e l’integrazione della regione, con politiche condivise di riammissione, contrasto all’immigrazione clandestina e alla criminalità organizzata. Questo forte investimento politico verso il Mediterraneo richiede il rafforzamento della politica estera europea. L’Ue deve diventare un vero attore globale in grado di perseguire nel mondo una linea di pace, di cooperazione, di promozione dei diritti e di lotta alla povertà. Occorre sviluppare un approccio integrato alle relazioni esterne fondato sul primato della politica, del dialogo e della cooperazione allo sviluppo. E al tempo stesso bisogna procedere con decisione sulla strada della costruzione di una vera difesa comune europea, che superi le attuali anacronistiche duplicazioni di 28 sistemi nazionali e consenta di ridurre le spese militari e di migliorare le capacità e la proiezione strategica dell’Unione. L’impegno a ridurre in modo significativo il programma italiano sugli F35 va iscritto in questa politica.

3. Un nuovo patto per l’Italia

Un cambio di rotta in Europa è condizione per superare la crisi. Ma anche in Italia è necessario rovesciare i capisaldi delle politiche conservatrici che hanno segnato l’ultimo ventennio, lottare contro le disuguaglianze, la povertà, l’esclusione. E al tempo stesso affrontare le rendite e i corporativismi per intercettare le domande dei settori più dinamici della società, mobilitando tutte le energie di competenza, iniziativa, inventiva di cui è ricca l’Italia. Per avviare una stagione di benessere e occupazione bisogna investire sulla democrazia e sulle persone, e a partire da qui realizzare un patto tra lavoro, imprese tradizionali, della creatività, del no profit, saperi basato su alcune direttrici chiare: piano straordinario per l’occupazione, qualificazione della spesa pubblica, riforma del carico fiscale, liberalizzazione dei mercati, politiche pubbliche espansive e anticicliche, sostegno all’innovazione, lotta alla povertà e all’esclusione sociale. In questa Italia che le destre volevano dividere e oggi, anche a causa del loro modo di governare Regioni e Paese, vive la più profonda delle divisioni (quella tra chi ha molto e chi non ha nulla), Milano con l’Expo e il Nord hanno la possibilità di riagganciare la parte migliore della loro storia. Disegnare una idea di progresso umano, scientifico e tecnologico. Nutrire il pianeta con l’indicazione di nuove buone pratiche, di una economia che parta dalla persona e dai diritti umani globali.

Al primo posto c’è il lavoro. Dentro questa priorità, l’urgenza è il contrasto alla disoccupazione. Occorre un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile finanziato in modo consistente, concentrando le risorse che nei prossimi anni si recupereranno dalla riduzione della spesa degli interessi sul debito pubblico, dal contrasto all’evasione fiscale e dai maggiori margini d’azione contrattati a livello europeo. Un piano che consenta di impegnare centinaia di migliaia di giovani in attività legate all’ambiente, alla cultura, alla tutela e valorizzazione del nostro patrimonio artistico e paesaggistico, all’economia digitale e allo sviluppo di attività e modalità di produzione innovative. Si tratta di utilizzare un potenziale enorme di conoscenza e capacità che esce dalle nostre scuole e università e resta inutilizzato, specie al Sud. Su questo occorre compiere una scelta coraggiosa, capace di produrre effetti sul tessuto sociale e sulla domanda interna ben più significativi di una riduzione impercettibile del cuneo fiscale o di una lieve diminuzione della tassazione sulla prima casa. Bisogna sottrarre il tema del lavoro dall’ossessione che il deficit di competitività delle nostre imprese dipenda dalla legislazione sul lavoro. Abbiamo già perso troppo tempo in scontri su questo terreno. L’obiettivo deve essere piuttosto quello di favorire la fuoriuscita di una parte ancora grande del mondo del lavoro da una condizione di precarietà senza diritti e tutele. Dentro questa cornice e nel rispetto del secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione, bisogna pensare a un programma mirato al pieno inserimento economico, sociale e culturale delle persone disabili. Dal superamento delle barriere architettoniche alla valorizzazione di un patrimonio straordinario di capacità e umanità, l’Italia deve diventare anche su questo terreno il paese dell’inclusione, dell’accoglienza, di una piena e matura cittadinanza.

L’Italia deve rimettere al centro del suo modello di sviluppo la cultura e la creatività, il suo patrimonio di beni culturali, paesaggio, spettacolo e cinema, di artigianato artistico e design: quella grande tradizione del sapere e del saper fare che è stata per secoli al centro della capacità di rinnovamento del Paese e che ha concorso alla costruzione dell’identità italiana e europea. L’Italia oggi conta oltre 400.000 imprese culturali e creative che faticano a sopravvivere anche a causa della mancanza di politiche industriali di settore.

Contestualmente continuano a diminuire le esportazione di beni e servizi culturali e creativi italiani nel mondo. La cultura è invece un campo che va arato, curato, irrigato: solo così darà buoni frutti, non inaridirà e nutrirà il Paese e il mondo. Investire sul patrimonio e sulle attività culturali, ripensare le istituzioni che li governano, occuparsi del sostegno ai consumi culturali e della crescita del numero dei fruitori, garantire il massimo pluralismo nell’offerta e produzioni di qualità, valorizzare il momento creativo, le competenze, i talenti sono le premesse per tornare a crescere. Solo rispettando queste premesse saremo anche in grado di migliorare l’offerta turistica, di ridare slancio all’esportazione dei nostri prodotti, di innovare nel settore del design, dell’arte, del cinema e della musica: possiamo uscire dalla crisi migliori di come ci siamo entrati. Buona parte di questo patrimonio è rappresentato anche dalle nostre comunità all’estero: un capitale di oltre 4 milioni di persone, moltissime delle quali svolgono il proprio lavoro nelle migliori università, nei più importanti centri di ricerca, nelle più dinamiche associazioni e imprese del pianeta e non aspettano altro che di essere messe in rete con l’Italia e il suo sistema Paese per poter dare finalmente un importante contributo alla rinascita italiana.

Tolleranza zero contro la povertà. Una sinistra degna di questo nome deve prendere di petto la piaga della povertà, che nella crisi è cresciuta in modi drammatici. Bisogna condurre una battaglia determinata, partecipata con l’obiettivo di estirpare quella piaga. Non è tollerabile che l’Italia abbia il più alto tasso di povertà minorile in Europa e che questo passi sotto silenzio. Non è tollerabile che tante situazioni di emergenza siano prese in carico solo dai volontari perché i Comuni sono privi di risorse, dopo che il centrodestra ha affamato le politiche sociali e prosciugato le risorse. Restiamo il solo Paese europeo, oltre la Grecia, a non disporre di un istituto universalistico per prevenire e arginare fenomeni di povertà. Anche per questo sono necessarie politiche che creino sviluppo e lavoro, ma servono a breve interventi mirati, come il Reddito minimo di inserimento. Il PD deve impegnarsi con determinazione perché sia introdotta questa misura, seppure in modo graduale, a partire dalla lotta alla povertà assoluta. Ci sono proposte importanti come quelle delle Acli, della Caritas, del Forum del Terzo settore che esprimono una elaborazione seria dalla quale è necessario partire. Il sostegno alle responsabilità familiari è un’urgenza nel nostro Paese, dove ancora oggi quasi tutto il peso è caricato sulle spalle delle donne. Cruciali sono le politiche di condivisione e di sostegno al lavoro di cura attraverso i servizi sociali, nidi, i congedi parentali. Bisogna, inoltre, intervenire sul sistema sociosanitario per prevenire, rallentare e prendere in carico le condizioni di non autosufficienza in particolare degli anziani. In questo quadro, e in quello altrettanto cruciale del rilancio dello sviluppo locale, il nostro sostegno va ai tanti sindaci che ogni giorno vivono il loro impegno a contatto con domande e bisogni delle persone in carne ed ossa. Sono la frontiera di una politica che si misura con le risposte da dare. Per questo è più che mai necessaria la correzione del patto di stabilità così da sbloccare risorse già disponibili e fondamentali se vogliamo rimettere in moto il Paese e non strangolare più l’azione delle amministrazioni.

La spesa pubblica va riqualificata e non ridotta. Al netto degli interessi è già sensibilmente inferiore, in termini pro capite, a quella di Germania, Francia e Regno Unito, particolarmente in comparti come l’istruzione, la sanità, la ricerca, le politiche sociali. Il vero problema della spesa pubblica italiana non è la sua entità, ma la sua profonda inefficienza e la sua distribuzione. Per questo va riqualificata e riallocata. Rimuovendo le cause di sprechi e inefficienze, a cominciare dall’interferenza della politica nella pubblica amministrazione e dalla moltiplicazione dei centri di spesa. In quest’ottica occorre ripensare il titolo V della Costituzione, la cui riforma, nonostante esempi virtuosi, ha contribuito in modo rilevante ad aumentare l’inefficienza del sistema pubblico. Occorre invece aumentare le risorse per comparti strategici come la scuola, l’università, la ricerca, risolvendo anche i problemi della stabilizzazione dei precari della Pubblica amministrazione e dell’inserimento dei vincitori e idonei di concorso. Bisogna superare il problema degli esodati e introdurre un criterio di flessibilità nel sistema pensionistico per facilitare l’uscita graduale dal lavoro; intervenire sulle pensioni d’oro bloccandone l’adeguamento al costo della vita per sostenere le pensioni più basse, sulle quali ogni taglio è moralmente inaccettabile. La pressione fiscale è al limite massimo e il carico fiscale va redistribuito . Anzitutto bisogna aggredire l’evasione fiscale che in Italia è doppia rispetto alla media europea. Ciò richiede un patto tra il governo e i cittadini per un fisco più equo e servizi migliori. Un patto fondato su controlli, tracciabilità, sanzioni, ma anche sulla promozione dell’adempimento spontaneo e su interventi che affrontino le difficoltà di quanti si ritrovano ‘strangolati’ da una tassazione insostenibile. La pressione fiscale va rimodulata tra chi non paga le tasse e chi ne paga troppe, ma anche tra il lavoro, le rendite e i patrimoni, che sono tra i meno tassati d’Europa. L’obiettivo è diminuire la tassazione sul lavoro e sulle imprese per aumentare il reddito disponibile delle famiglie, per dare impulso agli investimenti e alla competitività, per favorire l’occupazione partendo dalle situazioni più deboli nel mercato del lavoro: i giovani, le donne, gli over 50 e i disoccupati di lungo periodo. La riduzione del debito non può passare per un aumento della pressione fiscale, ma per il rilancio della crescita. Per accelerarla è giusto pensare a dismissioni di una parte del patrimonio pubblico innanzitutto immobiliare, ma non sono accettabili scelte che portino a perdere il controllo dei grandi asset strategici del Paese come Eni, Enel, Finmeccanica, Poste.

La pubblica istruzione è la colonna vertebrale della nazione italiana . Da un secolo e mezzo la nostra penisola è unificata dalla scuola e dall’università pubbliche. Ora è il tempo di immaginare e praticare una formazione continua che si sviluppi lungo le diverse fasi della vita. Ogni mattina gli studenti italiani e i loro docenti costruiscono il nostro futuro. Grazie a questa grande comunità di studenti, di docenti e di studiosi l’Italia, che ha dato vita all’umanesimo moderno e alla scienza sperimentale, continua a essere uno dei protagonisti del mondo. Ma nell’ultimo ventennio la crisi che ci ha attraversato ha messo in difficoltà il nostro sistema d’istruzione: non si è trattato solo di un ridimensionamento delle risorse economiche. È aumentato l’abbandono scolastico e sono diminuiti gli studenti universitari in particolare nelle aree meridionali e tra i ceti più bassi. Soprattutto si è diffusa una corrente di pensiero secondo cui l’istruzione pubblica rappresenterebbe una categoria ormai superata, da sostituire con un sistema di mercato in grado di valorizzare meglio i gruppi sociali e le tradizioni più forti. La precondizione per premiare davvero il merito è contrastare le esclusioni di classe. Il nostro sistema formativo può uscire dalle sue difficoltà solo scegliendo in modo definitivo il modello europeo. Nel nostro continente la scuola e l’università si fondano su una solida prevalenza di istituzioni pubbliche e autonome; l’istruzione è universale, finanziata dalla fiscalità generale, rivolta a tutti i giovani, con strumenti robusti di diritto allo studio; i percorsi di studio terminano con titoli riconoscibili e comparabili tra le diverse nazioni del continente; la formazione e la ricerca hanno le loro radici in una tradizione culturale e scientifica che si rinnova continuamente, e che viene messa al servizio dello sviluppo della persona e della sua integrazione nella comunità. La ricerca non è un lusso. I Paesi che hanno reagito meglio alla crisi sono quelli che hanno investito di più in ricerca e innovazione. Negli ultimi anni la Germania ha aumentato i finanziamenti alla ricerca del 15%. L’Italia li ha ridotti del 20. Per la scuola, l’università e la ricerca italiana è arrivato il momento di scegliere l’Europa. Abbiamo bisogno di nuove ed efficienti politiche pubbliche per rafforzare il nostro sistema produttivo e favorire una concorrenza sana e regolata. Una nuova politica industriale non deve riproporre ricette invasive di capitalismo pubblico, ma usare gli strumenti delle garanzie pubbliche, delle partecipazioni al rischio, degli incentivi alla ricerca. Anche alla luce di un giudizio critico sulle privatizzazioni degli anni Novanta, che hanno visto un capitalismo privato incapace di occupare lo spazio lasciato libero dallo Stato, oggi occorre rafforzare le aziende italiane, sperimentando all’occorrenza in modo pragmatico nuove forme di intervento pubblico nella compagine azionaria dei grandi complessi strategici. Un intervento pubblico, per quanto è possibile transitorio, animato da visione strategica, orientato da obiettivi di integrazione internazionale e sviluppo e non dal mero presidio dell’esistente.

All’interno di un percorso europeo condiviso, il primo terreno su cui sperimentare un’alleanza fra capitale e lavoro che consenta di redistribuire a favore dei settori produttivi il reddito di cui si è appropriata la rendita finanziaria è quello dei beni comuni, la cui missione deve tornare a essere la fornitura di beni e servizi a cittadini e imprese con l’obiettivo di aumentare il benessere collettivo e non quello di cercare solo il profitto d’impresa. La nostra proposta prevede che le grandi società di gestione delle reti di servizi (telecomunicazioni, energia, acqua, trasporti) possano progressivamente integrarsi su scala europea e regolare la propria azione sulla base di un nuovo diritto speciale europeo, diverso dal diritto societario e dalle regole di borsa. Bisogna inoltre migliorare l’efficienza dei mercati delle merci e dei servizi, liberalizzare le professioni, colpire le corporazioni. Vi è qui una delle più importanti eredità riformatrici dei precedenti governi di centrosinistra, da riprendere e sviluppare.

L’obiettivo è promuovere gli investimenti. La sfiducia diffusa nel ruolo dello Stato ha portato a sottovalutare il ruolo cruciale che esso ha giocato nei casi più rilevanti di crescita guidata dall’innovazione. Ciò è vero per gli Stati Uniti e per la Germania, per citare due esempi rilevanti in cui i governi non si sono limitati a garantire condizioni favorevoli all’innovazione o investimenti in capitale umano, ma hanno fornito e continuano a fornire supporto diretto all’attività innovativa. Investire direttamente in ricerca di base e applicata e promuovere il trasferimento tecnologico dagli enti di ricerca al mondo dell’impresa è una condizione essenziale per rilanciare la crescita, troppo a lungo sottovalutata dalle politiche pubbliche. Occorre inoltre valorizzare i punti di forza del nostro sistema produttivo, raddoppiare gli sforzi per la promozione di settori come l’agroalimentare, con tutte le filiere di terra e cibo, e la meccanica di precisione, che non hanno fatto argine alla crisi; ripensare logistica e sostenibilità di comparti tradizionali che invece non hanno retto l’urto, ma restano strategici, come la siderurgia o la chimica, e metterli in rete con quell’altra economia, figlia della rivoluzione digitale che oggi consente di ricomporre la mente e la mano superando definitivamente un secolo di cultura fordista. Internet non è solo un’innovazione tecnologica, ma sociale, un modo diverso di entrare in relazione, di pensare e di produrre cose, sapere, significati. È già il tempo dell’internet delle cose e questa è un’opportunità straordinaria per il Paese del ‘saper fare’ per eccellenza. La strada che si apre davanti a noi è quella del made in Italy digitale, dell’innovazione che contamina la tradizione e la reinventa. Dobbiamo innalzare il contributo digitale al Pil, mobilitando i grandi comparti dell’economia nazionale, dal design alla moda, all’arredamento, all’enogastronomia. L’Italia deve puntare alla prima fila nelle produzioni “intelligenti” e nelle nuove culture digitali. Una politica che abbia lo sguardo lungo deve attrezzarsi per sostenere le imprese che autoproducono o co-producono il proprio software, specie se lo fanno attraverso soluzioni open source che garantiscono accesso diffuso. Con un patrimonio culturale e storico come il nostro il digitale può avere un impatto dirompente nella selezione dell’offerta culturale; nella produzione di servizi legati al design; nel ripensare vocazione e sviluppo dei media a partire da quelli pubblici; fino alle soluzioni di realtà virtuale per il nostro patrimonio artistico. Anche la scuola può ripensare il rapporto col mondo del lavoro prevedendo, sull’esempio della riforma tedesca, la sperimentazione di forme di artigianato digitale.

Altro tema chiave del nostro tempo è la sostenibilità sia ambientale che sociale e dello sviluppo. Per troppo tempo la politica, i settori produttivi, il comune sentire hanno percepito la tutela dell’ambiente come elemento di conservazione, come ostacolo alla crescita e alla modernità. Con la crisi si è definitivamente infranta l’illusione di uno sviluppo senza regole, di una produzione fondata sul consumo dissennato delle risorse e del suolo. È necessaria una nuova visione. Un nuovo equilibrio fra economia, società, ambiente e istituzioni. Un Paese come l’Italia deve assumere tre grandi opzioni strategiche, che possono diventare grandi direttrici di crescita e di lavoro: sviluppo della green economy, produzione di energie rinnovabili e tutela della biodiversità. Ma l’Italia deve anche affrontare, con visione strategica, la vera emergenza nazionale della difesa del suolo e della sicurezza idrogeologica. La più grande sfida nazionale dei prossimi vent’anni è una grande opera di riassetto del territorio: infrastrutture ambientali che mettano in sicurezza dal rischio idrogeologico, interventi di prevenzione dai rischi legati ai progetti di trasformazione del territorio. Vanno trovate le risorse che servono, perché i mancati interventi di prevenzione ambientale, rischiano di generare un costo molto più alto poi per riparare i disastri. Il deterioramento del territorio, le conseguenze dei cambiamenti climatici, la cattiva gestione dell’acqua e dei rifiuti, produrranno spese insostenibili se non avremo preso misure adeguate in tempo. L’ambiente non è affare di élite: è l’occasione per un grande processo di democratizzazione dell’economia e della società. Si possono, si devono coinvolgere le comunità locali nei processi decisionali di trasformazione del territorio. Le consultazioni pubbliche, serie, regolate e responsabili, su questioni di rilevanza ambientale, comprese le grandi opere, collocheranno il Paese sulla frontiera internazionale del progresso democratico e aiuteranno a superare i troppi stalli decisionali. Anche su queste forme di “democrazia di prossimità” dobbiamo giocare il rinnovamento del PD.

La crisi ha colpito duramente il Paese in ogni sua parte, ma nel Sud ha scaricato gli effetti sociali più drammatici: l’inoccupazione di massa e le nuove povertà, la desertificazione produttiva e la fuga dei giovani. Sono stati anni di abbandono, di dimenticanza, di rimozione. Abbiamo fatto fatica, anche a sinistra, a pronunciare la parola “Sud”. A riempirla di senso, di forza politica. La questione meridionale è diventata una questione dei meridionali, o ridotta a questione criminale, come se i temi della moralità pubblica, della legalità e delle mafie, non riguardassero ormai da tempo l’intera penisola. I governi a trazione nordista della destra sono stati i più antimeridionalisti della storia della Repubblica. Ma il problema riguarda l’Italia tutta, l’intera sua classe dirigente, i grandi mezzi di comunicazione che nell’ultimo ventennio hanno rimosso il Mezzogiorno. Il Sud è invece la frontiera europea della crisi. Solo da queste aree si potrà avviare una ripresa, durevole, solida, dello sviluppo del continente. Questo è ancora più vero per l’Italia, che ha nel Sud il suo maggiore potenziale di sviluppo e che invece senza Sud non sembra avere margini per rilanciare davvero una nuova crescita. Abbiamo bisogno che torni una visione politica d’insieme sul Mezzogiorno, che non può più essere surrogata dalla frammentazione di interventi finanziati coi fondi strutturali.

Bisogna puntare sulla crescita dimensionale e sull’innovazione tecnologica; incentivare le produzioni sostenibili (a partire dalla mobilità); investire sulle reti digitali; riqualificare le aree urbane; volgere all’efficienza energetica l’edilizia e sviluppare in modo diffuso le energie rinnovabili; mettere in campo una vasta opera di difesa e valorizzazione dell’ambiente e del territorio; sviluppare filiere agro-alimentari di qualità nella prospettiva dell’integrazione mediterranea; avviare una moderna industria culturale, non solo turistica; favorire i servizi avanzati e l’impresa sociale, come veicolo di integrazione, anche tra generazioni, per una civiltà della convivenza e del benessere; investire in formazione e strutture scolastiche. Il miglioramento dei servizi pubblici può diventare anche una leva occupazionale per i giovani.

Pensiamo a un’Italia che riscopre il modello di un’economia civile con l’impresa responsabile motore di crescita e incubatrice di capitale sociale e cooperazione. I semi di queste tendenze sono diffusi, basta cercarli. Abbiamo giovani, studenti, ricercatori, e tra questi moltissime donne, che non temono confronti, eccellenze nei campi della creatività, della network science, in tanti settori della produzione innovativa. Forze che hanno scoperto il modo di reagire alla crisi creando nuovi lavori e persino stili di vita. Gente ‘speciale’, nel senso letterale del termine, che sta invadendo i campi della rete, che promuove scelte di sostenibilità ambientale e di una diversa responsabilità verso la comunità. Entrare in una fase nuova vuol dire per prima cosa non isolare queste forze, aiutarle a tagliare i loro traguardi e soprattutto farne un sistema ambizioso in cui l’efficienza sia orientata al bene comune, alla ‘felicità’ pubblica. Per riuscire in questo bisognerà fare perno su termini come reciprocità e gratuità, in una logica dove non esista solo il “dare per avere” o il “dare per dovere”. Le nostre società vedono l’emergere di nuovi bisogni quasi ogni giorno. Il vecchio intervento pubblico non può farvi fronte da solo. Non è tanto questione di costi o risorse insufficienti, che pure pesano. È la presa d’atto dell’esistenza di una domanda di beni relazionali come l’amicizia o la fiducia. È la strada di un nuovo welfare civile capace di salvare l’universalismo senza cedere all’assistenzialismo. Qui c’è uno spazio enorme per il Terzo settore e per le sue organizzazioni. Non parliamo di utopie filantropiche, ma di una realtà che in Italia, solo nell’ultimo decennio, ha rappresentato il settore che ha meglio retto l’urto della crisi con oltre un milione di occupati e quasi cinque milioni di volontari.

Lasciarsi alle spalle la destra e la sua stagione significherà anche potersi finalmente occupare di giustizia per tutti e non per uno solo, poter guardare il funzionamento del sistema giudiziario dal punto di vista delle imprese e dei cittadini, in particolare dei più deboli, e non della pretesta di impunità dei potenti. Aver difeso strenuamente il principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’autonomia della magistratura in questi anni non siignifica difendere il modo in cui oggi funziona il servizio giustizia in Italia. La priorità di una politica seria è costituita certamente da un radicale interventosui tempi e sulle modalità di funzionamento della giustizia civile, che oggi costituiscono un pesante disincentivo agli investimenti economici e alla possibilità di fare impresa in modo trasparente e pulito. Ma accanto a questo, c’è l’urgenza della riforma della custodia cautelare, la depenalizzazione dei reati minori e il superamento delle fallimentari leggi manifesto della destra (la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulla droga, la ex-Cirielli sul versante dell’inasprimento delle pene): sono le precondizioni per alleggerire l’ingolfamento dei tribunali e affrontare la drammatica emergenza carceraria, vergogna del nostro Paese.

L’amnistia e l’indulto, che in ogni caso non potranno riguardare reati fiscali o di particolare allarme sociale, vanno prese in considerazione al termine di questo percorso, dopo aver affrontato in modo strutturale il problema del sovraffollamento delle carceri che il Presidente Napolitano ha giustamente denunciato nel suo messaggio coraggioso al Parlamento. Su queste basi una moderna sinistra di governo, che non può che fare del garantismo e del rispetto diritti umani una delle sue stelle polari, non può avere esitazioni, né cedimenti a facili populismi. Per chiedere all’Europa di fare la sua parte, l’Italia deve cominciare da
se stessa, cambiando le proprie norme sull’immigrazione. La Bossi-Fini va abolita e sostituita con una nuova legge. Il reato di immigrazione clandestina va cancellato. Va garantito un corridoio umanitario per profughi di guerra e perseguitati politici. I bambini, figli di immigrati e nati nel nostro Paese, devono potersi dire italiani: è questa una norma di civiltà il cui significato va oltre la legge. Anche per questo, oltre che per una ragione democratica e culturale, che ci ricorda che parte della nostra identità nazionale è stata costruita dai milioni di emigranti che il nostro Paese ha sparso nel mondo, il contributo di milioni di immigrati regolari al nostro Pil va accompagnato all’esercizio dei diritti civili fondamentali, cominciando dall’accesso al voto.

La nostra profezia è la promozione della dignità di ognuno, nel mondo e nelle nostre città. Questa scelta non ha solo a che fare con la tutela dei diritti delle minoranze ma è una leva decisiva e formidabile di crescita dell’economia e di coesione della società come confermano tutti i paesi che hanno investito sulla democrazia e su una qualità migliore della cittadinanza.

Dire ognuno significa vederlo, nominarlo, sempre e ovunque: portatori di diverse abilità, chi soffre nelle carceri o nei centri di reclusione dei clandestini, chiunque sia discriminato e perseguitato in ragione della sua condizione, magari perché è anziano, solo con una pensione minima e non autosufficiente. O per chi arriva migrante da paesi lontani. O per il colore della pelle e la sua religione. Le tragedie dell’Europa del ‘900 insegnano che non dobbiamo dimenticare che la “banalità del male” cova sotto le ceneri. Ma c’è una premessa. Perché alla fine forse tutto di lì ha inizio: il rispetto dei diritti umani delle donne, l’inviolabilità del loro corpo come antidoto alla legge dei più forti. Anche il nostro presente è segnato da quell’antico conflitto che ora mostra forme e volti inediti, il conflitto per il potere, il dominio sull’autonomia, sulla libertà delle donne. Una vera e propria strage delle innocenti che trascina i destini dei minori e dei bambini. L’uguaglianza e la libertà delle donne come condizione di contrasto a ogni differenza e discriminazione. Anche per questo è indispensabile riprendere il filo dei diritti umani per scrivere la stagione della “rivoluzione globale della dignità”. La grande e concreta profezia di un partito per una democrazia a cui non venga sottratto alcun potere. Deve essere netto l’impegno del PD per un confronto pubblico permanente sui temi di civiltà. Deve essere un programma la cui bussola siano laicità e dialogo. Solo così, con una alternativa da costruire fin da adesso, potremo essere credibili nei nostri sì. Sì a una legge organica contro il femminicidio, sì a una legge saggia sulla fine vita, sì ai diritti e doveri per coppie di fatto omosessuali, sì al miglioramento della legge contro l’omofobia, sì alla piena applicazione della 194, sì a un nuovo testo per la fecondazione assistita, sì alla cittadinanza, si a estensione di tutele per le donne in maternità. Sì a una battaglia contro ogni discriminazione. Tutto questo non è un elenco di voci, ma un modo di pensare e governare la società. Nulla del resto può compensare il venir meno delle narrazioni sul significato della storia se non la potenza di un nucleo di libertà e doveri fondamentali che percorre il mondo segnando la strada di una pienezza della dignità. Forse nessuno più del cardinale Martini ha avuto la forza di condurre questo pensiero a sintesi: “Chi è orfano della casa dei diritti, difficilmente sarà figlio della casa dei doveri”. Sono i termini morali di un ‘nuovo corso’. Sono parte fondamentale della rivoluzione dell’uguaglianza che è oggi per noi rivoluzione della dignità.

4. Il partito che vogliamo

Il PD deve pensare in grande. Deve progettare il futuro oltre le contingenze. Non si tratta di una fuga dalla realtà. Il buon governo dell’esistente, il riformismo concreto, la capacità di muovere i passi, anche piccoli, ma nella direzione giusta dell’uguaglianza, del lavoro, delle conoscenze e delle opportunità diffuse, sono condizioni vitali della buona politica. Non c’è azione riformatrice che non parta dai bisogni e dalle domande delle persone. E dalle risposte possibili. Ma in un tempo difficile, dove la crisi semina povertà, sfiducia, ribellione, si è aperta una frattura rischiosa tra chi è immerso nel governo del presente, condizionato dalle scarse risorse e dai limiti esterni, e chi reclama un domani migliore, non trovando però la mediazione della politica. Questa frattura attraversa il centrosinistra e ha costituito una delle ragioni dell’insuccesso elettorale. Non possiamo accettare che tante domande di cambiamento, benché parziali o incompiute, vengano spinte verso estremismi privi di sbocco. Il PD deve diventare molto più che un collegamento tra la società e le istituzioni. Il distacco, l’estraneità di oggi sono anche il risultato di una politica che ha finito per identificarsi, sino ad annullarsi, dentro le istituzioni. Costruire un nuovo partito vuol dire ribellarsi alla dittatura del presente, alla gestione ordinaria del potere, alla tendenza a occupare la società anziché rappresentarla.

Altro che piccoli passi. Dobbiamo avere una energia rivoluzionaria per cambiare il corso delle cose. La distinzione tra partito e governo non è una questione organizzativa. È una condizione per vincere. La vittoria non è conquistare il potere in una condizione di consenso precario o di sfiducia crescente verso la politica. La vittoria è il buon governo sostenuto da un partito che ha radici salde nella parte di società che vuole liberarsi, emanciparsi, dal bisogno e dall’oppressione della sua autonomia, nelle forze creative, consapevoli e vitali della società e dell’economia, che si fa attraversare dalle domande e dai conflitti. Negli ultimi vent’anni la destra ha pensato di colmare lo scarto di sfiducia con robuste iniezioni di populismo. Poi la protesta anti-sistema ha raccolto istanze di rinnovamento anche a causa della nostra debolezza, e tuttavia ha accentuato le pulsioni plebiscitarie e leaderistiche. Anche per questo la distinzione delle figure del candidato premier e del segretario del partito non può essere trattata come un cavillo. È una scelta politica e culturale. L’identificazione dei due ruoli non ha funzionato proprio perché il governo da solo non ce la fa. Il migliore di tutti noi da solo non ce la fa. Un partito forte ha bisogno di una leadership autorevole, ma la leadership non esaurisce la funzione del partito. Il partito non è un comitato elettorale permanente a servizio dei candidati alle varie competizioni elettorali. Questa concezione ha alimentato degenerazioni correntizie che rappresentano oggi malattie gravi del PD. La distinzione tra partito e governo aiuterà anche a formare gruppi dirigenti nuovi e plurali, a favorire il ricambio e una partecipazione attiva, ad aprire il partito a nuove forze civiche e sociali.

La cultura democratica del PD ha un potenziale enorme ed è un contributo importante alla famiglia dei progressisti europei. Il nostro orizzonte non è mai stato ridurre storie diverse a una storia sola. La ragione fondativa è costruire un partito nuovo per una sfida radicalmente originale. Una politica consapevole del proprio limite, ma al tempo stesso radicale nei valori e nel progetto di alternativa. Una politica laica, perché questo è il terreno del bene comune. Una politica ancorata alle domande di uguaglianza e di equità. E ai principi costituzionali. Una politica che intende confrontarsi sul destino della persona, e per questo è aperta al pensiero religioso e a ogni riflessione che cerca i nessi tra la coscienza del singolo, l’impegno per una società migliore e la domanda di futuro. Siamo oltre i tempi del “dialogo” tra la sinistra storica e il cattolicesimo democratico. Il PD è nato per dare nuova vitalità e sintesi alle culture personaliste e solidariste.

Dirigere il PD, a ogni livello, deve tornare ad appassionare. Non può essere la corvée in vista di un altro incarico, ma un impegno a cui dedicarsi senza riserve. È la condizione per ritrovare quella condivisione di sentimenti, valori, destino con tante e tanti che dalla politica oggi si sentono delusi. È la condizione per riportare il partito nei luoghi della sofferenza e del conflitto. Anche perché molto di buono è fuori da noi. E dobbiamo cercarlo nei comitati di quartiere, nelle associazioni e nei movimenti di base, nel lavoro volontariodi milioni di persone, riannodando così i fili della sinistra diffusa, del pensiero critico e delle donne, della radicalità cattolica. Non sarà il riformismo dall’alto a cambiare la nostra società. Dobbiamo dirlo con chiarezza: è stata questa un’illusione. Ora si deve correggere la rotta. La distinzione tra incarichi di partito, a tutti i livelli, e incarichi nei governi, a tutti i livelli, deve essere sancita come un impegno comune della rinascita del PD. Eliminare i doppi e tripli incarichi è una questione seria. Ed è anche un atto di trasparenza, di moralità che si deve in primo luogo a un popolo, il nostro, che pretende misura e
rigore nel momento in cui, dopo tanti errori, ci proponiamo di ripartire insieme. Dobbiamo costruire un partito vero, pure in un sistema che sembra avere terrore nell’usare questa parola, iscritta nella Costituzione e indispensabile ovunque al linguaggio democratico. Il dilemma non è tra partito pesante e partito leggero. Il problema è essere davvero un “soggetto” politico e non uno “spazio” senz’anima. La dissoluzione della rappresentanza del PD alle elezioni del presidente della Repubblica è una ferita ancora aperta. E non a caso parliamo di un congresso di rigenerazione e ripartenza. Un partito intelligente, aperto, democratico. Il PD deve ridare sostanza a una democrazia schiacciata dall’erosione della sovranità nazionale, dall’apparente primato della “tecnica”, dal peso della finanza e degli interessi più forti. Per farlo deve riconoscere la ricchezza straordinaria di idee e intelligenze che la società contemporanea racchiude al suo interno. E al tempo stesso deve sapere che la fatica della democrazia non può risolversi in una consultazione telematica permanente degli individui. Il PD deve contrastare l’idea che le scelte per il governo della cosa pubblica possano essere appannaggio di una ristretta élite di monopolisti dei saperi e della scienza dell’amministrazione, ma deve essere rigoroso nel rifiutare la demagogia e l’improvvisazione e attingere sempre alle competenze migliori.

Deve riconoscere l’autonomia della scienza e la forza del suo metodo critico, respingendo ogni chiusura ideologica. Sfidando però l’egemonia delle culture conservatrici, elaborando soluzioni nuove e restituendo identità e senso alla sinistra. Per questo il PD deve ripensare il suo modo di essere e organizzarsi, e dare vita a forme nuove di discussione, elaborazione collettiva e decisione lungo le linee tratteggiate con serietà dalle note elaborate nei mesi scorsi da Fabrizio Barca e da altri contributi. Una democrazia pensante e deliberante, fondata sul confronto dei punti di vista, lo studio dei problemi, la ricerca di soluzioni comuni e la definizione di procedure rigorose per le decisioni. Una democrazia capace di sfruttare fino in fondo le potenzialità enormi della rete, per articolare e allargare la partecipazione e snellirne tempi e forme. Ma una democrazia ancorata ai territori e ai luoghi di lavoro e di studio, e fondata sul confronto con le persone, sul dialogo, sull’amicizia e sulla riscoperta di un sentimento di comunità. Il PD deve dotarsi a ogni livello di organismi dirigenti ristretti e autorevoli, e al tempo stesso coinvolgere direttamente i propri iscritti
nell’elaborazione dei programmi e nelle decisioni. Deve rispettare il pluralismo, ma contrastare la piaga del correntismo, privilegiare sempre passione, impegno e competenza. Il PD deve restituire senso all’adesione attribuendo più peso ai propri iscritti e promuovendone la formazione. Ma deve evitare ogni chiusura, dando vita a una comunità di democratiche e democratici aperta a un dialogo permanente con la società, coi suoi corpi intermedi e con i movimenti, anche con la costituzione di consigli del lavoro e della formazione.

Una riforma della struttura, dell’organizzazione, delle regole interne al PD è necessaria . Si tratta di scelte organizzative che hanno un valore politico.

1) Organismi più snelli, in grado di discutere e decidere, da comporre con un’ampia rappresentanza eletta dai territori.

2) Eliminazione di doppi e tripli incarichi, con la previsione di una rotazione nelle funzioni.

3) Rilancio dei circoli, a partire da un maggiore investimento di risorse sui livelli locali. È un obiettivo da tenere fermo anche nel quadro di un ripensamento del finanziamento pubblico che resta, in ogni caso, un presidio di democrazia e libertà affermato in tutta Europa.

4) Istituzione di consultazioni periodiche, anche referendarie, su temi specifici o su questioni di indirizzo.

5) Patti di consultazione e collaborazione con associazioni, comitati, movimenti civici.

6) Azioni positive per la promozione nei gruppi dirigenti e nelle istituzioni di un pluralismo sociale e culturale.

7) Conferma del principio della democrazia paritaria, che resta scolpito e dal quale non si torna indietro.

8) Più forte investimento sulla formazione di iscritti, militanti, dirigenti.

9) Un nuovo modo di vivere la rete, non solo come strumento di scambio o propaganda, ma come la più formidabile opportunità per ripensare i luoghi fisici – i nostri circoli – e quelli immateriali dell’impegno e della partecipazione. Costruire una “rete di reti” può diventare un trampolino verso un partito-rete che trasforma il rapporto tra centro e periferie.

10) Ridare valore alla tessera. Agli iscritti deve essere riconosciuto un potere di intervento, di decisione, di controllo, anche perché sono la forza e il presidio della nostra autonomia, sono gli anticorpi che in questi anni hanno fatto argine a un’idea della politica proprietaria e personale.

La nuova Assemblea nazionale eletta dal Congresso deve impegnarsi ad aprire intorno a queste e altre proposte sulla forma partito una discussione che coinvolga gli iscritti e si concluda entro un anno con una Convenzione per il nuovo PD che affronti e vari le necessarie riforme organizzative e statutarie.

L’etica per un partito è tutto. È molto più di un buon programma di governo. È una veste che deve tornare a coprire ogni cosa che riguardi un soggetto politico: l’uso delle risorse, l’entità dei compensi, la coerenza con cui si perseguono obiettivi e si affermano idee, lo stile nel dire e nel fare, la sobrietà dei singoli, la trasparenza nelle nomine, l’onorabilità nell’esercizio di una funzione pubblica. Accanto all’etica dobbiamo riscoprire anche un’autonomia che è forza responsabile. Non distacco, né indifferenza, piuttosto la “distanza” che arricchisce la prospettiva, dà profondità, indipendenza e consente una vera libertà di scelta nel perseguire l’unico interesse che conti: quello comune. Ma la parola che più ci è necessaria è forse la più scontata di tutte, e anche la più negletta dai nostri tempi: onestà. Umberto Saba disse una volta: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”. Ai politici resta da fare una cosa sola: la politica onesta. Potrebbe sembrare troppo poco, il minimo dovuto. Ma l’onestà, per la politica, è la fedeltà alle proprie parole, alla propria visione, a se stessi. Ecco una bella sfida per il PD di domani: fare ciò che, a partire da un certo punto in avanti, non siamo più stati capaci di fare, ma è, al tempo stesso, ciò che da sempre si pone come compito a ogni politica: dire chi siamo, in cosa crediamo e per cosa ci battiamo. E poi farlo davvero, ogni giorno. È tale la grandezza etica racchiusa in questo proposito, che, raggiunto, basterebbe da solo a far parlare di rivoluzione.

Foto: Gianni Cuperlo apre la campagna elettorale per le primarie del Partito Democratico,
18 ottobre 2013 (Roberto Monaldo / LaPresse)