Il testo della mozione di Giuseppe Civati
Per le primarie alla segreteria del Pd del prossimo 8 dicembre: il titolo è «Dalla delusione alla speranza. Le cose cambiano, cambiandole»
Il testo integrale del documento congressuale presentato da Giuseppe Civati, candidato alla segreteria nazionale del Pd, in vista delle primarie del prossimo 8 dicembre. Il titolo è: «Dalla delusione alla speranza. Le cose cambiano, cambiandole».
IL PARTITO DELLE POSSIBILITÀ
LA NOVITÀ È A SINISTRA
Cara elettrice, caro elettore,
il manifesto che stai iniziando a leggere è dedicato a te e a te immediatamente rivolto, perché troppo spesso le decisioni sono state prese senza consultarti, senza coinvolgerti, senza riconoscere l’essenziale protagonismo e la sovranità che ti appartiene.
Nelle pagine che seguiranno, la novità è a sinistra, nel pluralismo, nel riconoscimento dei diritti, nell’apertura alla cittadinanza, nella voglia di cambiare insieme perché solo insieme, con un grande progetto, possiamo farlo, nella cultura della possibilità e dell’alternativa di governo, nel superamento di quella «questione maschile» che ancora dobbiamo affrontare per cambiare punto di vista, modi e parole, nella creatività e nella curiosità, nella conoscenza e nell’apertura di senso che sole ci possono davvero salvare.
Troppo spesso l’abbiamo inseguita fuori di noi, questa novità, trascurando le cose in cui crediamo, la passione politica che sola può consentirci di cambiare. La cultura delle possibilità, mentre continuiamo a ripeterci che non ci sono alternative. Mentre l’alternativa siamo noi. E siamo noi a dover aprire una discussione libera e aperta, alla pari e alla luce del sole. Non un dibattito che si chiude, in queste righe, ma un confronto che finalmente si apre.
Per noi sarà un congresso fatto di campagne, confronto, informazione e studio, perché crediamo che questo sia il modo migliore per interpretarlo. E ciò che chiediamo per il partito, lo chiediamo a livello politico più generale, perché ritorni la possibilità per gli elettori di scegliere da chi farsi governare, con una legge elettorale che promuova il confronto tra destra e sinistra e chiuda la stagione delle intese in lungo e in largo.
Ma questo non è solo un congresso, è un momento in cui ripensare il centrosinistra nel suo complesso. La nostra storia recente e il futuro che ci attende. Cercando di alzare lo sguardo e di cambiare, finalmente, prospettiva, risalendo la storia delle delusioni degli ultimi vent’anni del nostro schieramento per cambiare finalmente strada.
Per essere popolari, certamente, perché una sinistra senza popolo non esiste: ma non solo perché si dicono banalmente cose che sono popolari, ma perché si fanno diventare popolari soluzioni che riteniamo giuste che popolari ancora non lo sono.
I grandi partiti progressisti nascono per rivoluzionare le società, sono un progetto ambizioso, una “follia” di molti per mutare la realtà: solo i molti, se consapevoli e organizzati, possono battere i pochi delle oligarchie. È questo il fondamento della loro esistenza: scegliere di essere quella possibilità di trasformazione radicale, quell’ideale di liberazione che muove il nostro impegno.
In questi anni, in questi tempi di incertezze e confusione abbiamo sacrificato alla crisi la nostra libertà di decidere. Abbiamo anteposto al sogno di un mondo diverso e più felice il calcolo della stabilità economica e finanziaria, congelando le nostre aspirazioni mentre il mondo che conoscevamo si liquefaceva. Piuttosto che accogliere i cambiamenti – certo anche minacciosi – come un’occasione per mettere in discussione il presente, ci siamo arroccati nel passato, immobili nella difesa dell’esistente, senza comprendere che l’unico modo per tenere le cose insieme era non restare fermi. Dobbiamo assumerci il “rischio” del futuro, per affermare tutta la possibilità di realizzare la nostra missione, quella di una società liberata dai bisogni e dalle paure.
L’ORA DEL RISCATTO
Era questo che spingeva coloro che prima di noi hanno combattuto per regalarci l’opportunità di vivere in un Paese migliore. Il 28 novembre del 1943, un ragazzo di ventiquattro anni, nelle sue parole ottimo traduttore e «mediocre partigiano», così scriveva a suo fratello poco prima di partire per una missione da cui non sarebbe più tornato:
La guerra ha distolto gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento.
Giaime Pintor aveva scelto di non restare solo un intellettuale, parte di una generazione perduta e lamentosa di «carriere infrante», credeva che fosse dovere di ciascuno contribuire alla «liberazione di tutti», confidava che una nuova avanguardia di cittadini avrebbe riaperto agli italiani «tutte le possibilità del Risorgimento». Quella nuova Italia – che Pintor non fece in tempo a vivere – nel dopoguerra edificò sulle macerie della propria sconfitta quel boom economico, e quello sviluppo che, con alterne vicende, è giunto sino alle soglie degli anni Novanta, determinando cambiamenti irreversibili nei nostri costumi e nelle nostre abitudini. Nella seconda metà del Novecento, lotte e conquiste collettive hanno attraversato per intero la società italiana, avendo come protagonisti i partiti e quei corpi sociali oggi così in disarmo. Nonostante le sconfitte, le alienazioni e le “vite agre”, le cose sembravano correre verso un progresso inarrestabile, ricco di futuri tutti da esplorare. L’industria, l’arte, il cinema, il design, l’architettura mondiale tornavano a parlare la nostra lingua. La politica aveva uno spazio e un valore oggi dimenticato e innervava costantemente la quotidianità delle persone.
CONTRO IL CINISMO, PER ACCORCIARE LE DISTANZE
Cinismo e distanza sono diventate le cifre del rapporto con la vita pubblica italiana; ora che quel passato appare così distante e che la politica, un tempo motore di cambiamento, si rinchiude in se stessa, ora è il tempo di voltare pagina. È scaduto il tempo dei compromessi al ribasso. Delle lunghe, e inutili attese di un salvataggio all’ultimo minuto. Il mondo intorno è cambiato molte volte mentre molti anche fra noi brigavano per conservare intatto lo status quo dei propri privilegi, unico argine ai rischi delle nuove sfide posteci dalla globalizzazione: il progresso tecnologico che modifica i nostri consumi e la nostra capacità di competere, il collasso del modello di sviluppo che mette a rischio l’ambiente, il tramonto di un benessere che davamo ormai per acquisito e che è costantemente eroso riducendo la nostra protezione sociale.
Possiamo rassegnarci al progressivo arretramento delle condizioni di vita, al restringimento delle nostre possibilità o riscoprire il fondamento del nostro stare insieme, quel progetto ambizioso ed egualitario, così ben riassunto nella Costituzione, che fa pensare immediatamente a un’azione, a un’iniziativa politica:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Noi crediamo che abbattere la disuguaglianza sia fondamentale per avviare una lotta serrata contro l’inefficienza del sistema. Che redistribuire risorse e opportunità sia l’unico modo perché il nostro Paese torni a funzionare. Lo è ancor di più nell’Italia dei dieci milioni di poveri, delle aziende che chiudono ogni giorno, delle vite precarie delle famiglie e dei giovani senza futuro, dei nuovi soggetti a rischio, dei pensionati a meno di 1000 euro al mese. Rimettere al centro della nostra azione la lotta alla povertà e all’esclusione sociale non è solo il modo migliore per realizzare una società più giusta, ma anche la via per far ripartire la crescita di una nazione bloccata.
Uguaglianza significa lotta alla disoccupazione e aumento dei redditi da lavoro, e dare la possibilità di vivere e di essere attivi a quanti il lavoro l’hanno perso e a chi non lo trova sostenendolo con ammortizzatori sociali degni di questo nome, a cominciare dal reddito minimo garantito, considerato fino a ieri una forzatura e ora finalmente entrato nel dibattito politico italiano, come ci siamo da tempo augurati succedesse. La redistribuzione delle risorse e la lotta per l’occupazione vanno insieme se si attua una politica fiscale che riduca con decisione la tassazione sul lavoro e sulla produzione, colpisca la rendita e promuova la ricchezza reinvestita nello sviluppo: punto essenziale sul quale, negli ultimi mesi, sono state troppe le ambiguità e i passi indietro.
Un percorso che dia dignità alla vita dei lavoratori fin dai loro primi passi, con garanzie progressive e un livello salariale degno di questo nome e di questo mondo. Che valorizzi il merito come fattore relazionale, ci insegna Walter Tocci, come talento che si riceve, che va riconosciuto e premiato e che si condivide, però, con gli altri.
LA VERA CRESCITA
Non possiamo limitarci a spostare i soprammobili senza affrontare le questioni di fondo: è necessario ottenere uno sviluppo industriale che non aumenta solamente la capacità produttiva, ma la trasforma con una politica fiscale selettiva orientata agli investimenti di lungo periodo. La parte migliore del Paese ha bisogno della nostra fiducia per tenere insieme conoscenza e lavoro. L’Italia virtuosa, intrappolata dalle paludi della politica del «si è sempre fatto così», fatica ad affermarsi perché non riceve il sostegno concreto che merita. Un Paese che si identifica nel proprio lavoro ha bisogno di innovazione. Non dimentichiamo che la ripresa, particolarmente timida in Italia, non si potrà misurare con il semplice differenziale positivo sul Pil. Quando la disoccupazione rimane e la diseguaglianza si espande, dobbiamo creare le possibilità per una crescita che aumenti il lavoro insieme ai beni comuni, che riduca l’incredibilmente alto analfabetismo di ritorno e aumenti il consumo di cultura. Solo allora potremo affermare di aver agganciato la ripresa.
Perché conoscenza e lavoro non dovremmo mai separarli, noi del Pd.
Un Paese più uguale e efficiente è quello dove la giustizia (quella di tutti, non quella di uno solo, sempre lo stesso) non diventa giustizia negata a causa della durata insostenibile dei processi. È quello in cui la burocrazia non strozza le imprese quando vogliono crescere e non ne mette a repentaglio l’esistenza, in cui la corruzione non assume proporzioni dilaganti al punto da scoraggiare gli investimenti; in cui è valorizzata la funzione centrale della conoscenza che tiene insieme la filiera del sapere, dalle maestre d’asilo ai premi Nobel.
In Italia scienza e cultura devono accompagnarsi e tenere insieme tradizione e innovazione, che non sono affatto in contrapposizione come si sostiene con grande superficialità, perché è questa la specificità italiana (che dovrebbe valere anche per la politica e la vita pubblica): artigiani, artisti e scienziati insieme da sempre. E invece, negli anni in cui il mondo cresce puntando sull’economia della conoscenza e investe sulla cultura come fattore di sviluppo, in Italia la formazione e la ricerca hanno subito i tagli più duri. Anche a sinistra la priorità del sapere è stata la più predicata e la meno praticata della nostra storia recente.
Se ripensiamo il nostro modello di sviluppo nel promuovere la creazione di nuovo lavoro dobbiamo affrontare anche l’altra crisi, in prospettiva ancora più grave, del disastro ambientale, del consumo dissennato di territorio, del cambiamento climatico fuori controllo. Non sono temi di nicchia, ma urgenze e elementi strategici per il nostro futuro. La sostenibilità può essere insieme fonte di nuovo sviluppo e un mezzo per rimodellare gli stili di vita. L’acqua, la terra, la cultura, il paesaggio sono beni di cui non ci si appropria, sono fattore decisivo di uguaglianza tanto quanto la redistribuzione dei redditi.
E soprattutto uguaglianza vuol dire diritti. Al sapere, alla salute, a un lavoro degno, ai tanti modi diversi di intendere la propria felicità personale, in uno schema laico senza eccezioni. Diritti sociali, diritti civili e culturali vanno insieme se promuoviamo un’uguaglianza basata sulla libertà e sulla dignità della persona.
Uno sviluppo sobrio, rispettoso dell’ambiente e delle persone, si fa sul territorio, vive nella pratica delle amministrazioni e delle comunità. Ed è democratico e gradualista, perché tiene insieme il popolo e lascia da parte il giacobinismo. Perché vive dell’intelligenza diffusa e della partecipazione consapevole dei cittadini. È concreto, perché non è subalterno, perché esplora le possibilità invece di arrendersi alla necessità. Sollecita la partecipazione e mette in atto nuove modalità di democrazia deliberativa. Parte dalle facce, dai bisogni e dai sogni delle persone, dai loro desideri e, a partire da lì, pensa la politica economica. In quest’ordine e in questa direzione.
La politica esiste se è un mezzo per diffondere il potere e non per requisirlo, se fa crescere le capacità diffuse di autogoverno, valorizzando l’autonomia locale e le piccole e medie comunità di cui questo Paese è soprattutto costituito. Lo Stato nazione regge se si ripensa come nodo tra l’Europa e il mondo e i territori. Se invece abdica banalmente alla propria sovranità resterà prigioniero dell’economia al tempo della crisi che, limitandosi a controllarne il debito, ne decide anche il futuro. La politica è oggi sequestrata da un continuo stato di eccezione, in cui «crisi» significa soltanto «devi obbedire!», senza porsi troppe domande, e agli Stati in bancarotta o in grave difficoltà non resta che adeguarsi, a costo di dover imporre ai propri cittadini riforme e sacrifici intollerabili. È la stessa logica che in Italia ha portato alla soluzione del governo tecnico di Monti prima, ed a quello delle larghe intese adesso: non c’era scelta, si è detto, dopo aver escluso ogni altra alternativa.
Il destino dell’Unione Europea, oggi appeso alle convenienze della politica interna tedesca, riflette in pieno i limiti di questa impostazione: un potere sovranazionale esercita le proprie facoltà ben oltre i limiti della rappresentanza e del debole potere costituente che lo legittimano. Non si devono chiedere sconti, all’Europa. Si devono chiedere prospettive. Che riguardino prima di tutto la scuola e la ricerca, che già Delors proponeva di escludere dal conto del debito. Si deve proseguire nella riduzione del debito e nella razionalizzazione della spesa pubblica, problemi italiani come nessun altro, ma si deve discutere in Europa della possibilità di introdurre in Italia ciò che gli europei hanno già, in termini di diritti e di welfare, perché si possa uscire da una situazione di stasi e di incertezza nella quale siamo confinati da troppo tempo, con il pericolo di non riuscire più a uscirne. Portiamo questa Europa in Italia per mantenere l’Italia in Europa.
Interrogando il proprio passato, l’Unione Europea avrebbe in sé la possibilità di eliminare i vizi originari che ne limitano la legittimità democratica e la costringono in un’integrazione economica incompleta e piegata oggi a inefficaci politiche di austerity. Siamo molto lontani dal sogno del “manifesto di Ventotene”, eppure avremmo ancora bisogno delle intuizioni di chi lo delineò: oltre a ripensare le regole che sovrintendono al bilancio europeo e al funzionamento della BCE, la salvezza del modello democratico e sociale europeo passa per una più compiuta realizzazione di una vera Unione Politica.
Recuperare l’Europa della conoscenza e della cultura – e lo diciamo mentre Atene è costretta a chiudere la propria Università – è il più grande contributo che possiamo dare alla pace nel mondo e allo sviluppo sostenibile.
E insieme ricollocare l’Europa nel mare da cui è nata, il Mediterraneo, che anche per i nostri silenzi e la nostra ignavia, da speranza di democrazia e di sviluppo si è fatto cimitero delle vite e dei sogni di milioni di migranti. Il Partito democratico ha il dovere, in vista delle prossime elezioni europee, di lavorare per un programma unitario della sinistra europea, perché Lampedusa diventi il simbolo di un’Europa che cambia, che riconosce ciò che accade nel mondo, soprattutto quello che le è più prossimo. Non è accettabile che si parli solo di polizia e di respingimenti, di diritti negati e di controlli, quando sono in gioco questioni che riguardano la sopravvivenza, la libertà e la dignità degli esseri umani. Se la sinistra non lo dice, preoccupata di perdere voti, li perde lo stesso. E fa un pessimo servizio.
UN PAESE NUOVO
Se crediamo a un profondo cambiamento di direzione delle politiche europee, non possiamo però non assumerci le nostre responsabilità.
La scarsa crescita italiana è impressionante nel confronto con le altre economie sviluppate. Tra tutti i paesi dell’Ocse, l’Italia è l’unica economia ad avere avuto un tasso di crescita del reddito reale medio pro capite negativo nell’ultimo decennio. Il reddito reale medio è cresciuto in tutte le economie sviluppate ed emergenti, in Italia è calato.
Oggi non siamo più poveri del 2007, ma del 1997.
Con un debito pubblico in espansione e un deficit e una produzione industriale che riporta il Paese indietro di quindici anni e una capacità di risparmio delle famiglie italiane che è meno della metà di quella del 1980, non possiamo dare per scontata la nostra posizione nel mondo. Abbiamo perso due decadi depredando il nostro passato. Negli anni Ottanta abbiamo accumulato più debito pubblico che nei trent’anni che li avevano preceduti. Dagli inizi degli anni Duemila, con l’euro e mentre la spesa per interessi crollava, non siamo stati in grado di riformare il Paese. Abbiamo perso un’altra occasione e il risultato è impressionante: negli ultimi anni la produttività del lavoro italiana è calata rispetto a Germania, Francia, Stati Uniti e Giappone, mentre il costo unitario del lavoro cresceva più che in ciascuno di quei paesi.
Non possiamo permetterci altro tempo perché ne va della sopravvivenza del Paese che conosciamo.
La scelta cruciale per un Paese che non cresce è come generare il cambiamento della propria struttura produttiva. Oggi più che mai siamo quel che creiamo. Per cambiare dobbiamo però mutare gli incentivi alla base delle scelte fondamentali della vita delle persone. Dobbiamo chiederci quanto lavorare e con quali prospettive e, poi, quanto siamo disponibili a investire su noi stessi. Il nostro problema – italianissimo – è che abbiamo smesso da molto tempo di cercare di essere il luogo per chi vuole lavorare. Lo abbiamo fatto con una pubblica amministrazione inefficiente e un livello di corruttela endemico ma, soprattutto, con un mercato del lavoro incoerente e un sistema fiscale sconsiderato.
Oggi lavorare non basta più per poter compiere serenamente le scelte che definiscono la vita delle persone. Invertiamo allora il paradigma per cambiare l’Italia. Oltre a lanciare severi moniti contro i disonesti, diamo sostegno agli onesti: l’Italia produttiva e quella che vuole esserlo, chi vive del proprio lavoro e non di una posizione di rendita, sparso tra nord e sud, lavoratore o imprenditore. Il sostegno agli onesti ha bisogno del riconoscimento concreto del lavoro, l’unico incentivo individuale in grado di cambiare in profondità i comportamenti. Cambiamo la remunerazione di chi lavora e investe su se stesso, allora cambieremo il Paese.
Il ruolo del lavoro nella vita delle persone si è molto ridotto. Sembra paradossale in un Paese in crisi che domanda lavoro, con la disoccupazione giovanile al più alto livello degli ultimi trent’anni e la percentuale di lavoratori over 55 attivi tra le più basse d’Europa. In Italia, poco alla volta, abbiamo deciso di depotenziare il lavoro con un sistema fiscale penalizzante e trascurando di sviluppare i servizi – dagli asili nido alla riqualificazione professionale – che lo favorissero. Lavorare non assicura le stesse opportunità del passato, a partire dall’acquisto della casa: se nel 1980 l’appartamento medio valeva tra tre e quattro volte il reddito annuo lordo medio di un trentenne, oggi vale più di dieci di queste annualità.
Quando il lavoro smette di essere centrale, la mobilità sociale si ferma e la disuguaglianza cresce agli stessi livelli di Stati Uniti e Regno Unito. È una diseguaglianza diversa e peggiore: è la diseguaglianza tra chi produce, autonomo o dipendente, vive del proprio lavoro e paga le tasse e chi invece vive di una rendita patrimoniale o di posizione. Siamo un Paese oramai patrimonializzato ma, per tornare a cambiare, dobbiamo ripristinare il primato del lavoro nella vita degli italiani. Dobbiamo incoraggiare le persone a investire su se stesse, sulla propria professionalità e sulle loro attività imprenditoriali, a mettersi in gioco nella competizione internazionale attraverso le loro capacità e i loro talenti. L’esatto contrario di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi vent’anni. Nel Paese con la più alta tassazione sul lavoro di tutti i principali paesi Europei, l’imposta sul reddito è il punto di partenza ideale da cui cominciare per tagliare le tasse. Il fisco italiano è corresponsabile dello svilimento del ruolo del lavoro e tutto questo non ha senso.
In un Paese di questo tipo il dibattito pubblico dovrebbe essere ossessionato dal tema della tassazione del lavoro. Invece siamo ostaggi della discussione sull’imposta sulla prima casa. Per giustificare l’ingiustificabile, ci siamo affidati alla retorica di una stabilità molto instabile soprattutto in relazione alle scelte di lungo periodo. Non è un caso che la retorica della stabilità trovi un corrispettivo nella riduzione delle tasse sugli immobili, mentre i ‘mobili’, chi lavora e produce, continuano a essere penalizzati.
Onoriamo con il fisco, non solo con le parole, la «Repubblica democratica fondata sul lavoro».
USCIRE DALLO SCHEMA
Abbiamo subito troppo a lungo, e ancora subiamo, un modello che ha prosperato sulla liquefazione della società, sulla paura, terreno naturale della destra che pratica il linguaggio della chiusura e del nazionalismo. Ci siamo preoccupati di non turbare gli equilibri di un sistema in crisi, piuttosto che rivolgere il nostro sguardo verso il popolo che la sinistra, non altri, avrebbe il dovere di rappresentare. I poveri. Gli esclusi prima di tutto, quelli rimasti indietro e che provano ma non riescono più a vivere del proprio lavoro. Ma non solo loro: così facendo ci siamo dimenticati anche di tutelare l’intelligenza e la capacità d’iniziativa di quanti non si sono rassegnati e hanno provato a fare impresa, società, cooperazione, anche dentro le enormi difficoltà della globalizzazione senza regole.
Chi rischia, è il nostro primo alleato. Chi rischia perché in difficoltà, chi rischia perché vuole comunque investire, creare lavoro, dare speranza. Le due categorie non sono così lontane, come si è sempre pensato.
Non abbiamo saputo arginare la crescita della disuguaglianza e dare uno sbocco politico alla crescita del sapere diffuso, nei luoghi del lavoro e della vita. In un rovesciamento incomprensibile, col fiato corto, abbiamo reso possibile l’identificazione della parola sinistra con la parola conservazione. Eppure bastava volgere lo sguardo un po’ più in là per vedere che appena fuori dai nostri logori schemi, mentre il corpo sociale si spezzettava, nuove modalità di azione politica testardamente rinascevano, sperimentando le potenzialità offerte dalla rete al servizio di pratiche di difesa e di promozione di un’idea di sviluppo diverso. Dai referendum all’azione diretta per la tutela e la promozione dei beni pubblici, fino alla voglia di un nuovo protagonismo politico a partire da domande parziali, ma precise e definite. Non è accaduto solo in Italia, ma è bene ricordare che nel nostro Paese questi eventi hanno assunto proporzioni tali da non poter essere ignorati: dalle opposizioni a nuove centrali nucleari e piattaforme di estrazione petrolifera nel mare Adriatico, alle rivolte degli immigrati impiegati come schiavi nei campi di pomodori pugliesi o calabresi, dalle manifestazioni per «una repubblica delle donne» ai referendum sull’acqua pubblica.
LA CRISI DI VOCAZIONE
Per farlo dobbiamo, innanzitutto, fare i conti col nostro disincanto, con quell’individualismo miope che ci spinge a perdere lo sguardo collettivo sulle cose, che nega in partenza le condizioni necessarie a ricostruire la memoria che è alla base di ogni rinascita: negli ultimi anni nel nostro Paese ogni vero cambiamento è stato percepito come una minaccia. Incapaci di assorbire nuovi conflitti, davanti al frammentarsi della società, abbiamo continuato a competere verso un fantomatico centro politico, per poi scoprirlo vuoto politicamente e in via di svuotamento anche da un punto di vista sociale. Nel frattempo abbiamo lasciato che la nuova domanda di partecipazione politica, coagulatasi con la rabbia dovuta all’impermeabilità del governo alle rivendicazioni sociali e allo stridente clamore di diseguaglianze inaccettabili, fosse raccolta dal M5s o si spegnesse in un’astensione con percentuali mai viste prime. E destinate a crescere.
E se il passato remoto che abbiamo all’inizio ricordato ci rende orgogliosi e fieri, quello più prossimo è in grado di lacerare la nostra memoria, allungando pesanti ombre anche sul futuro. La tragica gestione del risultato elettorale, l’anonimo e calcolato sabotaggio della candidatura alla Presidenza della Repubblica di Romano Prodi, il veto sulla figura di Stefano Rodotà, fino all’approdo a un governo con una delle destre peggiori d’Europa, hanno precipitato il Partito democratico (e i nostri elettori) in uno stato psicologico confusionale. Un partito che invece tra Rodotà e Prodi si dovrebbe collocare, per ritrovare se stesso.
Negli ultimi vent’anni la sinistra italiana ha colto ben pochi successi. La frustrazione, generata da equivoci strategici ed errori tattici, ha umiliato la natura progressista che legittima la sua proposta politica. Pensiamo che all’origine di questa crisi di legittimazione ci sia una crisi d’identità e, dietro questa, una lesione profonda della sua memoria culturale. Ciò che risulta oggi gravemente danneggiata, guastata con zelo e metodo, è la struttura connettiva di esperienze, di attese e di azioni che legano assieme una comunità politica nell’orizzonte del suo presente.
L’accordo sul significato della presenza sociale e dell’iniziativa pubblica di un partito può prodursi solo instaurando un rapporto positivo con il suo passato. Consenso, legittimazione, identità e memoria sono fattori collegati tra loro perché ciò che vale per un individuo, vale allo stesso modo per un soggetto collettivo e pubblico; quando l’elaborazione di ciò che accade e del proprio divenire storico è ‘infetta’ da un qualche virus dell’interpretazione, il soggetto politico entra in crisi, non si riconosce più: non sa più dove andare e come agire, per fare che cosa e in nome di chi.
LA POSTUMITÀ E LA RIMOZIONE
La classe dirigente che ha guidato la sinistra italiana nell’ultimo ventennio l’ha condotta esattamente in questo stato di «infermità culturale», coltivando nel tempo due atteggiamenti nocivi verso il proprio passato: la postumità e la rimozione.
Postumo è «l’avvenimento di qualcosa che ha luogo dopo il venir meno di ciò che naturalmente l’ha prodotto». L’epilogo delle tradizioni politiche del Novecento, il venir meno della centralità della grande industria e del grande Stato come motori della crescita dell’economia del benessere sociale, si è rovesciata in impotenza cognitiva e politica, in incapacità di pensare e tentare di realizzare una società più giusta, più equa, più libera. In un tempo che sembra privare delle sue basi di radicamento materiale e sociale.
Al di là della cura, quasi notarile, riposta nella creazione e nella conservazione delle linee di successione buro-politiche, e della continuità impressa alla gestione isterica degli appuntamenti congressuali, non c’è stata nessuna trasmissione di eredità, né alcun vero ripensamento: il postumo è per definizione un esausto, l’unica sua operosità sta nel continuare a esaurire l’azione, a mettere fine al possibile. Il politico postumo, che non sa agire, è in realtà un interprete infaticabile dell’arte nobile del farla finita con l’azione.
Il tatticismo esasperato di chi si dispone sempre a giocare (male) nel campo altrui, la politica cumulativa e contabile delle alleanze larghe e variabili, l’attitudine sistematica, ora tacita ora apertamente teorizzata, al compromesso politico e culturale con l’avversario come condotta preventiva e predittiva (tanto da soli non si vince…), la familiarità con la sensazione di non contribuire più alla formazione di una struttura di comunicazione con interessi sociali definiti, ma alla difesa di apparati autoreferenziali, la convivenza pacifica con la consapevolezza di aver perso la famosa «connessione sentimentale» con la base nel disprezzo plateale delle sue richieste: tutto ciò è stata la lunga traversata nelle istituzioni di deliberazione pubblica e di governo di una classe dirigente che ha fatto del suo essere post la cifra riassuntiva del suo lungo percorso di esaurimento politico, culturale e in alcuni casi persino morale.
I postumi rimuovono la propria storia. La mettono da parte senza farci davvero i conti. Finiscono per buttar via i bambini, e lasciar lì l’acqua sporca. I bambini sono i sogni, le speranze, la tensione verso la libertà e l’uguaglianza delle generazioni prima di noi e alcune straordinarie elaborazioni che ancora potrebbero parlare al nostro presente. L’austerità di Berlinguer, così diversa dall’austerity che oggi ci viene rappresentata, o il modo in cui Aldo Moro reagì alla rivoluzione del sessantotto. L’acqua sporca è l’idea del potere come fine ultimo dell’azione politica, che giustifica i mezzi e mette tra parentesi i fini e gli obiettivi di trasformazione. La seconda patologia della memoria (e dell’identità) della sinistra italiana è la rimozione. Che esista una dimensione benefica dell’oblio è indubbio: senza dimenticare parti del nostro passato, non potremmo avere coscienza attuale di noi stessi e della nostra vicenda biografica. La rimozione però è un’altra cosa: come l’amnesia, non è una misura corretta dell’oblio, necessaria alla sopravvivenza, ma una riduzione della capacità di ricordare, è la traccia di un trauma che non è possibile portare alla coscienza senza patirne, ma che è altrettanto impossibile ignorare senza portarne i sintomi.
La postumità e la rimozione ben definiscono gli errori compiuti in questi anni dal Partito democratico. Il rischio che alcuni rimedi alla lunga si rivelino peggiori del male, perché delle due cause della malattia sono troppo debitori, è molto alto. La ‘rottamazione’, come espressione (non a caso) meccanica e a tratti luddista delle sacrosante istanze di rinnovamento anagrafico del personale politico, di aggiornamento cognitivo della sua visione della società e di inevitabile redde rationem in merito a precise responsabilità per gli insuccessi elettorali, è una terapia d’urto che si applica troppo a ridosso del problema: è la figlia primogenita del fallimento tanto della rimozione che della postumità. La rottamazione senza originalità di progetto è un’illusione, che assembla le sue politiche come il suo pantheon di dei ed eroi.
Eppure l’Ulivo, una generazione fa, ci aveva spiegato che era possibile immaginare qualcosa di nuovo, partendo da ciò che c’era già. Eppure in questi anni non sono mancati rilanci e ripensamenti.
IL POPOLO DEMOCRATICO
Il Partito democratico, fondato per unire e trasformare in qualcosa di nuovo il meglio della storia cattolica, di quella comunista e di quella socialista e liberale, è diventato la riunione degli epigoni delle sue culture di appartenenza, finendo così per archiviare il suo progetto prima ancora di aver anche solo provato a realizzarlo. Soprattutto, un partito aperto, capace di ascoltare quanto si muove nella società e muove i suoi elettori, dentro e fuori la politica, capace infine di superare i dibattiti identitari, ormai vuoti, per dotarsi di strumenti organizzativi, partecipativi e quindi politici capaci di dare un nuovo senso alla militanza e alla partecipazione. Per rispondere alle domande “a che cosa serve il Pd?” e “a che cosa serve militare in un partito?”: serve e ha senso se in quel partito è possibile davvero esprimersi, valorizzare le competenze, influenzare dal basso e dalla mobilitazione diffusa il governo e le scelte del Paese. Serve se si decide, insieme, se si è coinvolti non solo nella scelta delle persone, una volta all’anno, come fosse una festa comandata, ma se si discute e si valuta la linea politica sulle questioni fondamentali. Quello è un partito in cui vale la pena credere, e impegnarsi.
Se questo disegno così ambizioso resta ancora valido, non è possibile che a portarlo avanti siano coloro sulle cui spalle gravano i nostri maggiori fallimenti. Perché, ben al di là dei risultati elettorali (invero scarsi) la vera colpa di gran parte dei nostri dirigenti è aver tutelato la loro continuità mettendo a rischio la costruzione del nuovo partito. A fronte delle dimissioni di Pierluigi Bersani, che è anche l’unico che si sia davvero dimesso e a cui va comunque reso l’onore del lavoro svolto, i dirigenti attuali non sembrano rassegnarsi a fare alcun passo indietro, mentre il partito, come pure il governo, galleggiano in un limbo di cui non si vede la fine. «È tempo di crederci», ci dicono ora, ma poi si scopre che sono gli stessi che ci hanno guidato fin qui. Ma quel tempo per loro era ieri, e l’hanno consumato insieme alle nostre attese; ora è il momento di lasciare ad altri la possibilità di tentare a fare ciò che a loro non è riuscito: un partito nuovo per una società migliore: si tratta di accelerare la sfida di un passaggio di consegne dovuto da troppi anni. Un partito che non teme il futuro: è “al futuro” ed è al futuro, non al passato, che si affida.
Anche dinanzi allo smarrimento della sinistra, alla terribile crisi (non solo economica) con cui l’Occidente e noi tutti dobbiamo fare i conti, non c’è ragione per non credere che la nostra società non abbia ancora in sé i semi della propria rinascita.
UNA RICETTA ITALIANA
Una ricetta italiana, ci vuole, che contempli mosse egualitarie e soluzioni liberali. Perché uguaglianza è concorrenza leale, legalità è promozione del merito.
In tutti i settori gli italiani esprimono ancora, caparbiamente, eccellenze incontestabili: dalle storiche aziende del manifatturiero che hanno resistito alla competizione globale reinventandosi, a start-up tecnologiche tra le migliori d’Europa; da laboratori di ricerca scientifici di risonanza mondiale (nonostante le scarse risorse) ad attività non profit e di cooperazione sociale portate ad esempio come modelli internazionali. Per non parlare di quegli amministratori locali che spesso riescono a supplire, con il loro lavoro, con il loro coraggio, laddove falliscono politiche nazionali di corto respiro; fino ai tantissimi talenti sparsi per il mondo del cui contributo la nostra nazione resta orfana da troppo tempo.
Non è in modelli stranieri da importare e da tradurre pedestremente in italiano che troveremo la salvezza. Ci vuole una soluzione che riparta da noi stessi, dalle nostre particolarità, dai nostri limiti e dalle nostre possibilità.
L’Italia può tornare a essere ciò che è stata a lungo, un posto dove andare, dove creare cose che prima non esistevano, nel campo della cultura e della bellezza, ma anche della produzione e del commercio.
L’Italia che fa tesoro delle sue ricchezze e delle sue debolezze, che recupera sugli sprechi – di risorse, di tempo, di territorio – perché sa di non poterseli permettere. E sa che da questa dura lezione si deve ripartire per innovare e per investire sulla qualità. L’Italia che recupera il credito pubblico che le è mancato, in questi anni, all’interno e all’esterno.
L’Italia dei comuni e delle città che tutti ci invidiano, l’Italia dal clima ideale e dalla bellezza diffusa, dell’arte e del paesaggio, l’Italia dell’accoglienza e del Mediterraneo come luogo di incontro e scambio. Un Paese attrezzato per competere col futuro, che non distrugge il territorio ma utilizza l’energia pulita, che non consuma irresponsabilmente risorse e suolo, che abbandona una politica economica obsoleta puntando sull’economia positiva, che ha interesse ad essere altruista e costruisce un capitalismo responsabile, che non cede al nazionalismo ma crede in un federalismo solidale ed in una Unione Politica Europea, livello politico a cui riportare sempre le nostre decisioni.
A chi pensa che queste siano utopie irrealizzabili rispondiamo che è esattamente all’angustia delle loro proposte, alla timidezza del loro sguardo che dobbiamo molte delle nostre sconfitte e dei nostri insuccessi. La vera e realissima utopia è quella in cui ci siamo confinati, un non-luogo dove la politica è deludente per molti, incapace di rappresentare, incerta quando si tratta di affermarsi e troppo rivolta alla tutela di chi è la stessa politica a garantire.
IL NOSTRO DESTINO
Il congresso può e deve essere un’occasione straordinaria perché il Pd si riappropri del suo destino. Le sfide che ci attendono sono enormi. Il Pd è per noi un grande progetto di rivoluzione culturale, un partito delle opportunità (non più degli opportunismi) per tutti gli italiani.
Un partito che deve essere orgoglioso della propria centralità, ma capace di riconoscere la propria parzialità: perché le cose più innovative e forti non sono emerse, in questi anni, dal dibattito politico nelle istituzioni, ma nei movimenti che hanno attraversato il Paese. Ospitarli, offrire loro un dibattito politico organizzato e razionale, significa portare al governo quel cambiamento che non si vede mai.
Il Pd, oggi al governo in una coalizione innaturale e che assume sempre più i connotati di un disegno politico nato in un accordo di Palazzo anziché da una proposta elettorale, ha bisogno innanzitutto di ritrovare il proprio profilo culturale e politico, e nel farlo ha il dovere di ricostruire il popolo della sinistra facendo in modo di essere da questo attraversato: per chiudere un ventennio, ci vogliono libere elezioni democratiche, con una nuova legge elettorale, che avremmo potuto e dovuto già avere individuato.
Prima ancora di selezionare i propri dirigenti (dai circoli al Segretario) un congresso dovrebbe servire a dire chi siamo e cosa vogliamo fare quando siamo al potere e che rapporto avremo con esso. Perché i partiti sono stati troppo dove non avrebbero dovuto stare, in questi anni (nelle nomine e nel sottogoverno) e sono stati troppo poco dove le persone li attendevano (sui luoghi di lavoro, nelle piazze e nei mercati).
Un congresso è un patto che si rinnova con i propri iscritti ma è anche il processo con cui ci si contamina e si può crescere: al nostro esterno si agitano fenomeni e esperienze che ispirano la propria azione a quegli stessi valori a cui facciamo riferimento. Le proteste sociali dei sindacati, i comitati civici e le associazioni a tutela del territorio e dei beni comuni, il parallelo congresso di Sel che vorremmo fosse già con noi, i movimenti degli studenti, le innumerevoli esperienze di mobilitazione che trovano una sintesi nell’idea delle Costituzione come progetto da condividere ed attuare, tutti quei singoli che da soli si battono per una politica differente, per una società più giusta ed eguale, con tutti loro abbiamo il dovere di confrontarci e se possibile contaminarci.
E quella stessa apertura dobbiamo garantirla al nostro interno, costruendo le condizioni organizzative perché il Pd sviluppi, in un rapporto di continuo scambio con la società, le competenze necessarie a comprendere e a padroneggiare la politica di grandi collettività, porre in essere quella che Fabrizio Barca chiama «mobilitazione cognitiva». Occorre garantire la possibilità di diversi livelli di partecipazione, che implicano, di conseguenza, diversi oneri e responsabilità per chi è iscritto e chi (ancora) non lo è. Per il Pd, non ci può essere solo gerarchia: l’«orizzontalità» è un valore, la democrazia rappresentativa va incalzata dalle nuove possibilità che ci offrono la democrazia partecipativa e deliberativa, perché questa non si esaurisce nella forma: non si applica, ma si fa vivere. Un partito forte non teme ma valorizza il dissenso, cresce nel conflitto, non teme chi resta, ma chi lo abbandona perché non si sente ascoltato.
Un partito sano ha un rapporto trasparente e sereno con il potere, non occupa le cariche pubbliche, a scapito di merito e competenze, non è un trampolino per infinite carriere personali, non s’istituzionalizza e non si confonde con l’amministrazione ma rivendica la sua autonomia dallo Stato ed esercita la sua responsabilità verso il futuro restando fedele alla propria storia. Un partito che ritrova una misura con il potere, che non si affeziona alle posizioni di comando, che non ha un’idea patrimoniale delle istituzioni e delle cariche, che si affida a carriere, che ha una cultura per cui affronta il conflitto d’interessi non solo quando riguarda gli altri, ma anche quando riguarda se stesso.
Un partito moderno non può più fare a meno della rete e della sua filosofia, troppo a lungo vissute con sospetto e in alcuni casi addirittura rifiutate, come strumento di organizzazione e di condivisione delle proprie competenze.
VOICE, NON EXIT
La sinistra non si rifonda da soli, proprio perché tanta sinistra è nata fuori e qualche volta persino contro di noi. Il partito deve essere un esempio immediatamente replicabile al governo del Paese, per le sue procedure di democrazia interna, per la sua capacità di dare ascolto e ospitalità all’intelligenza che è fuori, del nuovo rapporto tra politica e cittadini, tra Stato nazione e territori. Un partito non ha paura di quello che cresce anche in maniera irriducibile fuori dai suoi confini, ma ne trae vita e cerca di alimentarlo con un’azione legislativa e amministrativa che apra spazi all’azione diretta dei cittadini. Preferisce sempre la voice, anche quando è dura e scomoda, all’exit silenzioso dei delusi.
Un partito che perciò non si appiattisce sulle azioni di Governo e sulle istituzioni, e che sa che solo se è autonomo e capace di essere in sintonia coi movimenti della società è utile all’azione di governo. Solo un partito così fatto può progettare la riforma dello Stato e della macchina burocratica. Per ridurre i costi e gli sprechi della macchina pubblica e insieme rispondere in maniera più puntuale ai bisogni e ai desideri dei cittadini. Questo è il Partito democratico che vogliamo. La sua assenza, il suo ritardo è ciò che più di ogni altra cosa segna negativamente le difficoltà del momento politico attuale.
Soprattutto vogliamo un partito che non ci chieda più di rinunciare ai nostri sogni, ai nostri progetti di vita, in nome di emergenze che non finiscono mai. Abbiamo il dovere di rompere questo clima di rassegnazione e sfiducia che tiene in ostaggio anche le parole: dalla “crisi” come paradigma di governo all’abuso di termini come “pacificazione” e “compromesso storico” per legittimare il percorso politico che ci ha condotti fin qui, in sfregio alle figure altissime di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Dobbiamo rifondare la nostra comunità politica, ricostruire la sinistra italiana, e per farlo dobbiamo innanzitutto trovare le parole per dirla. La sciatteria del linguaggio cui ci siamo adeguati ha impoverito i nostri ragionamenti e indebolito le nostre azioni. Abbiamo smesso di studiare, di farci domande, rincorrendo affannati un presente minaccioso non parliamo più di progetti a lunga scadenza, non sappiamo più cosa siano i sogni, le speranze, l’ottimismo, nemmeno “quello della volontà”.
Noi crediamo che questa sia l’ora del riscatto. Un partito serve se si fa specchio della sua migliore società, se generosamente mette insieme le storie delle donne e degli uomini migliori, senza chiedersi a quale delle mille maledette correnti appartenga.
È il momento di mettersi alle spalle i nostri fallimenti: non ci accontentiamo di subire un presente che non abbiamo voluto, ma ci mettiamo in cammino verso il futuro troppo lungamente atteso.
È il momento di rinnovare profondamente noi stessi, dal punto di vista culturale e politico prima di tutto, con un gruppo dirigente radicalmente diverso dal precedente, per esperienze, storie e cultura. Con passione e coraggio, non con il calcolo e la convenienza.
Se vogliamo adeguarci a questo stato di cose, esiste già la destra, non c’è più bisogno di pensare a una sinistra del cambiamento.
È questo il Pd che vogliamo far vincere, è questa la nostra rivoluzione: un progetto collettivo, vitale, aperto a tutti quelli che pensano ancora che lavorare per la felicità di tutti sia il modo migliore per realizzare anche la propria. Che credono che sia giunto il tempo di colmare quell’insostenibile distacco tra realtà e possibilità. Senza nostalgia, se non quella per il futuro. Senza alcun riferimento se non quello nelle cose in cui crediamo, a cui non possiamo rinunciare, a cui dedichiamo la nostra vita, la nostra passione, la nostra speranza. Senza mediazioni eccessive che si spingono fino a negare le nostre ragioni, ma con l’immediatezza della sincerità e il coraggio di chi non vuole solo essere popolare, ma vuole rendere popolare le cose in cui crede, anche se ancora non lo sono. Pessimismo è conformismo. E nella palude senza conflitto, in senso democratico, civile e razionale, non c’è innovazione.
Non è un atteggiamento astratto, ma dettato dall’amore per la realtà: che è radicale e che impone scelte radicali, che finora sono mancate e che sono quasi sempre state rinviate. È venuto il momento di accendere le luci sul Paese che non conosciamo.
Finalmente liberi dai condizionamenti che siamo stati noi stessi a imporci, lontani da «logiche» che spesso hanno molto poco di logico, verso una via d’uscita, che troveremo insieme, nel confronto politico con la destra e con un nuovo momento elettorale.
È nelle nostre possibilità: dobbiamo solo riconoscerlo. E riconoscerci.
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IL NUOVO PARTITO
Un partito che studi e progetti. Che partecipi e decida. Che promuova campagne e azioni. Che viva all’aria aperta e alla luce del sole. Senza filiere, senza fondazioni elettorali, senza opacità. Che promuova quelli bravi, non “quelli della corrente”. Che faccia della trasparenza e della semplicità il primo motivo di recupero della fiducia. Che rappresenti i milioni di elettori che abbiamo conservato e quelli che abbiamo perduto. Che dica quello che fa e faccia quello che dice.
LA FORMA INFORME
La crisi italiana è innanzitutto una crisi politica e culturale che, come ci ricorda Piero Ignazi, ha come tema centrale il rapporto tra cittadini e Stato che i partiti, secondo la Costituzione, dovrebbero tradurre in governo del Paese.
Il primo compito di un partito dovrebbe ispirarsi all’art. 49 della Costituzione e considerarsi una libera associazione di cittadini sottoposta a una precisa disciplina normativa che assume il compito di organizzare la partecipazione di tutti alla determinazione della politica nazionale.
Si tratta di un impegno innanzitutto culturale perché è basato su valori che danno un senso alla convivenza civile, e sulla consapevolezza di appartenere ad una comunità nella quale i diversi interessi (nonché i generi e le identità individuali) devono comporsi in un indirizzo e in un progetto.
Una prima e importante considerazione riguarda la netta distinzione tra partito e istituzione di governo (territoriale o statale). Il partito deve riconquistare il proprio ruolo autonomo nella fase di elaborazione e determinazione degli indirizzi delle politiche pubbliche, perché solo il partito può attivare un confronto pubblico che metta insieme visione, esperienze, aggiornamento continuo e innovazione. L’identificazione attuale dei due soggetti svilisce il ruolo del partito relegandolo alla condizione di «partito degli eletti».
Questo genera la nascita di leadership di riferimento nell’elettorato e nel partito e a una conseguente perdita di peso degli iscritti e degli organismi dirigenti. Per questo è importante garantire la distinzione e la separazione tra ruolo negli organismi dirigenti e ruoli di governo. Al partito il compito di promuovere la partecipazione e il dibattito, di elaborare gli indirizzi, al governo quello di tradurre questi indirizzi in azioni efficaci e valutabili.
Ciò comporta anche che le carriere dei politici non debbano concludersi con incarichi nel sottogoverno, nelle partecipazioni statali e regionali, a prescindere spesso dalle competenze che si hanno, come premio di fine carriera. Non è serio e accade troppo spesso.
NON PIÙ PRATICHE DA 101
Non è ammissibile che decisioni epocali sulla nostra linea politica e sul futuro del Paese siano assunte in incognito, nella notte del voto segreto, senza dovere rendere conto. Ad aprile il Pd ha dimostrato il peggio di sé, ha portato alle dimissioni il suo segretario, ha distrutto l’alleanza elettorale con cui si era presentato due mesi prima, ha cambiato linea completamente e ha costituito un governo senza discutere nel merito la forma, la durata e le sue priorità. Si cita in continuazione la grande coalizione alla tedesca, ma possiamo vedere come Cdu e Spd stiano affrontando con molta più cautela e trasparenza la formazione di un governo non uscito da una maggioranza elettorale.
Tutto questo non è accettabile e non si può pensare che sia l’oblio a rigenerare il Pd. Ci vuole una discussione definitiva e un’analisi di ciò che è accaduto che vada in profondità, per valutare responsabilità e condizionamenti che hanno riguardato milioni di elettori che si erano espressi per qualcosa di molto diverso. E che non hanno capito chi abbia deciso così.
CAMPAGNE E AZIONI: UN PARTITO CHE SI MOBILITA
Non solo elaborare tesi, ma farle vivere nella società. Rendere popolare ciò che non lo è significa immaginare che ogni iniziativa legislativa, ogni elaborazione teorica, ogni soluzione amministrativa si trasformi immediatamente in campagna di informazione e di condivisione con i cittadini.
Un partito che muove all’azione, perché informare e coinvolgere sono le prime missioni del Pd, missioni possibili e necessarie.
UN PARTITO CHE NON SIA CONSERVATORE (DI SE STESSO)
Il modo di essere di un partito risponde, infatti, al suo progetto politico. Un partito conservatore avrà meno attenzione per la partecipazione di tutti ai meccanismi decisionali e favorirà le élites o le oligarchie.
Un partito progressista avrà una visione opposta e si farà forte della ricerca del massimo coinvolgimento non plebiscitario, ma fondato sullo svolgimento di processi democratici e di crescita culturale.
LA CULTURA POLITICA PRIMA DI TUTTO
È necessaria una cultura democratica aperta per liberare le generazioni chiuse in recinti: studenti che studiano, ma non praticano; lavoratori che lavorano, ma non si aggiornano; pensionati isolati, che non trasmettono conoscenze e memoria. Un Paese disinformato è povero.
Battiamoci per una politica che liberi l’intelligenza e la creatività, che coltivi l’innovazione in ogni suo aspetto. È necessaria la formazione di una cultura politica che non si limiti a nozioni di educazione civica, pure importanti, ma che sia adeguata alla comprensione di una realtà complessa e in continua evoluzione.
Da questa consapevolezza discende una prima, importante conseguenza: la struttura, il modo di essere del Pd non può riguardare soltanto gli iscritti, ma essere immediatamente rivolti a chi è fuori dall’organizzazione e dalla politica. Il progetto politico del nostro partito si basa su una generale crescita culturale e democratica che avvicini tutti i cittadini ai processi decisionali della politica; ha senso se diffonde la consapevolezza che lo Stato si fonda sul rapporto di ogni singolo con le scelte che riguardano la vita pubblica.
Sarebbe una contraddizione in termini un “partito democratico” che riservasse per i suoi aderenti canali privilegiati di partecipazione alle decisioni e che offrisse a tutti gli altri una generica rappresentanza fondata su una delega in bianco. Manca ancora oggi un partito che sia strumento di crescita culturale e democratica dei cittadini. Questi si sentono esclusi, estranei alla politica, perché non hanno chiaro dove si vuole arrivare, con quale scopo, per quale strada.
Dobbiamo rivolgerci a chi si sente alieno o a chi ritiene noi alieni rispetto alla vita quotidiana e alle questioni sociali più drammatiche.
Estendere e organizzare la partecipazione è allora la chiave per rifondare la vita del Pd e la sua proiezione nella società. Partecipazione a sua volta implica due coppie di concetti che sono le colonne portanti dell’impianto della democrazia nella costruzione del rapporto tra cittadini, politica e istituzioni: poteri-responsabilità e diritti-doveri.
LA PARTECIPAZIONE E LA RAPPRESENTANZA
Partecipazione non è semplice disponibilità all’ascolto. È necessario stabilire un autentico dialogo attivo con i cittadini per costruire insieme una democrazia orizzontale in cui paternalismo, verticismo, autoreferenzialità, trasformismo, opportunismo – vizi tipicamente italiani – dovrebbero essere visti come elementi appartenenti a un passato che non vogliamo ripetere.
A tale scopo dovremo riuscire a individuare e abbattere quelle barriere che oggi impediscono il dialogo, a cominciare dal linguaggio. Perché se nella fase dell’analisi è scontato che i concetti siano espressi con il linguaggio che le discipline sociologiche, giuridiche, politologiche suggeriscono nello svolgimento del dibattito e nella comunicazione, bisogna fare uno sforzo per andare oltre superando il democratichese e le formule involute del politicismo che ci rendono oscuri. Le parole sono importanti.
Elaborazione e comunicazione e partecipazione devono sempre andare insieme, se vogliamo cambiare le cose.
Il Pd deve, in primo luogo, promuovere una cultura del dialogo. Viviamo in un mondo in cui nessuno può pensare di avere le conoscenze e il sapere per decidere da solo anche se siede al vertice delle istituzioni. Nelle realtà sociali, nelle esperienze di cittadinanza attiva, c’è anche il sapere necessario per governare. Il problema della governabilità del Paese o si pone in questi termini cioè utilizzando le competenze e i saperi che sono diffusi nella società in forme associative e in forma individuale (cioè tra le associazioni e tra i singoli cittadini) oppure questo Paese non è governabile. Perché sono i molti a doversi organizzare e a questo deve soprattutto servire un grande partito.
Perciò, democrazia partecipativa e deliberativa s’impongono alla nostra attenzione.
Che cosa pensano gli iscritti al Pd dell’Imu, che ne pensano i suoi amministratori, chi ‘raccoglie’ la loro posizione? Che ne dicono gli elettori degli F-35 e della modifica cella carta costituzionale? Che strumenti hanno per partecipare a queste discussioni?
Mettere al centro il concetto di partecipazione significa, per esempio, che il prossimo segretario, in tema di Primarie, inserisca regole che non si limitino a designare candidati e candidato premier, ma riguardino anche l’elezione del gruppo dirigente e del segretario del partito ad ogni livello. Analoga attenzione andrebbe rivolta alle “doparie”, per la consultazione periodica sulle scelte politiche.
Ancora, sarebbe opportuno promuovere una legge (come quella francese sul débat public) che renda obbligatorio il dibattito pubblico prima di deliberare l’opera, prima che il progetto parta. Questo consentirebbe di rompere il perverso rapporto amministrazione-associazione, dato che le une e le altre da sole non rappresentano la totalità degli interessi pubblici. Se ci fosse stata una legge così la discussione sulla Tav sarebbe stata un’altra cosa.
UN PARTITO OSPITALE
Un partito che riconosca la propria parzialità, che riconosca il valore dei movimenti e dei soggetti sociali portatori di innovazione in campo culturale, civile e politico. La politica non si fa solo nei partiti, e questo un grande partito dovrebbe riconoscerlo immediatamente.
Negli ultimi anni, dalle campagne referendarie ad alcune battaglie sindacali, dalle associazioni che si battono per il riconoscimento dei diritti a quelle che si occupano di cittadinanza, molte novità non sono venute dal Palazzo, ma dalla piazza e dalla società nel suo complesso.
Non siamo all’anno zero. Lo Statuto del Pd contiene già norme e strumenti che, se azionati e attuati, sono in grado di delineare un’identità democratica nuova per l’Italia. Ma questo ancora non è stato fatto ed è molto grave.
Partendo ciò che già esiste la nostra prima proposta deve puntare su un forte rilancio dei circoli del Partito democratico. I circoli devono essere “vivi” e riconoscibili sul territorio e gli eletti del Pd, in qualsiasi carica istituzionale, devono partecipare alla vita del Circolo di appartenenza al fine di garantire la massima trasparenza sui processi decisionali e sulle pratiche di governo.
I circoli dovrebbero considerarsi luoghi di confronto e di elaborazione politica per tutti i cittadini, iscritti e non iscritti (si veda il progetto dei «Circoli aperti» a Bologna o l’attività del Circolo Copernico di Cagliari), e puntare ad essere soggetti attivi per la condivisione delle scelte e per la diffusione delle informazioni.
Nei circoli democratici i cittadini attivi devono sentirsi a casa loro, poter partecipare alle attività e condividere esperienze e competenze.
È necessaria la sperimentazione di nuove modalità di adesione, con la possibilità per i non iscritti di accedere ad un nuovo sistema di diritti-doveri. Occorre riflettere sul fatto che la richiesta di adesione al partito è in calo ma che per contro la richiesta di partecipazione da parte di un elettorato sempre più istruito e informato è forte (soprattutto tra i giovani). Sono persone, gruppi e associazioni attivi anche semplicemente temi specifici, a cui il partito deve dare accoglienza in un processo di elaborazione che abbia casa nei circoli. Questi soggetti a un lato devono poter avere piena cittadinanza nel circolo, con ampia libertà d’iniziativa e decisionale sui progetti in cui sono coinvolti.
I referendum devono essere resi più accessibili abbassando i quorum per azionarli. Potranno essere di due tipi: consultivi su alcuni grandi temi (con il coinvolgimento di tutti gli elettori), deliberativi per i soli iscritti. Ciò che è decisivo però è che la consultazione degli iscritti divenga parte dei processi decisionali ordinari secondo l’ormai acquisita descrizione riconducibile al termine di doparie, in modo da interagire con l’agenda dei diversi organismi dirigenti. Quando nel 2012 si presentò la possibilità di indire sei referendum consultivi tra gli elettori del Pd, le risposte furono timide, per usare un eufemismo. Eppure si trattava di reddito minimo, di legalità, di diritti civili, di consumo di suolo. Tutti temi che hanno poi avuto un ruolo decisivo nella campagna elettorale di questo inverno. Averli sottovalutati è stato un errore imperdonabile.
Le informazioni e i documenti devono essere accessibili con un congruo anticipo rispetto alla convocazione delle sedi deliberanti. Sarà banale, ma oggi raramente è così. Per questo le riunioni dei diversi Organismi in cui è organizzato il Partito democratico (Direzioni, Assemblee, Direttivi) dovranno essere rendicontate e tutta la documentazione a corredo delle diverse Assemblee (convocazione, OdG, documenti allegati, verbali) dovrà essere pubblicata sul sito del Partito.
RIDURRE I NUMERI PER CONTARE DI PIÙ
Garantire il dibattito e la partecipazione anche negli organismi dirigenti significa tagliare drasticamente il numero dei componenti. Un’Assemblea Nazionale di 1.000 persone non serve a facilitare, ma a impedire un normale confronto democratico. Anche la direzione ha dimensione pletoriche rispetto al necessario equilibrio tra rappresentanza e capacità di decidere.
Ha molto più senso, invece, che il Pd si impegni a consultazioni sistematiche degli iscritti (e degli elettori) sia prima che dopo le riunioni degli organismi dirigenti. Il dibattito nel e intorno al Pd, infatti, va considerato come uno degli elementi essenziali del profilo del partito.
LE FONDAZIONI, LE FONDAMENTA E I FONDAMENTALI
Per questo è opportuna la creazione di una Fondazione di studio sul modello della Stiftung della Spd che sia riconosciuta da tutto il Pd, e che superi le numerose fondazioni che oggi sono collegate a singoli dirigenti e rischiano di apparire solo come loro proiezioni personali, per non dire veri e propri comitati elettorali al servizio di questa o quella corrente.
In un’unica fondazione potranno confrontarsi tendenze culturali e approcci diversi senza preclusioni e condizionamenti. Al riparo dalla chiacchiera e dalle convulsioni del dibattito politico quotidiano, questa sede dovrebbe operare in autonomia anche rispetto alla segreteria nazionale per offrire strumenti per raccontare i prossimi dieci e vent’anni, e non i dieci minuti che trascorrono tra un’agenzia di stampa e l’altra.
LA POLITICA È REALE SOLO SE È CONDIVISA
Non si tratta di sostituire il rapporto diretto tra gli iscritti con la rete, ma di integrare i due aspetti facendo diventare il web uno strumento ordinario di consultazione, di accesso ai documenti e alle informazioni, di condivisione delle decisioni, di verifica, nonché di ascolto e di consultazione.
La rete riduce le distanze, mette in comunicazione direttamente circoli e militanti anche di territori molto lontani tra loro, può consentire la condivisione di documenti e di campagne, di buone pratiche e di conoscenze che altrimenti faticherebbero a emergere nel dibattito pubblico. La politica, come la felicità, è reale solo se è condivisa.
La rete può essere una delle principali porte di accesso al Pd in un sistema che sia aperto a tutti i cittadini e che riservi agli iscritti compiti specifici connessi con il loro ruolo. Il ricorso sistematico alla consultazione sulle scelte politiche, come già detto, dovrebbe diventare la base sulla quale i gruppi dirigenti predispongono le discussioni negli organismi di partito.
È altrettanto importante la possibilità conferita alla base dalla rete di far emergere proposte in termini di quesiti, programmi e candidature. A tal proposito si è parlato molto del «metodo Schulze», dove oltre ai candidati possono essere proposti i contenuti e quindi lasciati emergere con una votazione progressiva. Se n’è parlato a proposito di Liquid Feedback e della piattaforma messa a punto dal Piratenpartei in Germania, utilizzata anche per sintetizzare i programmi elettorali. Una sperimentazione in questo senso è possibile, anche per un grande partito come il Pd.
Per avere un partito leggero, ci vuole un partito organizzatissimo, anche se con forme nuove e meno burocratiche e gerarchiche.
Non ha funzionato il partito solo liquido, né quello troppo solido, perché l’equivoco è che per fare il primo ci vuole il secondo. Per fare la rete, ci vuole la presenza territoriale. E per stare nelle comunità, ci vuole una rete accessibile e trasparente.
UN PARTITO SEMPLICE E ACCESSIBILE
Anche nei documenti prodotti in nome della trasparenza si richiede un linguaggio semplificato, meno tecnico, molto più dettagliato di quanto non sia stato fatto finora.
Il conflitto d’interessi va superato perché il partito sia sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto: nessun doppione nelle cariche, no a incarichi che si sovrappongono, anagrafe di tutti coloro che per conto del Pd amministrano il bene pubblico, anche nelle società controllate.
I cittadini devono poter ricevere un’informazione chiara: nome e cognome – o sigla di riconoscimento – di chi dona al partito, di chi dal partito riceve, quanto il partito spende, quando, come e perché. Un’informazione semplice aiuta a diffondere più fiducia tra i cittadini.
PER UN BILANCIO COMPLETO, APERTO, COMPRENSIBILE, PARTECIPATO
Crediamo che la completa trasparenza dal punto di vista contabile e finanziario sia una scelta non più rimandabile nel panorama attuale, vista la sfiducia totale dei cittadini nell’istituzione partito. Dobbiamo ripartire proprio dalla trasparenza più completa se vogliamo avvicinare di nuovo i nostri concittadini a una partecipazione attiva e aperta nel nostro partito. Non dobbiamo avere segreti, e dobbiamo essere aperti alle innovazioni che i nostri elettori e iscritti ci proporranno. Per un PD che sia sempre più aperto alla partecipazione e alla “mobilitazione cognitiva” dei nostri simpatizzanti.
Il nostro PD deve rendere fattibile quel controllo di tipo diffuso (pubblico, inteso come possibile per tutti) che è certamente superiore a qualsiasi tipo di controllo privato: un bilancio che tutti possano leggere, capire, discutere e partecipare.
Nessuna opacità. Tutti i soggetti, locali e nazionali, le associazioni e le fondazioni che fanno riferimento a personalità del Pd devono attenersi.
Vogliamo sapere tutto, insomma. Perciò alcune azioni sono indispensabili:
Aprire gli open data già esistenti per le forme di finanziamento, anche alle forme di spesa, con il massimo livello di dettaglio raggiungibile, perché chiunque lo voglia possa essere sempre e velocemente informato su dove vengono, dove vanno e come vengono usati i soldi del nostro partito. In particolare porremo la massima tensione verso la trasparenza su spese di personale dipendente, spese di collaborazione e consulenza, spese per costi e servizi, dettagliate per fornitore/tipo di fornitura, in base agli importi.
Definire e impostare un bilancio consolidato del partito (che includa i bilanci regionali e provinciali, per avere una situazione complessiva e comprensibile delle finanze del nostro partito). Il nostro è un partito federale, e quindi le diverse regioni e province costituiscono soggetti autonomi anche dal punto di vista contabile, nel rispetto dei propri statuti territoriali. Non esiste, a oggi, la possibilità di avere una “visione d’insieme” sui conti del Pd, ma soltanto visioni separate (e spesso non completamente comparabili e conciliabili) del nazionale-regionali-provinciali. Dal 2013 dovrebbe essere disponibile l’integrazione con i regionali. Per il 2014 chiediamo di integrare anche i provinciali, per avere un quadro complessivo del partito, sotto questo profilo.
Siamo a conoscenza che il tema delle fondazioni sia quanto di più oscuro ci sia, e non perché ci sia necessariamente qualcosa da nascondere, ma perché semplicemente la normativa lo consente e «è sempre stato fatto così». E stiamo parlando sia delle fondazioni “immobiliari” sia di quelle di tipo politico (e che spesso corrispondono a correnti). La nostra proposta è di superare il «sistema delle fondazioni» anche attraverso l’impegno solenne di massima trasparenza e di redazione e comunicazione (ed eventuale certificazione) del bilancio annuale, così come chiediamo direttamente al nostro partito, così richiediamo a tutti gli organismi collegati (associazioni, fondazioni, imprese), direttamente e indirettamente.
L’AGENDA DEL 2014
In uno schema per punti, possiamo sintetizzare così le nostre proposte operative di riforma:
Come Morpheus, il sistema di raccolta di informazioni che stiamo utilizzando in questa campagna congressuale, anche il Pd deve aggiornare e arricchire il proprio database, chiedendo a tutti coloro che hanno partecipato alle primarie di indicare le proprie competenze, le proprie aspirazioni, la propria disponibilità, per partecipare alle prossime campagne politiche e alla vita del partito.
Il Pd deve essere un partito facile e accessibile, che consenta la partecipazione informata a tutti, anche a chi ha poco tempo. Per una politica di qualità aperta a tutti coloro che sono interessati.
I circoli possono essere case della democrazia, luoghi di coabitazione aperti 7 giorni su 7 e riconoscibili sul territorio, come è avvenuto a Bologna con il progetto Circoli Aperti. Questo percorso andrà accompagnato da un’analisi accurata della situazione attraverso un’indagine a tutto campo: quanti circoli, quali quelli veramente attivi, quanti e quali gli iscritti, che cosa fare per migliorare la qualità della nostra presenza nelle comunità italiane.
Si deve avviare una riduzione dei numeri e un ripensamento delle modalità organizzative della direzione e dell’assemblea nazionale, in un progetto coerente da approvare entro la fine dell’anno prossimo.
Si possono sperimentare da subito occasioni di partecipazione e di deliberazione collettiva: non solo attraverso referendum (democrazia deliberativa) ma assemblee di discussione informate (ricognizione cognitiva).
Vanno promosse forme di autofinanziamento con forti caratteristiche progettuali: si finanzia questa iniziativa, questa campagna, questa missione del Pd. La distribuzione delle risorse va ripensata completamente, a favore delle realtà periferiche, come si è sempre promesso, ma si è realizzato solo in minima parte.
Si proceda all’istituzione di una Fondazione di studio del Partito democratico che promuova l’elaborazione in modo autonomo rispetto agli assilli della quotidianità, all’ultimo commento dell’ultima agenzia.
Si promuova finalmente una struttura federale e autonoma del partito. Fine delle “filiere”: distinzione netta tra le tempistiche dei congressi e autonomia nella gestione delle liste e delle proposte, perché vi sia un vero dibattito tra le sensibilità diverse del partito, senza schieramenti pregiudiziali e prestabiliti. Saranno premiate le competenze, non la fedeltà a questo o a quel leader.
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IL PROGETTO
- Le città possibili
- Democratizzare la globalizzazione
- Lo Stato al tuo servizio
- La rivoluzione culturale
- Per un’economia positiva
LE CITTÀ POSSIBILI
La grande transizione
L’attuale modello di sviluppo ha contribuito a migliorare la vita di milioni di persone. Oggi però si trova di fronte a contraddizioni insuperabili. Il divario tra ricchi e poveri non è mai stato così profondo, tanto da mettere in discussione il concetto di comunità e di convivenza. La rinuncia a un’armonica pianificazione delle nostre città, l’uso indiscriminato delle materie naturali e dell’energia hanno un peso rilevantissimo nell’aggravarsi delle disuguaglianze. L’egemonia culturale della destra e del modello di sviluppo che essa ha favorito ha portato a considerare le politiche ambientali come una sorta di inutile fardello, un onere che il sistema economico deve sostenere (solo quando se lo può permettere) per poter mitigare l’impronta ambientale ecologica delle attività umane. Un ambiente per anime belle.
L’ambiente è invece un’opportunità, probabilmente l’unica grande opportunità, per concepire un’economia capace di futuro e quindi realmente sostenibile. Il nostro secolo è necessariamente quello della grande transizione verso la sostenibilità.
La grande transizione è un processo che deve prendere forma dal basso e che ha il suo cuore in un nuovo modello di città: la Città possibile, un paradigma di riorganizzazione urbana con al centro l’attenzione ai bisogni delle persone, la gestione oculata delle risorse, la partecipazione diretta dei cittadini singolarmente o in forma associata. La Città possibile adotta e promuove un approccio secondo cui le risorse naturali sono complementari a quelle sociali, economiche e tecnologiche e non da esse sostituibili. È pertanto lecito consumare risorse naturali fintanto che non si eccedano le capacità della biosfera di ripristinarle.
La Città possibile promuove l’agricoltura urbana e periurbana, anche sostenendo le iniziative spontanee di riappropriazione dello spazio pubblico. La Città possibile valorizza il bello, recuperando il meglio del nostro patrimonio e adeguando il resto: realizza la riqualificazione dei propri edifici per migliorarne le prestazioni energetiche e la sicurezza antisismica e rende disponibile a prezzi accessibili il patrimonio di abitazioni sfitte e inutilizzate. Ove necessario la riqualificazione urbana può prevedere interventi di decostruzione e ricostruzione, cercando di massimizzare il riuso e il riciclo dei rifiuti edili e promuovendo l’uso di materiali naturali.
La Città possibile è una città dove ci si può muovere in sicurezza a piedi, in bicicletta o su mezzi pubblici a basse emissioni. Il nuovo modello di integrazione tra urbanistica e paesaggio, tra patrimonio culturale e naturale tiene conto dei nuovi scenari di rischio causati degli ormai inevitabili cambiamenti climatici e può anche prevedere la rinaturalizzazione delle aree dismesse inutilizzabili o delle aree di espansione dei corsi d’acqua, mettendo in sicurezza i cittadini che non devono più temere terremoti, alluvioni o frane.
L’intelligenza della città
Attorno alla Città possibile, l’intera società si può riorganizzare. La crisi è l’occasione da cogliere per cambiare un modello ormai inadeguato. Si pensi ad esempio alle reti di commercio equo e solidale e al microcredito, ai gruppi d’acquisto solidale e alle reti costituite tra i produttori biologici, allo sviluppo del software open source e della finanza etica, alle esperienze di filiera corta. E al modello delle Benefit Corporation attive negli Usa.
Vogliamo promuovere un nuovo modello di comunità inclusiva che comprenda i rapporti umani e quelli economici. Una società capace di futuro e che cerca la massima compatibilità ambientale capace di recuperare la migliore tradizione dell’autoorganizzazione, delle società di mutuo soccorso e delle cooperative.
Un partito sostenibile propone e esercita le giuste politiche a ogni livello, dall’Europa ai Consigli comunali. Troppo spesso ci siamo visti schierati su scelte difficilmente difendibili solamente perché eravamo parte di un Consiglio di Amministrazione o perché chi inquinava ci sembrava “più vicino” politicamente, facendo venir meno il fondamento del diritto ambientale europeo basato sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”. Sono questi errori ad avere allontanato tante persone dalla politica e dal Pd e per questo per recuperare credibilità è necessario innanzitutto recuperare coerenza tra il pensiero e l’azione.
La sinistra in Italia è stata all’avanguardia nel concepire un modello che avrebbe disegnato l’idea di società delle comunità locali per molti anni a venire: progettando un quartiere capace di sviluppare relazioni sociali, dotato di servizi per la cultura, l’infanzia e la formazione permanente, promuovendo spazi dove la vecchiaia non sia vissuta in solitudine si sono poste le basi per risolvere le contraddizioni e le disuguaglianze che lo sviluppo economico del secondo dopoguerra avrebbe potuto portare con sé.
E recentemente in tutta Italia sono nati comitati a sostegno della proposta di legge d’iniziativa popolare “Rifiuti Zero” e la mobilitazione per promuovere una gestione pubblica dell’acqua ha portato al voto più di metà degli italiani in una fase storica di disaffezione dalla politica. È così che vogliamo aggiornare e rilanciare il concetto di “smart community” proprio cercando di dare gambe al governo del cambiamento che ci è stato negato dalla politica nazionale, ma che è ben presente in centinaia di realtà locali.
Il territorio, unico e irripetibile
Una parte significativa del territorio italiano è costituita da aree montane, costiere, fluviali, umide e lacustri. Sia in questa parte che nel resto del territorio si trovano estese aree di valore paesaggistico, borghi e centri storici dal valore unico, molti dei quali classificati patrimonio dell’umanità. È paradossale che in quelle regioni dove più è cresciuta l’idea che “il territorio” – inteso come la dimensione locale ed identitaria – siano anche quelle dove non ci si è fatto nessuno scrupolo a devastare e consumare il suolo, stravolgendo l’ecosistema e la storia dei paesaggi e dei luoghi. La rendita fondiaria si è espansa a dismisura senza generare vera ricchezza, ma beneficiando soprattutto i soliti monopolisti del mattone: è stata uno dei principali motori della disuguaglianza, soprattutto negli ultimi venti anni, in cui è aumentato il consumo di suolo senza che si generasse alcun tipo di sviluppo economico.
Dobbiamo ribaltare il paradigma dell’urbanistica degli ultimi trent’anni, anche attraverso una nuova legge quadro, attesa dal 1942. Il tema non è e non deve essere quello di “dove si costruisce”, ma di come migliorare la qualità della vita nelle aree urbanizzate, riqualificarle e rigenerarle per rispondere alle nuove esigenze abitative e tutelare le aree agricole: ad esempio combattendo l’abusivismo e ponendo definitivamente fine alla tragica stagione dei condoni. È necessario un ribaltamento concettuale e operativo: si tratta di ripartire dal non edificato, di dar consistenza e valore al territorio libero – agricolo e non. Di insistere sulle ristrutturazioni, sull’efficienza energetica, sulla bonifica e sul recupero di aree dismesse. Anche per questa ragione è necessario rendere economicamente svantaggiosa la trasformazione di suolo e, soprattutto, chiarire definitivamente che ogni “diritto edificatorio” può valere al massimo cinque anni. In tutto questo deve essere inserita anche una riforma della fiscalità locale. Pagare un’imposta sulle aree edificabili non deve essere argomento per legittimare il “diritto” (in eterno) all’edificazione, ma una forma di fiscalità sulla possibilità temporanea di esercitare tale “diritto”, peraltro, ricordiamoci, assegnato dal piano urbanistico, ovvero da un atto pubblico. Non è più pensabile che i Comuni debbano continuare a vivere, anche per la spesa corrente, di oneri di urbanizzazione.
Nel territorio italiano fragile e denso è finito lo spazio per la crescita della città. Per la sua espansione fisica. Non è più una scelta di modello urbano. L’edilizia è stata e continua a essere un volano necessario, indispensabile alla crescita economica, sociale e culturale. Che fare? Rassegnarsi a pensare che l’Italia non potrà avere le basi per il suo sviluppo produttivo e industriale? No. L’Italia ha i mezzi per competere nel settore delle costruzioni ed essere vincente, più di ogni altro paese. E questa competitività le è data proprio dal suo territorio difficile e fortemente storicizzato. A partire dalla tradizione del restauro Italiano, l’industria edilizia del nostro paese può gettare le basi di un vasto programma nazionale di recupero e riqualificazione del patrimonio costruito, che può costituire, anche nel settore edilizio, la base del rilancio della produzione e della crescita. Se in altri paesi lo sviluppo di qualità (ad alto contenuto tecnologico) si basa anche su quello di quantità (l’edilizia di espansione), in Italia (come non può essere altrimenti e considerando la sua tradizione produttiva) è ormai solo sulla qualità, anche nel settore delle costruzioni, che può fondarsi un’attività produttiva competitiva.
Non solo. Almeno altri quattro settori possono essere associati alla tradizione del Restauro Italiano (per lo più concentrata sul recupero degli edifici e centri storici) e costituire spazi importanti per l’innovazione tecnologica: la riqualificazione energetica adattata al contesto climatico mediterraneo, quella antisismica, quella delle aree industriali dismesse e di quelle agricole e naturali. Lo sviluppo del settore delle costruzioni può permettere di mettere in sicurezza il suolo e gli edifici storici e recenti, rendendo le nostre città libere dai rischi di frane e alluvioni e da quelli sismici. Uno spazio di forte crescita è aperto dall’esportazione dell’innovazione tecnologica nell’edilizia italiana di qualità. In particolare, tutto il bacino del Mediterraneo, a partire dalle coste del Nord Africa, costituisce il mercato ideale per un’“edilizia mediterranea” fondata su una sostenibilità energetica e ambientale adatta a questo contesto climatico, da associare alla sicurezza antisismica e ad altre specificità dell’ambito territoriale (come ad esempio, l’uso efficiente della risorsa idrica, nella costruzione e gestione degli edifici).
Non secondario è uno dei risvolti sociali di una riconversione del settore edilizio dalla quantità alla qualità: a un più alto livello tecnico corrisponde una maggiore sicurezza per gli addetti e un significativo abbattimento di quella vera e propria piaga rappresentata dalle morti bianche, che investe soprattutto proprio il settore delle costruzioni.
100 per cento recupero
Oggi riteniamo l’inceneritore una tecnologia obsoleta e superata (come dimostrato dall’esperienza di Reggio Emilia): smaltire i rifiuti non può più essere la priorità quando in alcune realtà locali si raggiungono percentuali vicine al 90% di raccolta differenziata e si sta sviluppando sempre più un’economia del recupero della materia. Non è sempre stato così, negli anni passati l’inceneritore spesso ha sostituito decine di piccole discariche non controllate e generatrici di danni alle falde acquifere e al sottosuolo per i decenni successivi.
In un’Europa che consuma per ogni cittadino 50 tonnellate all’anno di risorse naturali non possiamo più limitarci a garantire una “sicurezza dello smaltimento”. Alla base di tutto ci devono essere politiche comunitarie e nazionali che promuovano la riduzione di rifiuti alla fonte. Dobbiamo poi adottare sistemi di raccolta, politiche di riuso e recupero e filiere economiche per il riciclaggio orientati a eliminare completamente lo smaltimento negli inceneritori. È evidente che dovrà esistere una fase di transizione, ma dobbiamo aver chiaro l’orizzonte di riferimento. Servono strumenti come la tariffa puntuale (per pagare in base a quanto si invia a smaltimento), i piani per il decommissioning e la riconversione ecologica degli inceneritori, un sistema di incentivazione che sostenga i sistemi di raccolta e gli impianti finalizzati al recupero della materia.
È una scelta che presuppone una visione, un’idea di società. Occorre guardare a un interesse generale e di lungo periodo che sia capace di “forzare la mano” alle tentazioni del guadagno immediato e di una rendita fatta solo per dare risposte al presente. Se esiste un campo in cui il tema delle disuguaglianze non riguarda solamente la dimensione economica e spaziale del presente è proprio l’ambiente: il prezzo degli errori di oggi crea una disuguaglianza ancora più pesante e difficilmente reversibile nel futuro.
Un nuovo patto per l’acqua
A oltre due anni dal referendum, al quale il Pd ha dato tardivamente il proprio appoggio e che oggi – da molti sostenitori delle larghe intese che osano addentrarsi nell’argomento – è liquidato come un “incidente di percorso”, sono in pochi a essersi domandati quale futuro possa avere la gestione dell’acqua nel nostro Paese. Si contano isolati pronunciamenti sulla carta e pochissimi esempi locali coerenti con il significato politico del voto referendario. La stragrande maggioranza delle realtà italiane è esattamente al punto del giugno 2011 e anzi non sono mancati nuovi tentativi di privatizzazione del servizio.
Discutere di acqua significa parlare di una risorsa preziosa, i cui costi e le opportunità di approvvigionamento per il futuro non sono garantite. Inoltre, se pensiamo al delicato rapporto tra la superficie e le falde sotterranee, all’importanza che riveste l’efficienza della depurazione per i nostri corsi d’acqua e per i mari, ci rendiamo conto che discutendo della gestione delle risorse idriche non si parla solo di un servizio, ma di un vero e proprio strumento di governo del territorio. Non solo la gestione di questi servizi, dunque, ma la sovranità dei cittadini e il loro controllo democratico.
Servono 65 miliardi di euro di investimenti per distribuire acqua potabile alla popolazione italiana e avere una rete funzionante ed efficiente, le reti perdono oltre il 40% dell’acqua che in esse viene immessa e una fetta consistente di popolazione non servita dalle fognature. Le inefficienze clientelari di certe reti idriche pubbliche non possono essere lo schermo dietro cui giustificare il trasferimento di profitti a spese dei contribuenti, ma vanno colpite in quanto tali come tutti i fenomeni di cattiva amministrazione, magari trovando una nuova dimensione alla partecipazione dei cittadini.
Non ci si può fermare ai dati sugli investimenti e ai deficit della rete idrica. È fondamentale individuare i principi di fondo sui quali si vuole concentrare “il patto” con i cittadini-utenti: promozione del diritto all’acqua con tariffe che carichino i costi prevalentemente su chi consuma di più, piani per il contenimento della risorsa idrica (evitando, per esempio, di avere piani d’ambito con una crescita costante dei volumi d’acqua erogati), promozione della partecipazione dei lavoratori e degli utenti alla scelte aziendali e alla sorveglianza sulla gestione.
È evidente che il nostro obiettivo prioritario dovrà essere quello di introdurre nuove forme di finanziamento del ciclo idrico. Otre ai prestiti bancari, le aziende pubbliche e le società in house possono ricorrere a buoni obbligazionari garantiti dal flusso di cassa della gestione, all’autofinanziamento grazie all’obbligo di reinvestimento degli eventuali utili, a una maggiore responsabilizzazione di chi con l’acqua produce energia. Se è vero che si è aperto un vuoto normativo sul calcolo delle tariffe, è anche vero che i principi sanciti dal referendum sono molto chiari: nessuno può utilizzare il costo delle risorse destinati agli investimenti come strumento per fare profitto. Il “Patto per l’Acqua” che noi proponiamo prevede nuovi Statuti per i soggetti pubblici che si occupano di acqua (aziende speciali o società a totale proprietà pubblica in house). Prevede l’apertura dei consigli di amministrazione alle rappresentanze degli utenti (come singoli o in forma associata o di categoria), un maggiore ruolo dei lavoratori dell’impresa.
Il rapporto di fiducia con i cittadini passa dalla gestione di servizi così vicini e così rilevanti per la popolazione. La Smart Society che vogliamo utilizzerà la rete come strumento per arrivare alla piena trasparenza (open data) nel campo dei servizi pubblici: assegnazione degli appalti, tempi di realizzazione dei lavori, parametri ambientali sulla qualità delle reti e dell’acqua distribuita, efficienza della rete di depurazione. Tutto ciò, con la volontà degli amministratori locali, sarebbe già possibile oggi ma noi vogliamo farne una regola ed uno strumento per andare oltre le “buone pratiche” e dare una traduzione operativa al concetto di Acqua Bene Comune. Lo hanno chiesto 27 milioni di cittadini ed è con loro che dovremmo cercare le larghe intese.
Non ci arrendiamo all’idea che “gestione pubblica” significhi rievocare i vecchi carrozzoni statali amministrati (spesso malamente) dalla politica, ma vogliamo costruire inedite forme di aziende e società pubbliche capaci di gestire il servizio idrico integrato, i rifiuti o il trasporto pubblico locale in maniera partecipata e senza aumentare i costi per il cittadino. Esistono ottime esperienze di governo che ci insegnano che tutto ciò è possibile.
Un piano per l’energia
Il cambiamento climatico è ormai una realtà in atto ed è causato, come prova l’ultimo rapporto dell’Ipcc-Onu, principalmente dagli uomini. Diversi paesi europei hanno già definito strategie a medio termine per ridurre drasticamente le emissioni prodotte dal settore energetico. La Germania vuole uscire dal nucleare e contemporaneamente ridurre le emissioni dell’80-85% entro il 2050. La stessa Unione Europea ha predisposto un’agenda per la graduale decarbonizzazione. È necessario predisporre un piano straordinario nazionale per la ristrutturazione energetica e la messa in sicurezza degli edifici pubblici. Un piano straordinario di intervento su un terzo di questi edifici comporterebbe investimenti per 8 miliardi di euro e porterebbe a benefici diretti per 400 milioni di euro l’anno. Considerando una durata di vita utile degli interventi di circa 20 anni, il piano è sostanzialmente a costo zero. Un’azienda di servizi energetici (Esco, Energy Service Company) potrebbe intervenire progettando, finanziando e realizzando l’intervento, che sarebbe ripagato negli anni successivi grazie ai risparmi in bolletta generati in bolletta.
L’Italia ha bisogno di un piano energetico nazionale che ancora – incredibilmente – non c’è. La diversificazione delle fonti è per lo più associata a quella dei tipi di risorsa da utilizzare per produrre energia: petrolio, carbone (con cattura di Co2), altre risorse. L’energia più efficiente è quella non prodotta, perché non necessaria. La prima diversificazione delle fonti sta nell’efficienza degli edifici e degli impianti.
Infine una buona diversificazione non è tanto di cosa si utilizza per produrre energia, ma di dove l’energia è prodotta. Tutti i tetti degli edifici italiani, a partire da quelli industriali, sono una “centrale” che potrebbe produrre una quota significativa del fabbisogno nazionale, sotto forma di energia solare (termica e fotovoltaica) ed eolica (mini-eolica). Per non parlare dei siti dove è possibile, a basso impatto paesaggistico, acustico e faunistico, produrre energia eolica, la più efficiente nel rapporto con i costi d’impianto. Talvolta un’efficiente collocazione degli impianti di produzione prevede, invece di distribuire, di associare ed unificare i sistemi. È il caso della sostituzione degli impianti singoli con impianti condominiali e contabilizzazione dei consumi individuali o della cogenerazione e trigenerazione associata, a scala di quartiere urbano, al teleriscaldamento.
La sfida è la riconversione del sistema elettrico, ed è una sfida che il nostro paese sta già affrontando, anche se in modo non sempre ordinato. Il settore delle rinnovabili ha ottenuto risultati inimmaginabili fino a pochi anni fa: nuovi impianti, nuove tecnologie a costi sempre più bassi, nuove imprese e posti di lavoro. Si pensi solo che nel settore fotovoltaico gli obiettivi previsti per il 2020 sono già stati raggiunti nel corso del 2011 e nel corso del 2013 per almeno due volte la quantità di energia proveniente da fonti rinnovabili è stata – anche se solo per poche ore – sufficiente per soddisfare l’intero fabbisogno nazionale.
La riduzione dei costi può favorire la partecipazione dei singoli alla transizione energetica se supportati, non attraverso incentivi economici, ma più semplicemente attraverso una regolazione più adatta al nuovo contesto. Ad esempio, per favorire l’autoconsumo dell’elettricità prodotta localmente, dovrebbe essere consentito ai condomini di formare delle reti d’utenza efficienti e alimentate da fonti rinnovabili “collettive”. Tutte le abitazioni si collegherebbero a un unico impianto di generazione condominiale, dividendosi oneri (bolletta elettrica) e benefici, come del resto già accade per chi ha un impianto di riscaldamento condominiale.
Più in generale, sarebbe opportuno promuovere la cooperazione nella produzione e consumo capaci di rifornire direttamente i propri soci con energia elettrica proveniente dai propri impianti rinnovabili. Una tale politica attirerebbe capitali privati oggi esclusi dal mondo delle rinnovabili, capitali non in cerca di un semplice profitto economico ma di un approvvigionamento di energia a minore impatto ambientale.
Nel prossimo futuro le reti elettriche di trasmissione e distribuzione saranno in ogni caso profondamente diverse da quelle che si sono sviluppate finora. È quindi necessario predisporre da subito un piano complessivo di modernizzazione dell’infrastruttura di rete, attraverso un rafforzamento della spina dorsale del sistema elettrico per integrarla maggiormente nella rete continentale europea, e l’introduzione di infrastrutture attive di gestione dei flussi energetici.
Una vera “metropolitana d’italia”
La mobilità, il diritto alla mobilità, è ormai un tema strategico come pochi altri: la parità di opportunità di spostamento costituisce, proprio oggi nell’era delle autostrade digitali (comunque largamente carenti in Italia), uno dei fattori fondamentali per l’uguaglianza dei cittadini e per la loro possibilità di contribuire efficacemente allo sviluppo del paese.
A dispetto della accattivante pubblicità, l’Alta Velocità ferroviaria italiana non è (ancora) la “metropolitana d’Italia”. Per esserlo dovrebbe essere, come ogni metropolitana, integrata con l’intera rete dei trasporti e, soprattutto, accessibile anche ai cittadini a basso reddito (che, con le loro tasse, hanno pagato le infrastrutture necessarie). Attualmente il sistema dei trasporti è un ibrido irrisolto, in parte “verticistico” e “gerarchico” (tratte Torino-Venezia e Milano-Napoli), in parte “orizzontale” e “democratico” (anche se sempre meno, considerando le crescenti difficoltà di quella quota importante di Italiani costituita dai pendolari). Questo ibrido è da ripensare, passando a uno schema a “rete multimodale”.
Il paese deve essere pensato come un unico grande sistema urbano, dove i diversi centri abitati, dai più grandi ai minori, siano interpretati come “quartieri” dell’Italia – città e le aree intermedie come aree agricole e naturali urbane, fortemente integrate con quelle esistenti nei tessuti edificati (parchi e giardini pubblici, residui di aree agricole e naturali urbane).
Tra i diversi “quartieri” (nodi della rete) l’uso delle infrastrutture esistenti deve essere ottimizzato e integrato, dando priorità all’elettrificazione delle linee. In molti casi del Sud Italia, tuttavia, le reti devono essere ampliate: non è più possibile pensare che intere province siano servite da ferrovie ad un solo binario; tutte le ferrovie devono essere di almeno due binari.
La rete deve essere unica a livello nazionale, ma costituita da modalità di trasporto diverse secondo la disponibilità di infrastrutture (strade, ferrovie, porti, aeroporti, autostrade, canali ecc.). Da ogni nodo, il cittadino si deve poter spostare, a prezzo accessibile, con almeno un sistema di trasporto pubblico. Quando presenti più infrastrutture (compreso il sistema fluviale e di canali del nord Italia, da collegare fino all’Adriatico in un’unica rete), in ognuna deve essere possibile utilizzare almeno un servizio di trasporto pubblico (dai treni, agli autobus regionali, provinciali ed urbani, alle metropolitane e tram urbani, ai battelli fluviali, alle navi tra i diversi porti delle non più rinviabili “autostrade del mare”). Tutto il sistema degli orari e delle tariffe deve essere coordinato, in modo da rendere accessibile la rete di trasporti a tutti i cittadini e da ridurre i tempi di attesa tra i diversi tipi di trasporto pubblico. Nei tratti urbani, i sistemi di protezione del trasporto pubblico (corsie preferenziali, cicli semaforici con precedenza dei bus) devono essere monitorati e governati in tempo reale in modo da garantire un’effettiva convenienza, sul piano dei tempi, rispetto al trasporto privato.
Nei “quartieri” dell’Italia – città dove sono presenti stazioni ferroviarie e di bus provinciali e regionali, interporti merci, porti e aeroporti, accessi autostradali, i diversi tipi di nodo di mobilità devono essere collegati da reti in sede propria (ferrovie urbane, metropolitane, tram in sede separata). L’intera rete è da collegare. Tutto questo a vantaggio (non certo a discapito) del trasporto privato (per lo più su gomma), che, quando è indispensabile, può disporre di strade liberate dal traffico dovuto a spostamenti trasferibili (ed effettivamente trasferiti) in un servizio pubblico efficiente e competitivo con quello privato, in termini di costi e tempi.
DEMOCRATIZZARE LA GLOBALIZZAZIONE
Nel nuovo millennio la dimensione nazionale non è più sufficiente per realizzare un sistema realmente democratico in cui la volontà dei semplici cittadini sia determinante nell’assumere qualsiasi decisione politica. Movimenti attraversano il pianeta, per cambiare il mondo. Un mondo in cui nelle scelte globali contino più le ragioni del 99% della popolazione rispetto al 1% di quella legata alla grande finanza. Un mondo dove la libertà e la democrazia possano essere compatibili con ogni culto, e allo stesso tempo siano sempre presenti forme di separazione fra politica e religione. Un mondo dove ovunque viga il ripudio della guerra e siano rispettate la dignità delle persone, le libertà individuali e i diritti umani fondamentali. Qualsiasi proposta politica che voglia realmente realizzare il cambiamento deve misurarsi e collaborare con queste nuove spinte sociali, espressione dell’interconnessione individuale globale dell’era contemporanea, per cercare di concretizzare forme reali di democrazia sovranazionale e di sviluppo sostenibile.
L’Onu e il Parlamento mondiale
No Globalization Without Representation – imitazione del celebre No Taxation Without Representation – è stato uno dei principali slogan delle proteste così dette “no-global” da Seattle a Genova, sino ai nuovi movimenti degli indignados e di #occupy.
Sappiamo che la globalizzazione è un processo storico irreversibile: quello che manca è il contrappeso politico a questo gigantesco flusso di capitali, merci e saperi che sta plasmando il nostro tempo. Si tratta allora di globalizzare la democrazia, per democratizzare la globalizzazione, come sostenuto nel Global Democracy Manifesto firmato da un gruppo di intellettuali di fama mondiale (da Urlich Beck a Vandana Shiva). Occorre lavorare a tutti i livelli per attuare una riforma della Corte di giustizia internazionale e della Corte penale internazionale; creare nuove agenzie mondiali focalizzate su materie come sviluppo sostenibile (ed equo!), protezione ambientale, disarmo; passare dalla moratoria universale della pena di morte alla sua piena abolizione; riformare il Consiglio di Sicurezza Onu dando rappresentanza paritaria a tutti i continenti, superando la logica dello “status quo” derivato dal post-Seconda Guerra mondiale, eliminando il potere di veto dei membri permanenti), e ampliando i poteri di controllo dell’Assemblea generale. E infine, la cosa forse più importante: è necessario dare voce politica all’opinione pubblica globale.
I cittadini di tutto il mondo si mobilitarono nello stesso giorno (era il 15 febbraio 2003) nelle piazze e nelle strade di circa 800 città di ogni continente per opporsi alla guerra irachena: Not in our name. Si disse che quello era l’atto di nascita di un’opinione pubblica globale, ma manca ancora un luogo dove possa esercitarsi il controllo popolare della politica internazionale: un Parlamento mondiale, simbolo e strumento istituzionale di dialogo e decisione di un’umanità che si fa comunità cosmopolita. L’embrione di quello che al momento appare un “progetto utopico” potrebbe essere più realisticamente un’Assemblea parlamentare che integri (per poi progressivamente sostituire) l’Assemblea Generale dell’Onu.
E il processo potrebbe iniziare, per iniziativa dei Paesi più coraggiosi, facendo leva sull’articolo 22 della Carta dell’Onu, senza necessità di modificarla («L’Assemblea Generale può istituire gli organi sussidiari che ritenga necessari per l’adempimento delle sue funzioni»): non più gli ambasciatori e i delegati dei governi, come avviene invece per l’Assemblea generale, ma rappresentanti dei cittadini, dunque delle minoranze e non solo delle maggioranze. Perché emergano problemi ed esigenze e rivendicazioni, e inedite maggioranze sinora silenti nelle istituzioni internazionali. La presa d’iniziativa in questa direzione non è in mano ai soli governi, ma soprattutto alla mobilitazione dei cittadini, e delle forze sociali e politiche che possono per cominciare sostenere alcune valide campagne già avviate (Unpacampaign.org e Worldparliamentnow.org).
La forza transnazionale dei progressisti
Dobbiamo recuperare il senso del mondo intorno a noi, dopo averlo dimenticato per vent’anni e insomma perduto. Il movimento progressista è nato in Europa un secolo e mezzo fa con un’ispirazione e un’organizzazione fortemente internazionalista, dissoltasi poi nel corso di divisivi eventi storici (la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa, la guerra fredda, la terza via). Si tratta di rafforzare il Partito del Socialismo Europeo, aprendolo alla “contaminazione” della cultura ecologista espressa dai Verdi Europei e ad alcune proposte radicali-riformatrici della Sinistra europea, nonché alle caratteristiche del progetto dell’Ulivo, che abbiamo affossato in Italia ed esportato in Europa soltanto in occasione della presidenza di Romano Prodi.
Si tratta di creare punti di confronto e elaborazione politica europea, nelle principali città universitarie europee, che raccolgano e mettano a confronto studenti lavoratori e cittadini sulle politiche da attuare al livello continentale. I democratici italiani possono e devono essere infine in prima fila per rivitalizzare l’Internazionale Socialista e rendere effettivamente operativa e sentita nell’opinione pubblica la Progressive Alliance, il nuovo network delle forze progressiste e democratiche varato a Leipzig in occasione delle celebrazioni dei 150 anni della Spd. Questo può essere, in dialogo con i movimenti “altermondisti” cresciuti nell’ultimo decennio, lo strumento del cambiamento del mondo in una direzione di giustizia, equità e libertà universali.
Il Partito Democratico deve sciogliere una volta per tutte ogni riserva: entrare a pieno titolo nel Partito Socialista Europeo, la casa principale del progressismo europeo, quella più affine alle sue più profonde radici storiche. Che non è però l’unica: con i Verdi europei da una parte, e la Sinistra europea dall’altra, si devono porre da subito, prima e durante la campagna per le elezioni del Parlamento europeo (maggio 2014) le premesse di una nuova alleanza capace di incidere sui processi politici, allargando l’orizzonte del cambiamento oltre il gruppo dell’”Alleanza dei Socialisti e Democratici”.
Il grande limite storico della sinistra, in particolare negli ultimi decenni, è stato proprio la sua incapacità di pensarsi europea fino in fondo, continuando a dimenarsi dentro gli steccati nazionali. Un livello cioè congeniale all’azione conservatrice delle destre e in cui nei fatti è impossibile trovare le soluzioni per una agenda di governo radicalmente alternativa.
Con le prossime elezioni europee il Partito Democratico avrà l’occasione di concordare un candidato unico alla Presidenza della Commissione europea con le altre forze progressiste, dando agli elettori la possibilità di scegliere una “guida” legittimata da un programma e una maggioranza comune. Inoltre, con la scelta chiara di collocazione nel campo del Pse, il Pd contribuirà alla creazione di quel necessario sistema dei partiti europei, concepiti in quanto “unitari e federali” – non più mere “confederazioni” di partiti nazionali – in grado così di proporre coerenti misure e credibili soluzioni dal livello locale e nazionale a quello europeo e globale.
Incompiutezza, debolezza d’Europa
La crisi economica internazionale, originata ormai cinque anni fa dagli eccessi degli istituti finanziari americani, ha superato in breve tempo i confini degli Stati Uniti d’America e ha dispiegato i suoi effetti negativi un po’ in tutto il mondo.
È stata l’Europa a soffrire più di tutti del contagio. Paradossalmente, il continente che da solo rappresenta l’area commerciale più grande del pianeta; la cui economia è sorretta da una delle monete più forti; il cui livello di sicurezza sociale resta ineguagliato altrove nel mondo; che ha saputo costruire l’innovazione politica più originale del Novecento, è sembrato poter soccombere alla tempesta finanziaria scatenatasi sopra di esso. È accaduto per una serie di fattori, interconnessi e decisivi per la comprensione e la risoluzione dei problemi che affliggono l’Europa. I singoli stati europei, anche se ad alcuni piace ancora crederlo, non sono più adatti ad affrontare le sfide di un mondo globalizzato, a competere con paesi grandi come continenti, popolati da centinaia di milioni di persone, che dispongono di ricchezze naturali e umane quasi illimitate.
È dunque per questa missione che deve essere rilanciata l’Unione Europea. Le cancellerie degli Stati d’Europa non hanno finora voluto costruire una Comunità davvero compiuta: hanno voluto cedere solo alcune delle proprie prerogative; hanno architettato delle istituzioni deboli e a queste hanno voluto attribuire competenze in maniera incoerente. Insomma, non hanno voluto concludere il passo che pure coraggiosamente avevano intrapreso. Oggi, accanto a Stati ormai troppo piccoli e deboli, esiste un’Unione che ancora è incapace di sorreggerli e tutelarli, di unire le loro forze, di assicurare loro il benessere di cui si parlava all’atto della sua fondazione. Un’Unione che ha pochissimi rapporti con i cittadini europei, di cui dovrebbe essere garante e rappresentante.
Le decisioni del Consiglio sono così influenzate dagli scenari nazionali e così slegate dal controllo democratico, esse finiscono per riflettere soprattutto i rapporti di forza tra i paesi. Nonostante una teorica parità di partenza tra i vari rappresentanti, gli stati più potenti hanno vita molto facile sia nell’imporre la propria volontà, sia nello sfuggire a ogni responsabilità nelle loro decisioni. L’impossibilità di un vero controllo democratico ha portato a gravi errori e altrettanto gravi ingiustizie nella gestione dell’attuale crisi – e non c’è motivo di pensare che ciò non si ripeta, in futuro, se il processo decisionale europeo non sarà profondamente modificato. Per un lungo periodo, nessuno ha potuto contestare l’impostazione di matrice tedesca secondo cui il compito principale della Banca Centrale Europea era quello di occuparsi della stabilità dei prezzi e non quello di garantire i bilanci degli stati indebitati e colpiti dalla tempesta finanziaria, come invece compete a tutte le banche centrali del mondo.
L’incompiutezza dell’Unione ha dunque fortemente contribuito a complicare gli effetti della crisi. Se oggi in Europa ci sono più disoccupati, c’è meno sicurezza sociale, c’è più meno speranza per il futuro, c’è più sfiducia reciproca, questo si deve all’iniquità, all’inadeguatezza, alla non democraticità delle strutture che regolano gli affari continentali. Bisogna risolvere questa profonda incoerenza. Dotare l’Unione di strutture che completino il sistema di governo economico continentale con un governo politico è necessario, ma ancora più necessario è dotare queste strutture della legittimità popolare e del controllo democratico che ancora mancano, e senza i quali non avrebbe senso credere in futuro comune per tutti i cittadini d’Europa.
Il semestre italiano di Presidenza europea, può essere interpretato dai democratici come un’occasione per metter al centro dell’agenda politica l’avvio di un processo costituente verso la Federazione d’Europa. Il partito che immaginiamo sarà allora in prima fila con le forze sociali e i movimenti che promuovano le Ice – Iniziative dei cittadini europei, strumento previsto dall’articolo 11 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore dall’aprile 2012.
Usiamolo per attivare un’inedita mobilitazione paneuropea su campagne precise, utile ad innescare un processo che progressivamente colmi il deficit democratico che coinvolge le istituzioni dell’Unione Europea. Come l’ICE per un New Deal d’Europa ovvero, più precisamente, per un piano europeo straordinario di sviluppo sostenibile per la piena occupazione il cui obiettivo è quello di prefigurare l’Europa sociale da porre come alternativa a quella distante dei meri “tecnocrati”.
Realizzare tutto questo, è possibile solo grazie a un governo europeo basato su una struttura istituzionale federale, che racchiuda in sé le “quattro unioni” (bancaria, di bilancio, economica e politica), dotata di risorse proprie finanziate direttamente da cittadini e privati (EuroUnionBond e ProjectBond) e di un vero governo (risultato della “politicizzazione” della Commissione) legittimato dal Parlamento Europeo. La Ue non solo metterebbe gli Stati membri al riparo dall’instabilità finanziaria, ma potrebbe anche contare su una grande quantità di risorse proprie da stanziare nei bilanci settennali, ad esempio per i fondi strutturali e di coesione, agevolando così lo sblocco di investimenti e il ripianamento dei debiti sovrani più elevati. Tutto questo a beneficio non solo di paesi come l’Italia (che a livello regionale avrebbe più risorse da investire, ad esempio, nel trasporto locale e nel sociale, e nello stesso tempo potrebbe ridurre il proprio debito pubblico), ma anche dell’Europa tutta, che avrebbe così la grande occasione per diventare più unita e meno diseguale.
Realisti e pacifisti
La vicenda siriana dimostra la fine dello scenario dicotomico pacifisti/interventisti per cui o si stava con Bush o con Saddam (ovvero: o si interveniva militarmente oppure «si stava a guardare»). Emerge invece che si può essere allo stesso tempo realisti e pacifisti. Diversi sono i cambiamenti avvenuti nella politica internazionale negli ultimi decenni che ci permettono di dire questo: le guerre sono raramente risolutive, dato che non si svolgono quasi mai tra due o più eserciti di stati sovrani che alla fine possono firmare un trattato di pace; i casi della Somalia, dell’Afghanistan, dell’Iraq e in misura diversa di Bosnia e Kosovo ci dicono che oltre che alle dittature sanguinarie dobbiamo guardare alle conseguenze umanitarie degli “Stati falliti” che gli interventi occidentali si sono lasciati dietro; contrariamente agli anni Novanta e al post-11 settembre, il mondo non è più determinato esclusivamente dal comportamento dell’Occidente: pochi dossier oggi in gioco possono essere risolti senza un compromesso con paesi come la Russia o la Cina, altri ancora richiedono il coinvolgimento delle nuove potenze emergenti (Brasile, Sud Africa o India). Sono quindi cambiate sia la guerra che la diplomazia: mentre la prima è ancora più inutile (oltre che, ovviamente, ingiusta) di prima, la seconda è allo stesso tempo più complicata e necessaria.
Una politica estera che si ponga l’obiettivo di promuovere la pace ed i diritti umani é quindi più realista se delinea una coerente strategia diplomatica, piuttosto che se minaccia costantemente l’uso della forza.
Cosa vuol dire questo approccio realista pacifista in concreto? In Siria, per esempio, vuol dire che non ci si può limitare a dire che l’Italia non avrebbe partecipato all’intervento armato a meno di un avallo Onu. Forse che un’azione è sempre giusta purché sia legale? Nella protezione della popolazione civile siriana l’alternativa diplomatica, che fortunatamente sinora è prevalsa, è molto più efficace di un intervento militare che avrebbe lasciato comunque dietro di sé uno “Stato fallito”, e che per giunta avrebbe avuto poche speranze di condurre ad una transizione democratica. Si deve invece essere pronti a sedersi allo stesso tavolo con alcune scomode e spiacevoli potenze regionali come Iran e Russia. Gli obiettivi di questa trattativa sarebbero la fine della guerra civile, una transizione che garantisca i diritti di tutte le minoranze e nell’immediato la fine dei rifornimenti di armi verso tutte le parti.
Negli ultimi 20 anni l’Italia ha rinunciato ad una politica estera forte aspettando che la facesse l’Europa in modo unitario: invece il nostro Paese può avere, per la propria favorevole posizione “geopolitica”, un suo ruolo decisivo nell’area mediterranea contribuendo al rafforzamento della stessa Unione Europea. Perché deve essere chiaro che non ha più senso che l’Italia abbia una costosa politica di difesa, e che questa politica dovrebbe essere assunta dall’Unione nel suo complesso, proprio a partire dall’affaire che riguarda gli F-35.
LO STATO AL TUO SERVIZIO
Noi crediamo che il funzionamento del nostro Stato e il valore della nostra democrazia passino innanzitutto dalla cura delle istituzioni. Uno Stato che funziona non è quello che cede alla deriva dello Stato “forte”, ma è quello che è in grado di facilitare i rapporti tra i cittadini, gli enti territoriali e le istituzioni nazionali e sovranazionali. Per far ciò il sistema complesso formato dalle istituzioni di un Paese deve essere coerente e governabile, in modo da potere esprimere il massimo dell’inclusività, come hanno recentemente spiegato Dron Acemoglu e James Robinson nel loro Perché le nazioni falliscono ribadendo che è la solidità delle istituzioni politiche ed economiche liberali a determinare il successo di un Paese.
Il modello è quello dell’equilibrio dei poteri, dei pesi e contrappesi che dovrebbe essere applicato sia in senso verticale che in senso orizzontale. Esecutivo, legislativo e giudiziario devono essere separati perché in questo modo si evita la concentrazione di potere nelle mani di uno e si garantisce un sistema di controllo reciproco tra le diverse istituzioni ma lo stesso schema vale anche per le autonomie locali: funziona un sistema fatto da istituzioni forti che agiscano in contrasto di interessi tra di loro per evitare che una prenda il sopravvento sull’altra.
È auspicabile la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie che possa funzionare da punto di raccordo e di compensazione tra istituzioni nazionali e regionali, mentre è sbagliato privarsi dell’istituzione del Presidente della Repubblica di garanzia come delineato dalla Costituzione per andare verso un (semi-)presidenzialismo.
La fondamentale autonomia
Valorizzando il ruolo delle autonomie lo Stato può rendere alle persone servizi idonei a facilitarne la vita quotidiana, dimostrando la sua vicinanza, la sua identificazione con i consociati. Oggi, infatti, lo Stato è normalmente percepito – spesso a ragione – come un ostacolo alla soddisfazione delle esigenze del lavoro, dell’impresa, dei bisogni della persona anche nel suo vivere sociale, mentre dovrebbe assumere un ruolo di “facilitatore” rispetto a tali necessità.
Serve una semplificazione del quadro politico-istituzionale, oltre che amministrativo. In particolare, bisogna superare l’eccessiva parcellizzazione del territorio, che impedisce un’adeguata soddisfazione delle esigenze delle persone residenti, come dimostrano anche i recenti interventi normativi relativi all’esercizio associato di funzioni amministrative (obbligatorio o facoltativo). In questo senso bisogna procedere attraverso gli strumenti – anche recentemente rivisti – delle unioni e delle fusioni, che certamente lo Stato dovrebbe incentivare così come bisogna realizzare la riforma degli enti intermedi su nuovi presupposti in grado di superare i vizi di costituzionalità rilevati dalla Consulta in merito alla riforma delle Province, con la creazione di enti di area vasta per la gestione delle funzioni che non possono essere esercitate dai Comuni e per il coordinamento delle funzioni esercitate dagli altri enti locali minori.
Cancellare doppioni, livelli istituzionali che diventano burocratici, ridurre il numero delle aziende e delle agenzie pubbliche, organizzare i bacini in altro modo: senza perdere altro tempo, senza tornare sulle decisioni prese.
Le riforme richiamate passano, quindi, sinteticamente, per questi punti:
- istituzione di una Camera delle autonomie;
- adeguata distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo;
- diminuzione del numero dei comuni (attraverso incentivi alla fusione e comunque alla massima condivisione dei servizi);
- eliminazione delle Province e diversa attribuzione delle funzioni di area vasta.
Il Mezzogiorno
È fondamentale che il Partito Democratico sia in grado di proporre, in maniera del tutto autonoma e per nulla condizionato dalla moltitudine di ricostruzioni banali e di luoghi comuni, una propria interpretazione della crisi sociale e economica che attanaglia il Mezzogiorno, delle forme nuove e crescenti di povertà e di esclusione sociale che lo interessano, delle misure di breve e di medio periodo che possono cambiare le cose.
È bene ricordare che il declino del Mezzogiorno non deve essere attribuito all’insorgere della crisi finanziaria internazionale dell’ultimo quinquennio e alla sua propagazione al settore reale dell’economia. Di certo la crisi amplifica il divario non solo tra le regioni meridionali e le aree più dinamiche dell’Europa, quanto anche palesa differenze profonde tra le capacità di reazione alla crisi delle regioni deboli. E quelle meridionali risultano, incontrovertibilmente, tra le meno reattive. Tuttavia la risoluzione di un problema che non è soltanto di priorità politica ma anche di natura culturale necessita elaborazioni graduali nel tempo; il dramma è che il livello di povertà e di crisi del Mezzogiorno è tale da necessitare interventi non solo nel medio periodo ma anche nel breve termine, con la consapevolezza che la natura delle politiche immediate condiziona l’evolversi delle politiche successive: la definizione di un piano di opere pubbliche che sia in grado di andare incontro alle necessità delle popolazioni meridionali; la capacità della classe dirigente, a iniziare da quella del Partito Democratico, di gestire il maggiore afflusso di fondi e non dia adito, finalmente, a posizioni che di quella classe sottolineano la propensione a rendite e sprechi; l’attenzione al silente lavoro del volontariato sul territorio che supplisce, invisibilmente, alle carenze di uno stato sociale ormai scomparso.
La costituzione tra attuazione e riforma
Le riforme costituzionali continuano a essere all’ordine del giorno da quarant’anni, senza che se ne venga a capo. In realtà, prima che proporre di cambiare la Costituzione – magari un po’ maldestramente – si sarebbe dovuto pensare a darle piena attuazione, sviluppando in via legislativa i temi dei diritti civili, dell’ambiente e di una amministrazione realmente al servizio dei cittadini, assicurando che coloro cui sono affidate pubbliche funzioni le adempiano con disciplina e onore.
Le riforme costituzionali proposte hanno sempre mirato a superare l’instabilità governativa, che certo non è dipesa soltanto (né principalmente) dalla Costituzione. Si sono tentate così varie ipotesi presidenziali o, più spesso, semipresidenziali come forme di “premierato” talvolta di difficile compatibilità con una moderna democrazia parlamentare (come, ad esempio, il cosiddetto “premierato assoluto”, evitato nel 2006 solo grazie alla bocciatura del referendum popolare).
In sostanza, quindi, all’insegna della cautela e del rispetto verso la struttura complessiva della Carta, poche mirate riforme costituzionali – accompagnate dalla riforma della legge elettorale e da alcuni interventi sui regolamenti parlamentari – farebbero funzionare meglio il Parlamento e, di conseguenza, il Governo che esso esprime. Queste riforme, che potrebbero essere realizzate rapidamente, sono sintetizzabili in pochi punti:
- diminuzione del numero dei parlamentari (e delle loro indennità);
- sostituzione del Senato con una Camera delle Autonomie;
- fiducia al Governo espressa dalla sola Camera dei deputati;
- maggiore capacità di direzione coordinamento dell’attività dei ministri da parte del Presidente del Consiglio (con possibilità che proponga al Presidente della Repubblica la revoca di questi ultimi);
- riforma dei regolamenti parlamentari per migliorare la capacità decisionale e di controllo sull’attività del Governo.
Via il Porcellum, subito
La riforma della legge elettorale è una priorità assoluta ed è scandaloso che non si sia ancora intervenuti per cambiarla una volta per tutte. Dopo le ultime elezioni, che hanno prodotto un Senato diviso tra tre principali minoranze e una Camera con una maggioranza del tutto artificiosa (il numero dei seggi del centrosinistra è stato quasi doppio rispetto ai voti ottenuti), ci si sarebbe dovuti aspettare una rapida riforma elettorale per tornare al voto. Invece, si è tentato a lungo di rinviare una legge elettorale a un momento successivo alla revisione dell’intera seconda parte della Costituzione, che sarebbe intervenuta non prima di diciotto mesi. Soltanto più di recente ci si è resi conto che la possibilità di una fine anticipata della legislatura consigliava di anticipare la riforma elettorale. All’inizio di agosto è stata quindi votata la procedura d’urgenza, ma ancora non si sono fatti molti passi avanti.
Il riavvicinamento dei cittadini a istituzioni che siano davvero piena espressione di una legittimazione popolare, da mantenere anche attraverso un’azione di governo realmente stabile ed efficiente, passa attraverso una legge elettorale in grado di rispettare e valorizzare la forma di governo parlamentare prevista dalla nostra Costituzione. La soluzione più semplice – presente nella maggior parte delle proposte presentate in questa legislatura (perfino da Calderoli!) – sarebbe il ritorno alla legge Mattarella, legge maggioritaria con una limitata quota proporzionale. Le difficoltà di funzionamento di quella legge, comunque largamente minori di quelle prodotte dal sistema vigente, si sono concentrate essenzialmente sulle modalità di attribuzione della quota proporzionale alla Camera (per listini bloccati di partito) con relativo sistema dello “scorporo”. Il sistema del Senato risultava più lineare ed evitava una vera e propria concorrenza interna alla coalizione, favorendo un percorso verso un autentico bipolarismo. Inoltre, quel sistema consentiva anche ai candidati al maggioritario che, magari in collegi “difficili”, avessero comunque riportato un bel risultato in termini di consenso di poter essere premiati attraverso il recupero proporzionale nell’ambito della circoscrizione regionale.
Più in generale, tuttavia, può nuotarsi come i sistemi incentrati sul sistema uninominale siano quelli maggiormente in grado di recuperare il rapporto tra elettori ed eletti, valorizzando il legame con il territorio. L’elettore, infatti, vede bene per chi vota e sceglie il suo rappresentante, cosicché le elezioni non diventano un mero confronto tra leader da giocare solo in alcuni talk-show televisivi. Il legame con gli elettori e il superamento della loro disaffezione nei confronti del voto sarebbe certamente aumentato, poi, dalla previsione di elezioni primarie per la scelta dei candidati nei collegi. E il ruolo dei partiti non sarebbe quello di nominare i parlamentari, ma di selezionare una classe dirigente attraverso il protagonismo dei sostenitori e degli elettori in generale.
I punti su cui quindi la nuova legge elettorale dovrebbe svilupparsi sono:
- fino a che entrambe le Camere daranno la fiducia al Governo, previsione di uno stesso sistema elettorale per i due rami del Parlamento, entrambi votati sin dal raggiungimento della maggiore età;
- collegi uninominali, tali da consentire una chiara individuazione dei rappresentanti e una migliore qualità di questi ultimi;
- attribuzione dei seggi con metodo maggioritario (l’optimum sarebbe a due turni), in modo da favorire la formazione di una chiara maggioranza, capace di efficaci scelte di governo con possibile parziale compensazione a favore degli sconfitti che abbiano comunque riportato buone percentuali di consenso attraverso il ripescaggio a livello circoscrizionale o regionale dei migliori dei non eletti (secondo il modello del Mattarella al Senato);
- sistema di elezioni primarie, rimesso alla scelta dei partiti, ma comunque disciplinato con legge, per la selezione dei candidati nei collegi uninominali;
- legislazione di contorno in grado di assicurare una effettiva parità di accesso ai mezzi di comunicazione di massa e di prevedere adeguate cause di incandidabilità e ineleggibilità.
La partecipazione
Il superamento della disaffezione dei cittadini nei confronti non solo delle istituzioni, ma della vita pubblica i generale, deve rappresentare uno degli obiettivi fondamentali del Pd: gli elettori devono essere partecipi delle decisioni e non devono essere dimenticati tra un’elezione e l’altra. Dal punto di vista istituzionale, partendo dall’esperienza della legge sulla partecipazione della Regione Toscana (sostituita, dopo sei anni di sperimentazione, dalla recente l. 46 del 2013), sarebbe da auspicare anzitutto che anche nelle altre regioni italiane si possano diffondere esperienze di dibattito pubblico progettuale e altre forme di democrazia deliberativa (come, ad esempio, il bilancio partecipativo) e inoltre potrebbero essere sperimentate forme analoghe di partecipazione anche a livello nazionale (nei limiti di compatibilità della dimensione territoriale).
Nella stessa direzione andrebbe il rafforzamento delle proposte di legge di iniziativa popolare, spesso del tutto trascurate in sede parlamentare. Per questo, bisognerebbe anzitutto prevedere un meccanismo per cui se queste non sono discusse e votate entro una certa data, se le firme raccolte raggiungono una certa soglia (ad esempio 500.000), l’approvazione avviene direttamente attraverso il referendum.
Infine, sul piano del referendum abrogativo dovrà essere superata la previsione per cui la sua validità è subordinata alla partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto. Essa, infatti, ha fatto fallire molte consultazioni consentendo ai contrari alla abrogazione di alcune leggi di unirsi agli astensionisti cronici vincendo così ben più agevolmente. Pertanto il quorum di partecipazione dovrebbe essere abbassato, portandolo, ad esempio, alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per le Camere. Lo stesso dovrebbe avvenire per l’eventuale referendum approvativo delle proposte di iniziativa popolare.
La prima riforma, la Pubblica Amministrazione
Rendere il dipendente pubblico il protagonista di una storia tutta da scrivere, che abbia come finale una Pubblica Amministrazione quale eccellenza di un sistema Paese in rilancio, è la vera sfida che abbiamo davanti. La PA, nelle sue diverse articolazioni pesa più del 50% del PIL, ha una forza lavoro diretta di 3,3 milioni circa di addetti e produce beni e servizi oltre che indirizzi e regolazioni cruciali per lo sviluppo degli altri settori, sia for profit che non profit.
Tutti gli studi sul tema mostrano due dati molto rilevanti: nel settore pubblico 2 lavoratori su 3 hanno la laurea (nel privato la proporzione è invertita) e il livello medio di motivazioni è molto alto al momento dell’ingresso per poi crollare in un periodo che va dai 2 ai 3 anni, determinando un enorme spreco di energie e capitale umano.
Occorre innanzitutto ripensare le modalità su cui verte l’ingresso al lavoro pubblico, ovvero i concorsi. Sulla base di quali evidenze la PA decide di dotarsi di nuove risorse umane? A oggi tale decisione discende da due fattori: la mancanza di figure in pianta organica e la capacità finanziaria di sostenere la spesa. Occorre introdurre un fattore innovativo: la mappatura delle competenze per determinare il fabbisogno di quelle figure che consentirebbero un miglioramento delle performance dell’organizzazione pubblica. Andrebbero riviste profondamente anche le modalità di selezione degli aspiranti dipendenti e dirigenti pubblici anche dei concorsi, basate su criteri amministrativistici di preparazione nozionistica e mnemonica di concorsi enormi, concernenti solo in minima parte le materie che saranno poi oggetto del lavoro quotidiano e che trascura ogni aspetto legato alla gestione attitudinale e per competenze rispetto alla posizione che verrà ricoperta. Anche in questo caso il gap da colmare è notevole: occorrerà pensare a concorsi in cui sia soprattutto valutata la capacità, tempestività e accuratezza del saper individuare le conoscenze e le informazioni per svolgere al meglio il proprio lavoro.
La valorizzazione delle risorse umane è un altro tema chiave. La formazione (e solo se appropriata e di qualità) è solo uno degli elementi che compongono la valorizzazione del lavoro pubblico. Occorre ripensare in profondità l’attuale assetto delle scuole nazionali di formazione pubblica, declinare la formazione come momento di costruzione e miglioramento di competenze, con obiettivi definiti e strumenti di rendicontazione dei miglioramenti verificatisi: sarà bene introdurre sistemi di valutazione dei responsabili della formazione e meccanismi di collegamento fra le performance dell’organizzazione e il contributo dei percorsi formativi. Valorizzare il lavoro pubblico vuol dire innanzitutto attribuirgli, in varie forme, un ruolo determinante: coinvolgere il lavoro pubblico nelle scelte strategiche, rendere i lavoratori compartecipi dei risultati raggiunti valorizzando in termini economici e di carriera il loro contributo. Agganciare le carriere ai sistemi di gestione, misurazione e valutazione delle performance è una possibile risposta. È senz’altro ora che anche il sistema Italiano aggiorni i propri modelli di gestione muovendo dallo storico approccio legalistico e contabile verso forme di programmazione e controllo strategiche e manageriali – un tentativo che abbiamo osservato con gli ultimi processi di riforma, ma che ha scontato un livello di supporto politico alle policy assai variabile e la diffusa sensazione che il passo richiesto fosse di gran lunga più esteso della gamba a disposizione all’interno della amministrazioni.
Due esempi su tutti: è stato dimostrato che, potenziando le competenze nella funzione acquisti (public procurement), sarebbe possibile recuperare spesa pubblica improduttiva (il classico banale esempio dell’eccessiva variabilità del costo delle siringhe). Si propone dunque di investire in competenze in grado di produrre quei recuperi di efficienza che, oltre a rendere autosostenible lo stesso investimento in nuovo lavoro pubblico, libererebbe risorse per ulteriori investimenti. Siamo poi nel paradosso di lamentare eccessiva scarsità di risorse e, al contempo, utilizziamo meno del 20% dei fondi europei a noi destinati. Anche in questo caso ci sarebbero le condizioni per un investimento in nuove competenze, con un doppio dividendo: nuovo lavoro e nuova occupazione da un lato, maggiori benefici sociali ed economici dall’altro.
Il blocco delle assunzioni da anni in atto è visto come una conditio sine qua non verso il risanamento delle finanze pubbliche. In realtà, il progressivo invecchiamento e disallineamento rispetto allo stato dell’arte della formazione della dotazione di personale rischia di esporre la PA a un’inadeguatezza crescente rispetto alla prossima crisi, o al prossimo cambiamento da cogliere. Per la PA che abbiamo in mente, per una PA di eccellenza, è necessario saper attrarre talenti e professionisti.
Il ruolo dei cittadini e della società civile risulterà determinante. La concezione del cittadino-cliente, come evoluzione (o involuzione) del cittadino-utente, va ribaltata. In tutto il mondo, invece, si va affermando il tema della cittadinanza attiva, del ruolo fondamentale di una società civile organizzata attraverso corpi intermedi fra individuo e stato. La vera innovazione consiste nel declinare il concetto di cittadino-partecipante. Da pochi mesi sono stati pubblicati i risultati del IX Censimento Istat, da cui emerge una significativa crescita del settore non profit ed un arretramento della PA, dimostrando un radicale cambiamento delle modalità di erogazione dei servizi di welfare. Anche in questo caso abbiamo due strade possibili: interpretare le organizzazioni del terzo settore come semplici fornitori e ragionare in chiave di outsourcing, oppure integrare le esperienze e le conoscenze che queste organizzazioni hanno acquisito, anche grazie alla loro vicinanza con i destinatari dei servizi e con i territori in generale. Nel primo caso riproporremmo il meccanismo di mercato, di separazione “contrattuale”; nel secondo caso attueremmo la co-produzione, coinvolgendo la cittadinanza non solo nell’erogazione ma anche nel design e nella gestione delle policies.
Enti trasparenti
È noto che la nomina dei rappresentanti nei Consigli di Amministrazione degli Enti partecipati è utilizzato dalla maggior parte delle forze politiche per radicare relazioni clientelari, e non di rado moneta di scambio per addomesticare le conflittualità interne. Un uso insomma ben distante dagli interessi generali della collettività e dalla missione per cui quegli enti sono in essere. Riteniamo indispensabile affiancare ai discorsi sulla meritocrazia e al rifiuto dei “manuali cencelli” una pratica concreta ed effettiva rendendo chiaro a tutti che le persone designate dal nostro partito sono state individuate in base alla loro competenza.
Per questo si propone – analogamente a quanto già suggerito da alcuni iscritti e dirigenti in passato (Entitrasparenti.it) – che si istituisca un codice di “autoregolamentazione” del Pd a proposito delle nomine negli Enti, per cui ogni livello locale del partito sia tenuto a istituire una autorevole commissione tecnica provinciale di valutazione, composta da persone competenti in materia, che provveda a raccogliere le candidature di tutti coloro che ritengono avere i meriti e le conoscenze adeguate; e alla scrematura e relativa formulazione di una rosa di candidati da proporre al Segretario e alla Direzione, effettuando una valutazione sulla base delle conoscenze-competenze acquisite. Chi accetta un incarico a nomina sia interdetto per due anni dallo scadere della stessa dal candidarsi a cariche pubbliche elettive. Così come chi ha fatto parte di assemblee e consigli elettivi o abbia ricoperto ruoli apicali-esecutivi delle istituzioni rappresentative siano interdetti per due anni dalla possibilità di essere nominati in enti partecipati.
Si limiterebbe così la cattiva pratica di approfittare di posizioni di vantaggio per elargire finanziamenti o favori atti alla costruzione di consenso individuale o di fazione, con gli Enti usati come “camera di compensazione” parallela della politica istituzionale, con “staffette” tra incarichi in organi nominati e organi elettivi. Alle persone individuate sarà richiesto di rispondere e rendicontare puntualmente del loro lavoro e l’intero processo sarà reso pubblico, trasparente e comprensibile per tutti i cittadini. Perciò, come proposto da Luca Pastorino, in ogni livello dell’amministrazione il PD si batta nelle istituzioni per l’introduzione dell’“anagrafe pubblica degli eletti e dei nominati” (già attuale con autoregolamentazione per quanto riguarda i propri eletti e nominati).
Corruzione zero
Un Paese a corruzione zero non è una pia illusione e neanche solo un moto dell’animo, ma la linfa vitale dell’ambizioso progetto di chi vuol porre un accento radicale sulle politiche di contrasto a ogni forma di corruzione, proiettando il tema tra le priorità dell’agenda politica del governo della cosa pubblica. La corruzione costituisce nel nostro Paese un fenomeno sistemico, che percorre – inquinandole – la vita pubblica e privata generando un costo divenuto insostenibile, in termini economici, politici ma anche sociali.
I numeri del fenomeno sono noti e – seppur dotati di valore scientifico relativo – fotografano l’ordine di grandezza del problema. È sufficiente citarne due. Secondo le stime della Corte dei Conti, la corruzione costa al nostro Paese circa 60 miliardi di euro l’anno: una tassa occulta che ricade su ogni cittadino per 1.000 euro l’anno. La somma con il costo stimato dell’evasione (intorno ai 120 miliardi) consegna un dato simbolico che è in sé un programma di governo: 180 miliardi di euro l’anno. Ipotizzandone in astratto l’integrale recupero in dieci anni ripianeremmo l’intero debito pubblico del Paese (intorno a 1800 miliardi). L’efficace contrasto alla corruzione e all’evasione, in altri termini, è la più efficace manovra finanziaria che lo Stato possa realizzare.
Il dilagare dei reati contro la pubblica amministrazione e più in generale di pratiche contrarie alle più elementari regole di etica pubblica determina, inoltre, patologica sfiducia nel rapporto cittadino-istituzioni, incidendo di fatto sulla qualità della nostra democrazia ed alimenta altrettanta sfiducia nelle relazioni tra individui penalizzando le migliori professionalità, lo sviluppo e l’affermazione dell’individuo, in altri termini il suo benessere. D’altra parte, è proprio nella collocazione e nella fisionomia sociale dei reali destinatari dei benefici e dei costi della corruzione che si annida il più grande ostacolo alle politiche di contrasto del fenomeno. La corruzione garantisce vantaggi a soggetti (politici e burocrati corrotti, funzionari pubblici infedeli, faccendieri, imprenditori e professionisti collusi), determinati a difendere la loro posizione di rendita illecita esercitando quel decisivo potere di iniziativa e di veto che deriva loro dalla preminente posizione politico-sociale. I costi, al contrario, sono sopportati dalla collettività, generalmente poco consapevole e scarsamente incline a proporre e sostenere fino in fondo efficaci contromisure.
È compito della politica proporsi e operare come guida coraggiosa e consapevole degli interessi della collettività e saldando il patrimonio di esperienze, studi e proposte provenienti da amministratori, tecnici e società civile per definire e attuare politiche di contrasto sistematiche, non episodiche e realmente efficaci contro la corruzione. È questo l’obiettivo del Partito democratico che ambisca a un Paese a corruzione zero. Zero alibi e tentennamenti nella definizione degli obiettivi e degli strumenti di contrasto; zero tolleranza complice nei confronti dei trasgressori; zero come il numero dei segmenti sociali, degli operatori, dei cittadini che si possano sentire sciolti dal dovere di contribuire a costruire – ciascuno nella realtà di appartenenza – le condizioni per un Paese finalmente libero.
La capillare penetrazione di pratiche corruttive in ogni settore delle relazioni pubbliche e private impone risposte altrettanto diffuse e sistematiche. Risposte che in primo luogo devono operare sul livello strettamente politico, dal momento che solo rappresentanti e organi rappresentativi onesti e rispettosi delle regole basilari dell’etica pubblica potranno operare come guida di una comunità politica sana. Su questo versante, la vera sfida alla corruzione è di matrice preventiva. La corruzione va prevenuta imponendo trasparenza e incentivando il controllo dal basso. Devono, ad esempio, essere pubbliche (consultabili su un sito internet gestito da un ente terzo) le entrate e le uscite economiche dei partiti, delle fondazioni politiche e dei comitati elettorali. Va prevenuta con un investimento serio dei Partiti politici, e certamente del Partito Democratico, sulla primazia della legalità e della dignità dei rappresentanti su ogni altro valore concorrente. La politica deve operare le proprie scelte prima ed indipendentemente dall’accertamento giudiziario, perché si fonda prima di tutto sul patto fiduciario con gli elettori.
Per intervenire nel segmento delicatissimo delle relazioni cittadino-pubblica amministrazione, si devono rafforzare gli strumenti di contrasto e incentivare ulteriormente le pratiche di denuncia, indispensabili per far emergere l’enorme sacca di corruzione “nascosta” che attanaglia il sistema, regolamentando – in modo sempre più rigoroso – i conflitti di interesse. È necessario che un apposito Osservatorio nazionale proceda a un censimento analitico dei casi di corruzione emersi, anche nella prospettiva di agire sugli snodi procedurali in cui si è radicata la pratica corruttiva, e una banca dati nazionale sulle statistiche giudiziarie per i reati contro la PA con una dimensione temporale, aggiornabile e aperta al pubblico. Nell’ambito delle relazioni con la pubblica amministrazione si registra, inoltre, uno degli snodi più delicati in materia: le procedure di assegnazione degli appalti, sempre più inquinate dalla criminalità organizzata. Gli strumenti di contrasto su quest’ultimo versante vanno ovviamente inseriti nella più generale azione di prevenzione e repressione delle infiltrazioni mafiose. A questo obiettivo possono concorrere “white list” di operatori economici dotati dei necessari requisiti di moralità professionale, condizionando l’aggiudicazione degli appalti – anche nel privato – al rispetto di detti requisiti.
La corruzione va, infine, contrastata sul versante sanzionatorio. Sono ovviamente molti gli interventi di dettaglio che (anche) su questo versante vanno calibrati, ad iniziare dal rafforzamento dei cd. reati-spia della corruzione (si pensi al falso in bilancio).
Si impone un cambio di prospettiva: se la corruzione è un fenomeno dalla marcata dimensione economica, allora è anche sul terreno della opportunità economica (oltre che attraverso la minaccia della sanzione detentiva) che va disincentivato e sanzionato. Anche in questo caso alcuni dati (poco valorizzati) definiscono la portata della patologia e possono aiutarci a comprenderla e contrastarla: nel 2011, nella voragine di danno erariale determinato dalla corruzione lo Stato ha recuperato appena 75 milioni di euro. Una cifra irrisoria. Nell’87% delle condanne inflitte nei procedimenti penali iscritti tra il 1982 e il 2002 per i reati di corruzione e concussione è stata determinata una pena inferiore ai due anni, quasi sempre non eseguita perché soggetta al beneficio della sospensione condizionale della pena.
Infine, secondo gli osservatori del Greco, la principale causa di ineffettività nella risposta sanzionatoria al fenomeno corruttivo nel nostro Paese è rappresentata dalla disciplina della prescrizione: una tagliola che vanifica la maggior parte dei procedimenti penali per reati contro la Pubblica Amministrazione. Se allora le sanzioni sono ineffettive e la capacità di recupero del danno arrecato quasi nulla, va da sé che la minaccia portata dallo Stato contro chi viola la legge è non credibile, se non dannosa. Il sistema va, allora, radicalmente ripensato. Da un lato, va riformata la disciplina complessiva della prescrizione, distinguendo un termine di prescrizione sostanziale che operi fino all’esercizio dell’azione penale da un termine di prescrizione processuale che decorra dall’esercizio dell’azione stesso con una più razionale distribuzione e un complessivo prolungamento dei termini di accertamento dei reati. Dall’altro, è necessario rafforzare le sanzioni disciplinari che hanno una ricaduta economica spesso rilevante sul reo e soprattutto introdurre e garantire l’effettiva applicazione di severe sanzioni pecuniarie (oggi assenti) agganciate alla rilevanza del prezzo e del profitto del reato, alla cui ottemperanza subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena. È fondamentale che l’ordinamento penale garantisca una sanzione pecuniaria effettiva, rapida e agganciata a moltiplicatori legati alla gravità della condotta in grado di determinare un effetto di deterrenza aggiuntiva rispetto alla pena detentiva. Solo così una scommessa illecita come la corruzione, oggi troppo spesso vincente sul piano economico, potrà divenire una scommessa molto rischiosa (e realmente sanzionata) domani.
I conflitti d’interesse
Tra le urgenze della politica italiana vi è certamente quella di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, nei partiti politici e nei loro rappresentanti. Il rapporto di fiducia si è rotto per vari motivi tra i quali certamente i numerosi esempi di malcostume e più in particolare di utilizzo della “cosa pubblica” (cioè di tutti) per gli interessi di qualcuno (a partire dai propri). Se, prima di pensare a “mega-riforme” della Costituzione, si fosse data adeguata attuazione alle sue disposizioni, una normativa sul conflitto d’interessi, in Italia, esisterebbe da tempo, da molto prima che emergesse il conflitto d’interessi di Berlusconi, che è indubbiamente il più macroscopico, ma certo non l’unico. Tuttavia, l’emergere di un caso così evidente ha reso sostanzialmente impossibile risolvere una questione che negli Stati Uniti – per citare l’ordinamento meglio attrezzato in materia – hanno cominciato ad affrontare dai tempi di Washington.
L’Italia si è dotata di una legge sul conflitto d’interessi solo nel 2004. Si tratta della “legge Frattini” (approvata su proposta del II Governo Berlusconi), che la Commissione di Venezia (organo del Consiglio d’Europa), nel parere n. 309/2004 del 13 giugno 2005, ha chiaramente definito inadeguata, invitando le autorità italiane a «trovare una soluzione appropriata». L’invito è caduto nel vuoto. Un intervento, quindi, assume ormai carattere di urgenza, anche perché «con il conflitto d’interessi si mangia». Infatti, l’etica pubblica è il presupposto per poter svolgere efficacemente l’azione di governo; al contrario, l’assenza di regole certe e chiare di etica pubblica determina una dispersione della medesima azione. Ormai pare ampiamente dimostrato, infatti, che la corruzione ed i diffusi conflitti di interessi allontanano gli investitori dall’Italia e che questo certamente acuisce la crisi economica in atto.
Quali dovrebbero quindi essere le modalità di intervento? Deve essere riaffermata l’idea per cui chiunque svolga una funzione pubblica (politica e non) deve farlo senza essere condizionato da propri interessi privati. Per garantire questo devono essere previsti idonei strumenti di prevenzione. È ancora una volta la logica preventiva l’unica che può davvero funzionare in questa materia perché soltanto evitando che il titolare della carica o dell’ufficio pubblico possa agire in conflitto d’interessi si può davvero garantire il buon funzionamento dell’azione pubblica e mantenere la fiducia dei cittadini nel fatto che la stessa sia davvero portata avanti (esclusivamente) nell’interesse generale.
I punti fondamentali di un’efficace disciplina in materia consistono quindi in una definizione del conflitto di interessi come situazione in cui chi è incaricato di rappresentare interessi pubblici ha (o rappresenta anche) interessi privati potenzialmente confliggenti con i primi; nella individuazione dei soggetti a cui applicare la disciplina: i membri del Governo, il Presidente della Repubblica e – con modalità e limiti diversi – i parlamentari, oltre che i membri delle Autorità indipendenti, i titolari di cariche pubbliche a livello regionale e degli enti locali (naturalmente la disciplina dovrebbe essere parzialmente differenziata a seconda dei diversi ruoli e livelli istituzionali); nella predisposizione di strumenti di prevenzione del conflitto di interessi, attraverso un sistema concreto e graduato che va dall’obbligo di astensione (nel caso in cui il conflitto emerga del tutto sporadicamente) all’incompatibilità (quando dell’interesse privato si ha non la titolarità ma la rappresentanza) all’obbligo di alienazione o di istituzione di un blind trust, assistito da garanzie di piena cecità sull’esempio della disciplina nordamericana; nella previsione di misure sanzionatorie efficaci nei casi in cui vi siano state violazioni delle regole di prevenzione; nel conferimento dei compiti di individuazione delle misure da adottare e della vigilanza sul rispetto delle stesse ad un’autorità terza.
Essere italiani
Oggi in Italia vivono quasi 5 milioni di persone di origine non italiana: lavoratori e lavoratrici, famiglie, bambini, giovani. Di questi più di 1 milione sono nati e cresciuti in Italia ma continuano ad essere censiti alle anagrafi come immigrati o stranieri, malgrado non abbiano compiuto alcuna scelta migratoria e crescano sentendosi italiani di fatto ma non di diritto.
L’Italia è un Paese dalle identità plurali e diversificate. Prendere atto della pluralità della società italiana dal punto di vista culturale, religioso, sociale, di stili di vita, di scelte individuali e collettive significa permettere l’ingresso in una modernità capace di riconoscere la diversità come elemento di ricchezza, di crescita civile e di uguaglianza sostanziale e non soltanto formale. Significa declinare i termini dell’identità nazionale in modo meno banale di quanto non sia successo in questi decenni, nei quali l’italianità di maniera è stata brandita come elemento divisivo tra un “Noi” e un “Loro” che offende e brutalizza la nostra storia culturale, segnata dalla diversità e dalla pluralità dalle sue origini e dall’intreccio continuo tra identità locali e incontro con le culture differenti.
Il mondo dell’immigrazione è composito e differenziato, solo in parte in condizioni di marginalità. Gli immigrati fanno impresa, studiano, investono nell’istruzione dei propri figli, partecipano attivamente alla vita civile e sociale dei territori dove abitano, producono cultura.
Un Paese nel quale stanno crescendo giovani italiani, figli dell’immigrazione, che si sentono appartenenti al luogo in cui vivono senza però venga loro riconosciuto, a livello nazionale, la stessa opportunità data ai loro coetanei. I figli dell’immigrazione, nati in Italia o ricongiunti ai loro genitori, scoprono a 18 anni di essere stranieri. Eppure la loro vita, i loro legami affettivi e sociali, la loro cultura e i loro percorsi educativi e di istruzione sono italiani.
Il 9% del gettito fiscale è assicurato dalle tasse dei lavoratori non italiani. La crisi economica e l’aumento della disoccupazione hanno colpito in questi anni maggiormente i lavoratori non italiani che spesso si sono trovati, in assenza di ammortizzatori sociali per i quali avevano comunque contribuito con il loro lavoro, a entrare in una situazione di precarietà, ricattabilità e fragilità del loro percorso migratorio.
Il carico del governo dei fenomeni di interazione, convivenza e inclusione dei nuovi italiani in questi anni è stato prevalentemente assunto a livello locale dove si sono sperimentati modelli e buone pratiche significative e importanti. Sono stati i comuni italiani, prevalentemente quelli governati dal centro-sinistra, che hanno sperimentato forme innovative di integrazione tra popolazioni autoctone e migranti, hanno investito nei processi educativi, hanno sostenuto e implementato servizi dedicati e politiche pubbliche locali per affrontare e governare un fenomeno che ha cambiato il volto dei nostri territori.
A fronte di un territorio che, a macchia di leopardo, ha sviluppato buone pratiche a livello nazionale non si sono sviluppate, conseguentemente, buone politiche. Al contrario spesso il livello locale ha supplito alla mancanza di risorse nazionali, soprattutto dal 2008 in poi, ha surrogato la mancanza di investimenti o la voluta volontà di rendere inaccogliente e ostica la vita dei non italiani anche quando erano in condizioni di normalità e di inserimento nel tessuto locale da tempo.
È indispensabile una svolta culturale e legislativa che consenta di affrontare un fenomeno ormai strutturale e consolidato fuori dalle logiche della continua emergenza, securitaria e miope, che hanno caratterizzato l’impianto normativo e il dibattito politico negli ultimi anni.
È indispensabile che il ridisegno della politica d’immigrazione e asilo a livello nazionale sia inserita nel quadro europeo, traendo dal contesto comunitario le migliori e più avanzate pratiche e politiche e nello stesso tempo agendo insieme alle altre forze progressiste e al Pse per modificare e avviare una politica europea su nuove basi. L’Unione Europea ha ormai acquisito competenza legislativa in materia di immigrazione ed asilo esercitandola adottando direttive e regolamenti che i Paesi Membri hanno trasposto nel loro ordinamento nazionale. Il contesto, oggi, è cambiato e il Pd deve partecipare alla riflessione avanzata che i partiti progressisti e socialisti in Europa stanno conducendo nei confronti di una politica comune di ingresso e soggiorno e promozione della mobilità, non solo sul piano della “difesa delle frontiere” quanto piuttosto come risposta lungimirante alla più grave crisi economica dal dopoguerra e alla sfida demografica contemporanee. L’Europa, così come l’Italia, è un continente dalle identità plurali non soltanto per la sua storia ma anche grazie alla presenza di popolazioni provenienti da altre parti del mondo. Una politica di immigrazione comune deve ridefinire il contesto europeo come spazio di cooperazione, scambio e relazione, promotore di sviluppo economico e sociale, di processi di democratizzazione e di apertura verso l’esterno.
Un sistema comune di asilo. La politica italiana di asilo, in assenza di una legge organica e di una trasposizione carente della normativa europea, risente di contraddizioni e di una gestione inefficace e emergenziale del fenomeno. Questo è ancora più evidente dalla recente gestione della cosiddetta “emergenza Nord-Africa” in seguito alle rivoluzioni arabe che ha sostanzialmente demandato alle Regioni ed agli Enti locali la presa in carico dei rifugiati dopo una gestione nazionale quanto meno discutibile sul piano delle risorse, dei tempi e delle modalità di intervento. Ci vuole una legge organica sul diritto di asilo e che concorra, all’interno della Ue, a una revisione e aggiornamento della politica comune sul tema.
Le politiche di integrazione non sono di competenza europea, ma l’Unione Europea ha svolto in questi anni un ruolo di sostegno e dialogo tra le realtà europee più attive sul piano dell’inclusione, l’integrazione e la coesione sociale. Ha sostenuto buone pratiche a livello locale malgrado non sia riuscita a promuovere una riflessione più ampia sul concetto di cittadinanza europea in modo da gettare le basi, anche negli Stati membri, per una maggiore uniformità legislativa in merito.
A ciò Istituzione di un corridoio umanitario e creazione di canali comuni di emigrazione legale di concerto con le agenzie specializzate dell’Onu.
Un’immigrazione finalmente regolare e regolata
Il Partito Democratico, nel solco di queste riflessioni, deve farsi portatore di una cultura e di una azione politica che riconosca l’immigrazione come elemento strutturale, ordinario e costitutivo del cambiamento in atto nella società italiana.
«Essere oggi contro una società multiculturale è come vivere in Alaska ed essere contro la neve», scriveva W. Faulkner parlando degli Stati Uniti negli anni Cinquanta. L’Italia è da tempo una società multiculturale: riconoscerlo fondando le azioni di governo del fenomeno sui principi di uguaglianza nei diritti e nei doveri, di giustizia sociale e di inclusione significa costruire una società più giusta e più equa per tutti, compreso per chi oggi si sente più impaurito e spaventato dal cambiamento. Il contrario del termine integrazione è disintegrazione: oggi si tratta di vivere in Alaska e di affrontare il cambiamento sapendo che viviamo immersi nella neve.
Dal punto di vista normativo è urgente e importante superare la legge Bossi-Fini e il ‘pacchetto’ Berlusconi-Maroni caratterizzati entrambi da un’impostazione esclusivamente securitaria che ha comportato spesso il non rispetto del diritti umani fondamentali hanno alimentato sacche di sfruttamento e di irregolarità. Nuove modalità per l’ingresso per lavoro, per l’assorbimento e la prevenzione dell’immigrazione irregolare, per il contrasto all’immigrazione clandestina soprattutto rispetto a chi sfrutta e specula sulla vita delle persone, per nuove e finalmente efficaci politiche di integrazione e convivenza.
L’attuale normativa rende quasi impossibile entrare regolarmente in Italia alimentando sacche di lavoro nero, sfruttamento e criminalità che nuocciono al sistema sociale ed economico nel suo complesso. Si deve incidere sulla programmazione e la revisione delle procedure in modo da promuovere l’ingresso regolare, favorire l’integrazione e la coesione sociale. È inoltre necessario ampliare la durata del permesso di soggiorno, trasferire la competenza del rilascio agli Enti Locali, sburocratizzare e rendere meno onerosa, sia dal punto di vista procedurale sia economica, la permanenza regolare dei migranti sul territorio italiano. Per valorizzare il capitale umano dei migranti è indispensabile rendere più agile il riconoscimento dei titoli di studio, la possibilità di iscriversi agli ordini professionali se in possesso dei titoli, la possibilità di entrare nelle politiche attive del lavoro come lavoratori qualificati.
L’attuale normativa non solo non ha impedito l’arrivo in Italia di migranti in condizioni di clandestinità, alimentando sfruttamento e economia sommersa, ma ha anche creato condizioni di precarietà a chi, in Italia da molti anni regolarmente, ha visto cambiare le sue condizioni lavorative anche a causa della crisi economica e della perdita di occupazione. La ricattabilità dei migranti irregolari ha alimentato una concorrenza sleale dei datori di lavoro nei confronti di lavoratori regolari (meno diritti, meno retribuzione più ricattabilità).
È quindi necessario prevedere l’introduzione della figura dello sponsor, la possibilità di concedere regolarizzazioni ‘dedicate’ sulla base di requisiti più flessibili (reddito e lavoro stabile, collegamenti familiari, durata del soggiorno, assenza di condanne penali), oltre che la concessione per motivi umanitari come previsto dalla normativa sull’asilo. Occorre rivedere la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni in materia di immigrazione, superando il cosiddetto, abominevole “diritto speciale dello straniero” che ha caratterizzato la stagione dell’ultimo governo Berlusconi.
È ineludibile il superamento definitivo dei Cie, a oggi luoghi di sospensione dei diritti che, oltretutto, hanno assorbito ingenti risorse pubbliche che sarebbero state più efficacemente utilizzate per politiche di integrazione a livello territoriale.
Ci vuole poi una nuova disciplina per l’acquisizione della cittadinanza: lo ius soli per i figli dell’immigrazione e abbassamento del periodo di residenza in Italia per l’ottenimento da parte degli immigrati di prima generazione. La legge sull’ottenimento della cittadinanza è figlia di una stagione storica in cui l’Italia, terra di emigrazione, riconosceva un diritto di sangue ai discendenti dei milioni di emigrati italiani in altri continenti e concedeva la possibilità di richiedere la cittadinanza ai non italiani con tempi e modalità complesse e molto lunghe. Già quando fu approvata, nel 1992, appariva vecchia e datata. Oggi questa legge è anacronistica, obsoleta e non risponde più alla realtà sociale in atto. I tempi di acquisizione della cittadinanza da parte della prima generazione sono incerti: oltre ai 10 anni di residenza e la continuità del reddito, le pratiche per la concessione richiedono in media 3/4 anni, diventando una vera e propria corsa ad ostacoli che precarizza e rende difficile l’ottenimento di diritti riconosciuti formalmente ma rinviati nella sostanza. Malgrado questo le naturalizzazioni sono in costante aumento ogni anno rendendo ormai di fatto l’immagine di un Paese multiculturale, multireligioso, composto da storie individuali e collettive differenti e plurali.
La cittadinanza italiana per i figli dell’immigrazione, nati o cresciuti in Italia, è un elemento indispensabile e ormai urgente per offrire pari opportunità sostanziali ai giovani italiani di fatto ma non di diritto. Più di un milione di giovani sono in questa situazione: nascono e crescono in Italia, compiono il loro percorso di vita, educativo, scolastico, affettivo e sociale in Italia ma continuano a essere trattati dal punto di vista giuridico come “appena arrivati”. In questi anni molte sono state le iniziative, le campagne sociali, le proposte di legge presentate in Parlamento. Spesso sono stati i Comuni e le associazioni a richiedere un cambiamento profondo della legislazione in materia a dimostrazione del fatto che la realtà concreta, i territori, le reti sociali vivono di fatto un contesto maturo nel quale il livello di interazione, scambio, convivenza sono naturali ed ovvi nonostante un quadro giuridico che ostacola e irrigidisce il processo.
Perciò si deve introdurre il diritto di voto alle elezioni amministrative. Partecipare alla vita politica e civile del territorio in cui si vive, in cui si pagano le tasse, in cui si usano i servizi e le opportunità significa valorizzare e responsabilizzare le risorse sociali di cui gli immigrati sono portatori. Per le stesse ragioni, si deve dare piena attuazione al diritto costituzionale alla libertà religiosa.
Educazione interculturale, competenze linguistiche, azioni di sostegno ai processi educativi e di istruzione, politiche di rigenerazione urbana e territoriale: le nostre società locali stanno cambiando profondamente i loro connotati fisici, economici e sociali sono in continuo mutamento. Le esperienze di interazione e costruzione di comunità coese, quando ci sono state, sono state avviate dagli enti locali ed in modo spesso affaticato dal taglio delle risorse e dal sostanziale depauperamento del Fondo nazionale per l’Integrazione, che va ripristinato nelle funzioni per il quale è stato previsto.
I diritti di tutte e di tutti
Inutile provare a dare definizioni o cercare un momento in cui posizionare l’inizio delle discussioni sui diritti, di qualsiasi diritto, Stefano Rodotà spiega bene come questi siano sempre esistiti e solo le continue mutazioni delle società portano al centro della discussione politica di volta in volta la loro analisi e conseguentemente la necessità della loro “gestione”. La laicità è uno dei principi fondanti del nostro Stato, definito «supremo» dalla Corte Costituzionale. Eppure questo principio “semplice” proprio nel campo dei diritti civili sembra essersi smarrito. I diritti fondamentali sono diventati terreno di lotta, di contrapposizione tra visioni diverse che ne allontanano sempre di più la loro applicazione, mentre alle istituzioni è richiesta equidistanza rispetto a scelte morali o ideologiche.
Diverso è il discorso da affrontare quando si parla di Famiglie Lgbt, ovvero realtà di convivenza stabile per motivi affettivi di persone dello stesso sesso. E diverso, o meglio da approfondire ancora di più, il discorso sulle Famiglie Lgbt in cui sono presenti figli e/o con desiderio di mettere al mondo figli. Considerare che l’amore tra due persone sia un’esperienza fondamentale risulta una condizione essenziale che ciascun Paese europeo, laico e democratico, che garantisce i propri cittadini lottando contro ogni forma di discriminazione.
Nell’ultimo anno sono stati fatti ulteriori passi avanti verso l’uguaglianza dei diritti; nuovi paesi, come Danimarca, Francia e Regno Unito si sono aggiunti a quella lista crescente di paesi che riconoscono i matrimoni egualitari, mentre nel resto del mondo l’elenco si allunga con l’aggiunta di alcuni stati americani e la Nuova Zelanda. L’Italia non deve essere da meno. E il Pd, partito che si considera riformista e progressista, non può esimersi da una battaglia di civiltà.
Già la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 138 del 2010, ha riconosciuto la rilevanza costituzionale delle Famiglie Lgbt, poiché siamo di fronte a una delle «formazioni sociali» di cui parla l’art. 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Sono parole impegnative: un «diritto fondamentale» attende il suo pieno riconoscimento. Non è ammissibile, dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le persone di diritti costituzionalmente garantiti.
È compito quindi del partito farsi carico di promuovere alla riforma globale del diritto di famiglia, al fine di riconoscere nuove famiglie e regolamentarne le diverse forme di relazioni affettive, sposando cosi una nuova prospettiva culturale che ruota intorno al concetto di amore civile e garantendo a tutti quei soggetti esposti a discriminazioni sociali, giuridiche, politiche ed economiche i loro diritti di vivere ed esprimersi nella propria peculiarità.
In una società continuamente in evoluzione risulta essenziale ricontestualizzare e la famiglia nelle sue forme plurali, laddove le caratteristiche fondamentali che l’hanno contraddistinta per molto tempo (procreazione, legame di parentela e rapporto coniugale) sono messe in discussione, in quanto non più necessariamente coincidenti con la realtà del nostro Paese. E quindi si possono ridisegnare le situazioni familiari, aggiungendo alla situazione comunque maggioritaria di eterogenitorialità, altre forme quali la monogenitorialità – un genitore ed un figlio – l’omogenitorialità, ovvero quella famiglia in cui almeno uno dei genitori si definisce omosessuale ed altre possibili combinazioni di varianti familiare allargate.
In Italia, questo tema risulta complicato, se non incomprensibile e difficile da gestire anche per mancanza di qualsiasi regolamentazione giuridica in caso di coppie omosessuali col rischio di spingerle a vivere una clandestinità sociale. Quando all’interno della coppia esistono uno o più figli, la situazione si complica, contravvenendo anche a quanto affermato nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Attualmente in Italia secondo stime provenienti dall’Istituto Superiore di Sanità, sono circa centomila i bambini e i ragazzi cresciuti da genitori dello stesso sesso per le quali non c’è nessuna giurisprudenza né legislazione adeguata.
Genitori omosessuali che, ancora oggi, vivono l’omogenitorialità clandestinamente, si sentono ostacolati e boicottati nel diritto di costituire un nucleo familiare, umiliati nella loro condizioni ed esposti, loro e soprattutto i propri figli ad attacchi di varia natura. Al di là delle varie ricerche scientifiche che evidenziano quanto l’orientamento sessuale dei genitori non incide necessariamente sullo sviluppo “sano” ed equilibrato dei loro figli, risulta necessario sanare quindi il vuoto giuridico-normativo per difendere il diritto di amare la persona che si è scelti, per avere il diritto di creare una propria famiglia e per difendere la composizione “diversa” della stessa.
Per questo motivo il Partito democratico, per difendere il diritto ogni persona ad essere libera di vedere riconosciuto il proprio status e la propria autodeterminazione come individuo e nelle relazioni affettive), vuole impegnarsi a: estendere il matrimonio civile alle coppie formate da persone dello stesso sesso come sollecitato dalle sentenze 138/2010 della Corte Costituzionale e dalla 4184/2012 della Corte di Cassazione e a riconoscere pubblicamente delle unioni civili per coppie dello stesso sesso o di sesso diverso, attraverso una normativa differente da quella del matrimonio.
Il Pd vuole poi impegnarsi affinché sia prevista l’estensione al partner o al genitore non biologico della co-responsabilità sul minore e l’estensione della possibilità di adozione a persone singole o alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
Autodeterminazione
È fondamentale dare attuazione al dettato costituzionale e in particolare a quanto stabilito dall’art. 9 e dall’art. 32.
Il nostro punto di riferimento devono essere questi ultimi in particolare quando si affrontano discorsi su autodeterminazione e su diritto alla speranza e/o all’ottenimento di cure. In particolare il diritto all’ottenimento delle cure – anche quando non garantiscano il risultato, ma lo sperimentano e pongono le condizioni per conseguirlo – non deve essere ignorato.
Vogliamo impegnarci a promuovere la ricerca sulle cellule staminali embrionali, entro i limiti e i controlli della legge, poiché solo attraverso la loro capacità di propagarsi, di generare ciò di cui l’organismo ha bisogno o riparare qualora esista un danno, possono conseguire importanti risultati nella ricerca di cure o nel miglioramento delle condizioni di vita di migliaia di malati. Pertanto, a proposito della legge n. 40 del 2004 il superamento di essa deve riguardare quindi l’utilizzo degli embrioni. Vogliamo che la scelta di campo del partito sia la tutela della salute.
Vogliamo impegnarci a promuovere il testamento biologico. L’art. 32 pone un limite preciso, la legge che impone un determinato trattamento sanitario, non può calpestare la dignità umana. Scegliere autonomamente quando e come l’accanimento terapeutico debba fermarsi, deve essere prerogativa di ogni individuo.
Vogliamo impegnarci per eliminare dal servizio sanitario nazionale i confini assistenziali di tipo economico, etnico-razziale e sessuale: l’assistenza sanitaria e la salute sono doverosamente offerte e promosse per tutte le cittadine e i cittadini, il suo carattere universalistico si fonda su un riconoscimento indiscriminato di diritti e assistenza.
La questione maschile
La formula ottocentesca “questione femminile” va radicalmente rovesciata. Esiste nel nostro Paese una tenace “questione maschile” che produce iniquità, ingiustizie e violenze e che rallenta lo sviluppo del Paese, che ne dimezza le potenzialità impedendo allo sguardo femminile di applicarsi alla globalità dei problemi e di prendere parte alla formazione delle decisioni pubbliche. Alle cittadine di questo Paese è consentito unicamente esercitarsi politicamente e in modo autodifensivo su tematiche ritenute “femminili” – dalla fecondazione assistita, all’aborto, alla violenza e al femminicidio –, questioni che invece hanno direttamente a che vedere con la sessualità e i modelli maschili.
La legge 40 sulla fecondazione assistita è certamente ingiusta e va cambiata, consentendo indagini pre-impianto sugli embrioni di coppie portatrici di malattie genetiche in conformità a quanto sancito dalla Carta Europea dei diritti dell’uomo. Ma l’ingiustizia va in gran parte ricondotta a una concezione maschile della donna come mero contenitore di embrioni, nonché merce di scambio ideologico. Vanno inoltre adottate tutte le misure necessarie alla prevenzione dell’infertilità maschile e femminile, in gran parte riconducibili alla ricerca tardiva dei figli a causa di un’organizzazione maschile del lavoro che punisce le madri con dimissioni in bianco, licenziamenti, interruzioni di carriera. Una diversa organizzazione, che tenga conto del pensiero delle donne sul lavoro, e un’autentica considerazione del valore sociale della genitorialità è il miglior presidio contro l’aumento dei casi di infertilità.
La non applicazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza e lo smantellamento dei consultori corrispondono a logiche di carriera ospedaliera, con aumento vertiginoso dell’obiezione di coscienza e alla salvaguardia degli interessi della sanità privata. Per il Pd è tempo di far sentire la propria voce su questi temi per migliorare la diffusione di informazioni sulle misure di contraccezione, anche attraverso corsi di educazione e informazione sessuale nelle scuole, finalizzate a una condivisione della responsabilità procreativa da parte degli uomini; di potenziare e modernizzare la proposta dei “vecchi” consultori familiari; di garantire l’applicazione su tutto il territorio nazionale della legge 194/1978, anche stabilendo una percentuale di personale non obiettore nelle unità ginecologiche degli ospedali pubblici.
Quanto alla violenza sulle donne e all’aumento dei casi di femminicidio, ciò costituisce la prova più evidente dell’esistenza di una “questione maschile” e della persistenza di una mentalità patriarcale che nella maggiore libertà delle donne non vede un’opportunità per tutti, ma solo un’insostenibile minaccia. La violenza non può essere affrontata solo con provvedimenti di ordine pubblico e di sicurezza. Il Pd deve porsi in ascolto della decennale esperienza dei centri e delle associazioni antiviolenza, destinando adeguate risorse a queste realtà, promuovendo interventi di sensibilizzazione nelle scuole e nelle Università, cambiando e certificando i libri di testo che continuano a tramandare modelli rigidi e fuori tempo, sulla base dei quali alunni e alunne formeranno le loro rispettive identità di genere e le loro relazioni; promuovendo una formazione delle forze dell’ordine e di tutto il personale addetto; destinando parte delle risorse all’accompagnamento e alla terapia degli stalker e dei sex offender per prevenire l’escalation delle violenze fino al femminicidio.
Nonostante numerosi studi evidenzino una correlazione positiva tra occupazione femminile e Pil, (Goldman Sachs stima che la parità porterebbe a un incremento del Pil del 22 per cento) è soprattutto alle donne che il mondo del lavoro fa pagare il prezzo della crisi, ostacolandone l’ingresso, relegandole nei settori meno qualificati, mantenendo il gap salariale, obbligandole alle dimissioni in bianco e a rinunciare al lavoro per motivi familiari, costringendole al ruolo di “welfare vivente” per sopperire alla cronica e crescente carenza di servizi, sottoutilizzando le più scolarizzate (il 56% dei laureati in Italia sono donne e l’Ocse calcola che nel 2020 saranno il 70%), resistendo fortemente alla femminilizzazione dei board: ecco un’altra faccia dell’irriducibile questione maschile nel nostro Paese, direttamente correlata alle sue molte arretratezze. Controprova: il trend positivo, nonostante la crisi, delle imprese create e gestite da donne, che rispondono in modo autonomo alla chiusura del mondo del lavoro pur trovandosi a dover superare numerosi ostacoli, come il più difficile accesso al credito nonostante le donne siano mediamente più solvibili degli uomini.
Il Pd deve assumere con decisione il tema del welfare, intendendolo come un servizio alle persone e alle famiglie e non alle donne; deve promuovere per tutti, donne e uomini, forme di dis-organizzazione del lavoro – dalla flessibilizzazione alle postazioni in remoto – che rendano più prossimi lavoro e vita; deve rimuovere gli ostacoli al credito per le donne, legati a superstizioni maschiliste, e introdurre una struttura della tassazione che incoraggi il ricorso al lavoro femminile; deve estendere i congedi obbligatori anche per i padri.
Più in generale, il Pd deve assumere e fare fronte alla crisi di quella soggettività maschile, attorno alla quale la società ha fin qui costruito il modello di sviluppo politico, sociale e culturale. E deve in ogni modo favorire la partecipazione delle donne alla vita pubblica, non pretendendo di inquadrarle nella rigidità delle strutture maschili, ma intendendole come portatrici di irriducibile differenza e promotrici di quel cambio di civiltà politica di cui la nostra democrazia affaticata ha estremo bisogno. Mai più senza le donne.
Un cambio di approccio e di sistema per la disabilità
Il sistema italiano di tutela dei diritti delle persone con disabilità è anacronistico e iniquo: si fonda sulla capacità lavorativa che è un concetto astratto se portato fuori dal rapporto fra l’individuo e il singolo posto di lavoro. Lo strumento dell’invalidità civile lascia alla figura medica la definizione di quali strumenti sono quelli adeguati alla persona. L’arbitrarietà è del tutto evidente (come peraltro dimostrato nel fenomeno dei falsi invalidi assunti nei posti di lavori prevalentemente pubblici con le quote di riserva), al pari dell’assenza di protagonismo delle persone con disabilità nella definizione del proprio progetto di vita e degli strumenti necessari alla propria inclusione sociale. La convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (2006) declina un nuovo approccio e un nuovo sistema fondato sul riconoscimento della discriminazione basata sulla disabilità, e, dato che la nuova norma di diritto internazionale è stata ratificata dal Parlamento italiano (2009), è necessario rifondare il sistema di accesso alle prestazione e benefici.
Siamo agli ultimi posti dell’Unione europea quanto a spesa assistenziale per le persone con disabilità, includendo quindi i Paesi ex cortina di ferro. Vi è poi la cronica incapacità di integrare le politiche (in particolare sociale e sanitario), poiché la domanda di servizi e prestazioni è vincolata al dominio dell’offerta dovuta da consorterie territoriali che privilegiano il rapporto fra pubblica amministrazione ed enti erogatori. Il combinato disposto è il “fai da te” del welfare fondato sul lavoro di cura delle donne madri, compagne, figlie o nuore o delle badanti. Vanno finanziati i fondi politiche sociali e non autosufficienza e vanno garantiti i livelli essenziali di assistenza sociali.
LA RIVOLUZIONE CULTURALE
Il differenziale di investimenti pubblici in sapere è lo spread più rilevante dell’Italia rispetto non solo all’Europa ma alla grande maggioranza dei Paesi dell’Ocse. In entrambe le graduatorie siamo ultimi o penultimi per la percentuale di spesa pubblica che va alla scuola, all’Università, alla ricerca, alla cultura, e in rapporto al Pil. E negli ultimi vent’anni lo spread è drammaticamente aumentato, proprio mentre tutti si riempivano la bocca con l’economia delle conoscenza, con la centralità del capitale umano e della ricerca e della cultura per la crescita economica. Peccato che in quegli anni il sapere divenisse il principale obiettivo dei tagli ai bilanci pubblici.
Un arretramento condito da retorica efficientista e meritocratica: basta con gli investimenti a pioggia, serietà, lotta agli sprechi, valutazione. Come se parlassimo di un altro Paese. E non di quello che spende meno di tutti, con i più alti tassi dispersione scolastica, con il minor numero di laureati, con un patrimonio culturale a rischio, con l’industria culturale e creativa che ha visto diminuire ogni giorno i finanziamenti, per il taglio congiunto nel bilancio delle Stato e dei trasferimenti agli enti locali. Eppure tutti i dati a nostra diposizione ci dicono che in tutti i Paesi del mondo gli investimenti privati in cultura formazione ricerca non sono mai sostitutivi di quelli pubblici, ma crescono e rallentano in relazione ad essi.
La parola più in voga quando si parla di istruzione è valutazione. Valutare è giusto e sensato. Ma ha senso se chi governa esplicita per che cosa si valuta. Se il fine è far crescere i livelli di istruzione degli italiani e l’investimento in istruzione, a far crescere l’insieme del sistema affrontando e risolvendo i punti di debolezza, oppure se mira a ridurre la spesa, a enfatizzare le eccellenze e abbandonare il resto al suo destino. La parola valutazione ha senso se va insieme alle parole programmazione e alla parola autonomia perché può essere valutato solo chi è messo in grado di scegliere e progettare il proprio percorso.
Per programmare, chi governa dovrebbe trarre profitto dalle indicazioni di sistema che già scaturiscono dalle valutazioni in corso. Ad esempio quelle celeberrime di PISA che analizzano i livelli di apprendimento dei ragazzi nei diversi paesi dell’Ocse. Ne emergono due cose. La prima è che i Paesi che hanno le punte più alte nell’apprendimento sono anche quelli che non lasciano indietro nessuno: l’uguaglianza è in una correlazione positiva con il merito, c’è più merito dove non c’è dispersione. La seconda è che l’Italia è il Paese con il più alto tasso di diseguaglianza: è quello cioè in cui i risultati scolastici dipendono dalla famiglia in cui si nasce, dal territorio in cui si vive, e da tipo di scuola che si frequenta, con differenze drammatiche tra il Centro Nord e il Sud del Paese.
Il Sud è anche la parte del Paese dove il livello di istruzione degli adulti è più basso, ce lo rivela l’indagine Piaac che analizza le competenze alfanumeriche degli adulti in tutti i Paesi dell’Ocse, dove i Comuni investono meno in cultura, dove ci sono meno biblioteche pubbliche, dove più bassi sono gli indici di lettura della popolazione, dove scarsissima è la presenza di asili nido e di scuole dell’infanzia, dove l’edilizia scolastica è più fatiscente.
Ne derivano due chiare priorità programmatorie: portare in tutta Italia la presenza di scuole dell’infanzia ai livelli previsti dalla Ue, perché è nella scuola dell’infanzia che si cominciano a contrastare i dislivelli dovuti ai diversi contesti famigliari, e implementare ovunque la formazione permanente, sia a livello professionale, che per contrastare l’analfabetismo di ritorno, tanto più forte dove mancano occasioni per lo sviluppo culturale della popolazione. E portare ovunque il tempo pieno, che non è il semplice prolungamento dell’orario scolastico, ma è una scuola capace di valorizzare le diverse capacità dei bambini e dei ragazzi. Perché è proprio la precoce gerarchizzazione delle intelligenze che si prolunga nel tempo a far perdere di valore all’istruzione tecnico professionale rispetto a quella umanistica e scientifica, e a svuotare di valore culturale il lavoro artigiano, l’intelligenza delle mani. Compito dell’istruzione non è solo quello di fungere da ascensore sociale, ma è anche quello di valorizzare l’intelligenza e il sapere che c’è nel lavoro di tutti. Altrimenti è inutile poi lamentarsi della fuga dei giovani dal lavoro artigiano e dal lavoro operaio.
Per far questo c’è bisogno dell’autonomia scolastica. Ma è proprio l’autonomia che oggi è a rischio. Nella scuola continuano a diminuire gli insegnanti, mentre il numero degli alunni aumenta. Avevamo calcolato il risparmio degli insegnanti sulla base del calo demografico degli italiani. E ora le scuole si popolano di tanti nuovi alunni di tanti colori e di tante lingue diverse. Che richiedono nuove attenzioni, un nuovo modo di insegnare, di portare nella scuola la musica, la danza, le arti, i linguaggi che prima di ogni altro possono essere condivisi da bambini di lingue diverse e che farebbero tanto bene anche ai bambini e ai ragazzi italiani. Nei fatti cresceranno le classi pollaio quando ci sarebbe bisogno di strategie di accoglienza mirate e personalizzate.
La nostra società diventerà sempre più interetnica e interculturale. La scuola anticipa questo processo. E nonostante i tagli lo sta facendo bene. Con la fantasia, l’intelligenza, l’eroismo di tante maestre che hanno affrontato il problema di come formare i nuovi italiani. Tessendo legami con il territorio, con il volontariato, con tanti giovani artisti. Potendo contare a volte sul sostegno, sempre più difficile, date le difficoltà di bilancio, dei Comuni. E senza poter dire ai propri bambini e ai propri ragazzi che la cittadinanza che acquisiscono nelle aule diventerà cittadinanza anche nella loro vita futura.
Però, il crescere del rapporto fra docenti e discenti rischia di mettere a rischio proprio quella stessa autonomia: che doveva essere non la scuola azienda, ma la scuola comunità educativa, capace di costruire i propri programmi e le proprie metodologie didattiche sulla base dei concreti contesti territoriali in cui operava, che sapeva partire dalle facce, dai bisogni e dai desideri di chi popolava le sue aule. Cosa difficile quando gran parte degli insegnanti sono precari. Il precariato, qui e in tutti gli altri posti, è il contrario della flessibilità, se per flessibilità si intende la capacità di costruire la propria offerta didattica in vista della diversità di quelli a cui ci si rivolge, del mutare del contesto e delle tecnologie disponibili, e del successo formativo dei giovani cittadini che frequentano la scuola. Per coniugare uguaglianza e diversità. Ci vuole un progetto organizzativo che si costruisce nel tempo. Ci vogliono gruppi d’insegnanti e di personale tecnico e amministrativo affiatati e coesi. Ci vuole stabilità: solo la scuola dei programmi ministeriali e del registro di classe può servirsi dei precari. Solo le organizzazioni rigide e povere possono servirsi del lavoro usa e getta. La battaglia contro il precariato, nella scuola e oltre, non è solo lavoristica. Ha anche una dimensione culturale e sociale che va oltre i più che legittimi interessi dei giovani alla stabilizzazione: è la condizione di una scuola più dinamica, più accogliente, più aperta.
Pertanto è indispensabile valorizzare l’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sperimentazione: la scuola va considerata luogo di confronto e innovazione nel campo dell’insegnamento e apprendimento. Altrettanto importante è ripristinare e incrementare il fondo a sostegno dell’autonomia: se è positivo che i genitori concorrano e partecipino alle attività della scuola, è inaccettabile e viola i principi della gratuità e dell’uguaglianza delle opportunità che i contributi economici dei genitori diventino pressoché obbligatori per il funzionamento normale della scuola. E tutto questo mentre, a fronte dei tagli alla scuola pubblica, aumentavano negli stessi anni i finanziamenti alla scuola privata. È indispensabile definire uno standard nazionale dell’istruzione e garantire adeguati livelli di qualità omogenei sul territorio nazionale.
La legge italiana prevede che, se in classe c’è uno studente diversamente abile, non si possano avere più di 20 alunni in classe. Ma se la famiglia non la conosce e non minaccia il dirigente scolastico di rivolgersi ad avvocati, è disattesa. Per giudicare l’efficienza del sistema scolastico ci si affida alle crocette dei famigerati Test Invalsi, da cui gli studenti diversamente abili sono esclusi. Per paura che rovinino la media nazionale si finge che non esistano. E dire che prima del 2008 eravamo studiati in tutto il mondo per quello che facevamo a scuola con questi ragazzi. Eravamo non solo un esempio di civiltà, ma di contenimento economico dei costi: perché è provato che investire nella loro inclusione scolastica è un vantaggio anche economico.
Sono circa 204.000 i diversamente abili nella scuola italiana, il 4% del totale degli studenti. Uno su cinque (il 19,8%) ha un handicap grave e ha bisogno di essere aiutato nel mangiare o per spostarsi e andare in bagno. Il 7,8% non riesce a fare nessuna di queste tre cose. Alunni che richiedono un’assistenza costante e la scuola, sfigurata dai tagli al bilancio e al personale, non riesce più a darla: si è ridotto il numero delle ore di sostegno e dalle 22 settimanali previste si arriva alla metà. Quando non c’è il docente di sostegno, spesso il bambino è lasciato in solitudine nella classe. Le amministrazioni locali più virtuose affidano i diversamente abili a educatori di cooperative sociali senza preparazione specifica. A 6 euro l’ora, promuovendo per primi una forma di aziendalizzazione della scuola al ribasso. Una giusta premura che diventa un errore. Alla protesta delle mamme degli alunni disabili non si è unità l’indignazione e la solidarietà di altre madri, famiglie, istituzioni. Ognuno pensa ai propri figli, e così i figli di tutti ci rimettono. È necessario che la politica si occupi al più presto dell’integrazione scolastica degli studenti diversamente abili. In Europa non mancano esempi di metodologie efficaci che vanno dall’insegnamento all’apprendimento cooperativo alla formazione di gruppi eterogenei e buone prassi didattiche per ristrutturare il processo di apprendimento. L’Italia, tra i primi paesi ad aver attuato l’integrazione degli alunni disabili in classi regolari, non può oggi tornare indietro.
L’università che a poco a poco sparisce
Il movimento studentesco dell’Onda contestava la Legge Gelmini perché «finalizzata a legittimare i tagli al sistema universitario e a ridurre gli spazi di democrazia e partecipazione». Chi pensa che gli studenti siano ingenui dia uno sguardo nel 2013 all’università italiana. La spesa cumulativa per studente universitario è inferiore alla media Ocse e ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate; il corpo docente dell’università è diminuito del 22% negli ultimi dieci anni, e i corsi della medesima percentuale. Gli iscritti al primo anno delle nostre università sono diminuiti del 17% in dieci anni e si sono ridotti a 280.144 nel 2012. In compenso le tasse di iscrizione sono aumentate in media del 50%, passando da 632 a 948 euro per anno e diventando tra le più alte in Europa. Da ultimo, stabili da alcuni anni, abbiamo solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34° posto su 37 nazioni. Nel resto del mondo, invece, aumentano: in Corea del Sud hanno raggiunto il 64% nel 2011. Erano il 37% nell’anno 2000 e meno del 10% nel 1980. In Giappone sono il 59%, in Canada e in Russia sono il 57%, in Gran Bretagna il 47%, in Francia il 43%.
Crisi, finanziaria, crisi di immatricolazioni, crisi di senso e di autorevolezza dovrebbero rappresentare motivi di allarme nella politica e nell’opinione pubblica ma non è così. Non deve sorprendere che di fronte a questi dati molti opinionisti piuttosto che denunciarne la gravità per un Paese come l’Italia abbiano invece evidenziato come un problema la cosiddetta overeducation. Noi dobbiamo andare nella direzione opposta. Crediamo il nostro paese possa e debba aumentare il numero degli iscritti ma soprattutto dei laureati e che ciò sia possibile migliorando la qualità della nostra offerta universitaria e le opportunità per i nostri studenti.
Spesso quando si parla di università si parla soprattutto di spartizione di risorse, di cattedre e di carriere dei docenti. Anche qui è necessaria una rivoluzione copernicana: le università esistono perché ci sono gli studenti, e il loro primo obiettivo deve essere quello di formare i giovani, prepararli al futuro, metterli in grado di esprimere le loro potenzialità, e quindi di contribuire, da adulti, al progresso culturale, civile, ed economico del Paese. Per questo non possono esserci università di serie A (“research universities”) e di serie B (“teaching universities”), ma è necessario che tutte le università producano ricerca di buona qualità, condizione necessaria per fare didattica di buona qualità e che sia sempre aggiornata.
La costruzione di un vero welfare studentesco va immaginata come un sistema integrato di strumenti diversi per rispondere a esigenze diverse. Da un lato, per livellare le differenze socioeconomiche di partenza e garantire a tutti l’accesso alla formazione, va difeso il sistema di diritto allo studio legato al reddito familiare, fatto di borse, mense, alloggi, e ne va rivendicato il potenziamento. Dall’altro, per promuovere l’autonomia dalla famiglia, la libertà di autodeterminare i propri percorsi di vita e l’accesso alla cultura nel senso più ampio, servono strumenti universali come il reddito di formazione, composto sia da erogazioni monetarie dirette, sia da servizi e gratuità.
Serve per prima cosa una legge nazionale sul diritto allo studio che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle Regioni e in particolare l’entità minima garantita delle borse di studio. Bisogna garantire a tutti gli aventi diritto la borsa mettendo fine all’assurdità tutta italiana degli “idonei non beneficiari”.
La mobilità degli studenti è essenziale, e per questo si deve realizzare una convenzione tra università e trasporti sia urbani che extraurbani, immaginando in prospettiva un piano nazionale per la mobilità degli studenti. E servono soprattutto gli alloggi. Si deve mettere in campo un piano pluriennale di finanziamento straordinario per l’edilizia universitaria, che sostenga la realizzazione, tramite il recupero di determinate aree urbane, di nuove case dello studente e di alloggi pubblici a canone concordato. Servono inoltre contributi pubblici per gli affitti, sul modello francese, e iniziative, come lo sportello casa gestito da Università e Comune, in grado di favorire la lotta al sommerso.
L’Europa degli studenti è la migliore garanzia perché il futuro del nostro dei nostri Paesi sia meglio di questo presente. Un mondo flessibile, non precario, questo è quello di cui necessitano i giovani che, terminati gli studi, si affacciano al mondo della ricerca. Il dottorato di ricerca non può essere svolto senza borsa, perché è utile alla società quanto al dottorando. Ci vuole un percorso unico, e definito, per la transizione dal dottorato alla ricerca. Il periodo di post-doc deve essere regolato da contratti che siano di dipendente a tempo determinato e non può durare più di tre-quattro anni. Il dottorato di ricerca deve essere condizione necessaria per diventare ricercatore, e tra il post-doc e l’immissione in ruolo altro non può esserci altro che un contratto da ricercatore con tenure-track. Se il periodo di prova è valutato positivamente, il ricercatore ha il diritto di vedere trasformata la tenure-track in posto di ruolo. Sulla carta questo sarebbe previsto ma nella sostanza oggi nelle università non si assume nessuno e si licenziano i precari.
L’obiettivo deve essere un sistema didattico che consenta di aumentare il numero di laureati nel nostro paese. Da un totale di docenti e ricercatori di circa 60.000 unità nel 2008, si è scesi agli attuali 56.000 e le proiezioni indicano che scenderanno ulteriormente a 44.000 nel 2018. I precari sono circa 50.000. Questo sistema è contro gli studenti, oltre che contro docenti e ricercatori.
Sostenere la ricerca tutta significa anche permettere alla comunità scientifica di esprimere al meglio i propri talenti, significa che saremo capaci di attrarre ricercatori dall’estero e di far rientrare studiosi italiani emigrati: solo così l’Italia sarà in grado di migliorare la propria competitività in campo internazionale.
Il sistema attuale dimostra che i concorsi non sempre premiano i più meritevoli, anzi sono il miglior modo per consentire a chi decide l’immissione in ruolo (i membri delle commissioni) di poter scegliere il vincitore senza averne responsabilità alcuna. Per sconfiggere nepotismo, le clientele, i favoritismi è necessario e sufficiente legare la carriera, i fondi di ricerca, e lo stipendio di chi assume la decisione non solo con il suo rendimento, ma anche con il rendimento della persona scelta. In una parola, chi assume sarà valutato anche in base al rendimento di chi è stato assunto, e le strutture avranno più posti in futuro se chi è stato assunto in passato ha una buona valutazione. Serve una nuova etica della comunità scientifica è ciò si ottiene rendendo le scelte responsabili.
L’età media di ricercatori e docenti in Italia è tra le più alte al mondo. E non è solo un problema anagrafico: il sistema non premia la creatività dei giovani, ma la loro fedeltà ad anziani potenti, che hanno in mano le redini degli organismi decisionali. È necessario immettere nel mondo della ricerca, e sottrarre al mondo del precariato i giovani più bravi e creativi, prevedere la mobilità di alcune nuove posizioni, così che i nuovi ricercatori possano scegliere la struttura dove portare avanti la loro ricerca e favorire la loro transizione verso l’indipendenza. Per prima cosa bisogna riprendere il reclutamento, renderlo ciclico e accompagnarlo da un piano straordinario che restituisca a due generazioni di ricercatori le opportunità che sono state loro scippate.
È chiaro che non tutti i dottori di ricerca potranno diventare ricercatori, così come è chiaro che un dottore di ricerca che va a lavorare nella pubblica amministrazione o in aziende private può portare preziose competenze e la possibilità di mettere in connessione il mondo della ricerca con l’industria, gli enti locali, la macchina amministrativa, portando innovazione ed eccellenza. L’Italia è l’unico paese evoluto dove non si tiene in dovuto conto il titolo di dottore di ricerca: deve avere più visibilità e poter essere speso dovunque, deve dare punteggio per l’accesso ai ruoli di responsabilità nel pubblico e opportunità nel privato.
Il sistema universitario italiano deve tornare a dotarsi, dopo la follia burocratica della riforma Gelmini, di una vera autonomia concertata. Perno di questa nuova autonomia deve essere una valutazione responsabile, che abbia come obiettivo il progressivo innalzamento del livello medio di qualità del sistema. È necessario salvaguardare l’autonomia organizzativa e finanziaria degli atenei assegnando al Miur un ruolo di programmazione delle politiche generali, al Mef di controllo finanziario, all’Anvur una funzione terza di valutazione di sistema. L’autonomia in assenza di un sistema stabile e strutturato di valutazione rischia di estremizzare la deresponsabilizzazione e la frammentazione del nostro sistema universitario.
Il ruolo dell’università è vitale. Il superamento dei suoi vizi e dei suoi limiti ha senso se avviene in un rilancio e una ridefinizione della sua missione, che è quella di tenere insieme sapere, sviluppo e democrazia. Questa discussione è clamorosamente mancata. La valutazione è diventata l’unica politica visibile sull’Università. Ma valutare per cosa? Si ritiene che in Italia gli iscritti all’Università siano tanti o pochi? La cosiddetta “terza missione”, che è quella che dovrebbe affiancare le attività di ricerca e di didattica, non può essere appiattita sui rapporti con le imprese, ma deve vedere il coinvolgimento delle Università nei progetti per la sostenibilità ambientale e sociale del territorio, per aprirsi ai bisogni di formazione permanente dei lavoratori e della popolazione, per essere presidio di spirito critico e di democrazia nei processi di trasformazione. E anche su questo, soprattutto su questo, deve essere valutata, per aiutarla a crescere, e non per giustificare sulla base di discutibili presupposti iperdisciplinari la sua povertà ormai insostenibile. La valutazione senza missione schiaccia l’Università sul presente. I fatti che valuta sono quelli che misurano la rispondenza ai dettami di un efficientismo senza futuro ma che è ancora in grado di dettare condizioni al mondo del sapere e della conoscenza. Per noi, al contrario, il fine della valutazione deve essere individuare le criticità del sistema per migliorarlo, non completarne lo smantellamento certificandolo con un bollino di qualità.
Ricerca e sviluppo, investimenti nel futuro
La ricerca è un investimento che dà i suoi frutti in tempi lunghi e le più importanti applicazioni della ricerca sono semplicemente non prevedibili quando una ricerca comincia. Per questo deve essere necessariamente un investimento dello stato. Nessun privato può permettersi di fare un investimento ad alto rischio che richiede una scala di tempo di ritorno che può essere molto più lunga di qualsiasi intervallo temporale accettabile da un singolo individuo. Solo lo Stato può investire in ricerca di base, o meglio in ricerca libera, perché il progresso scientifico e culturale viene solo dalla ricerca libera, e perché se oggi possiamo fare trasferimento tecnologico grazie alle applicazioni di ricerche nate due o tre decenni fa, tra qualche anno non avremo più niente da trasferire, e non saremo capaci di fare innovazione, se non ricominciamo a investire anche sulla ricerca libera. Scienza e tecnologia nascono l’una dall’altra.
Le nuove potenze scientifiche emergenti – come la Cina, l’India, il Brasile – stanno cercando di creare, accanto a un forte comparto di ricerca applicata e di sviluppo tecnologico finanziato soprattutto da imprese straniere, un rilevante settore di ricerca accademica.
Tant’è che tutti gli stati a economia matura e, da vent’anni anche quelli ad economia emergente, investono anche in ricerca di base per promuovere lo sviluppo economico attraverso l’innovazione tecnologica. Tutti tranne l’Italia, unico paese che si ostina a perseguire uno sviluppo senza “ricerca e sviluppo”.
Se fino alla fine degli anni Ottanta ancora quel sistema poteva reggere l’irruzione della globalizzazione e contestualmente la stabilità monetaria hanno fatto venire meno alcune delle condizioni di fondo su cui si basava la nostra capacità competitiva. L’Italia non ha reagito in alcun modo al mutamento delle condizioni strutturali dei mercati internazionali restando ancorata al suo modello di sviluppo. Un modello che ha già perso la sfida.
Nel nostro Paese, in particolare, pur essendo molto bassa la spesa privata, deve aumentare prima di tutto la spesa pubblica perché è improbabile che le nostre imprese nel breve-medio periodo possano colmare il gap che le separa dai competitori diretti. Del resto non è una novità. Le grandi imprese dotate di laboratori industriali sono sempre state poche nel nostro Paese e quelle piccole non raggiungono la massa critica per investimenti efficaci in ricerca e sviluppo: è il pubblico che deve guidare, qui più che altrove.
Alla ricerca nel nostro Paese contribuiscono, oltre ai dipartimenti universitari, gli enti pubblici di ricerca, che certo non sono stati risparmiati dal massacro degli ultimi anni. Il culmine si è raggiunto quando con la spending review del governo Monti hanno deciso di tagliare I fondi all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare perché spendeva troppo per l’energia elettrica. Come se le spese per un acceleratore di particelle possano essere considerate uno spreco di energia. Negli ultimi anni il personale stabile si è ridotto oltre ogni ragionevole soglia di sostenibilità. A fronte di circa 18.000 dipendenti ci sono oltre 12.000 precari. Molti dei quali hanno già superato concorsi su concorsi, ma senza affrancarsi da quella condizione.
Vi sono dati poco noti, e leggende metropolitane dure a morire: tra le più ripetute in questi ultimi anni è che i nostri ricercatori sono poco capaci di attrarre finanziamenti dall’estero. I dati sui finanziamenti europei ottenuti dai ricercatori italiani smentiscono categoricamente questa conclusione per quello che riguarda il settore della ricerca. Combinando i dati sui finanziamenti con i dati sul Pil con i dati sul numero di ricercatori derivati dall’Ufficio Europeo di Statistica, l’Eurostat, che considera l’Italia fra i paesi dove i ricercatori sono maggiormente esigui, ricava che l’Italia è al secondo posto in Europa dopo l’Olanda per capacità di attirare i finanziamenti europei in rapporto al numero di ricercatori operanti nel Paese e nella stessa posizione se si considerano i finanziamenti in rapporto al Pil. Ne deriva che se l’Italia in assoluto non riceve molto ritorno in termini di progetti europei finanziati, questo è interamente dovuto all’esiguità del numero di ricercatori, in netta antitesi con quanto spesso affermato erroneamente, e che invece proprio un incremento dei fondi statali e la cancellazione delle limitazioni al turn-over e ai concorsi, potenzierebbe la ricerca rendendola maggiormente competitiva a livello europeo e internazionale, attraendo conseguentemente maggiori finanziamenti e innescando una spirale virtuosa.
Gli enti di ricerca ormai non hanno risorse per fare ricerca riuscendo a pagare il personale solo attraverso la loro capacità di autofinanziamento. Gli enti pubblici di ricerca sono poi stranamente sorvegliati da più ministeri, senza alcun coordinamento tra di loro. Oppure che ogni tanto la politica spedisce qualche esponente in cerca di collocazione senza alcuna esperienza di tipo scientifico a presiedere un ente di ricerca. Oppure capita che si mandi un “commissario” e che questo rimanga anni e anni mentre intanto ci si dimentica con quale obiettivo era stato inviato. Insomma normali presupposti di democrazia e autogoverno da parte della comunità scientifica, non a caso sanciti costituzionalmente, sono ormai merce rara.
È solo con un’idea diversa dello sviluppo, che faccia della sostenibilità sociale e ambientale il proprio punto di riferimento, che la conoscenza, in tutte le sue articolazioni, può davvero riacquistare centralità. Perché conoscenza vuol dire ricominciare a pensare nei tempi lunghi.
Il paese digitale
La rivoluzione digitale sta cambiando vite personali, industrie, istituzioni, cultura, pubblica amministrazione, memoria, politica. È stato uno dei fattori abilitanti sia della globalizzazione, sia di movimenti civili in tutto il mondo. Ha reso possibile forme nuove di collaborazione non di mercato e allo stesso tempo ha creato i nuovi giganti del capitalismo digitale. Ha dato all’individuo un potere comunicativo senza precedenti e allo stesso tempo ha reso possibili forme di sorveglianza di massa anch’esse senza precedenti. Sta rendendo più trasparenti molti governi, ma molto meno di quanto abbia reso i cittadini trasparenti verso i governi. Ha permesso a molti di innovare e creare occupazione e ricchezza, ma allo stesso tempo ha reso possibile sfruttare moltitudini svantaggiate pronte a vendersi a qualsiasi prezzo. Ha rafforzato diritti antichi, come la libertà di espressione, ma sta anche chiedendo con forza la definizione di nuovi diritti, come il diritto di accesso alla Rete o una Internet Bill of Rights che tuteli principi fondanti come la neutralità della rete o l’accesso alla conoscenza.
La rivoluzione digitale: un fenomeno complesso di importanza epocale che è molto limitativo rubricare, come spesso fa la politica, alle sole voci “innovazione” o “agenda digitale”. Certo, il digitale è anche innovazione e, certo, l’agenda digitale europea è un utile strumento di policy che la politica italiana fa bene a prendere sul serio. Ma il digitale è anche molto di più: il digitale è e deve essere una componente della politica a tutto campo. Della politica industriale come delle riflessioni sui diritti fondamentali, delle nuove forme partito come delle relazioni internazionali. E in questo l’Italia è drammaticamente indietro. Lo è soprattutto per la scandalosa impreparazione culturale della classe dirigente e forse anche per un’implicita, ma non per questo meno rovinosa, accettazione di una divisione del lavoro a livello internazionale secondo la quale il digitale è giusto che lo faccia qualcun altro, non noi italiani, ridotti al ruolo di meri utilizzatori di tecnologia (e scelte strategiche) altrui. È necessario un nettissimo cambio di rotta. L’Italia (imprese, Pubblica Amministrazione, cittadini) deve non solo puntare a usare di più e meglio il digitale, ma anche a porsi l’obiettivo di diventare uno di quei paesi che non solo ha imparato a surfare l’onda digitale, ma che anche contribuisce a determinare altezza, velocità e direzione dell’onda stessa.
Perché la rivoluzione digitale non è un fenomeno naturale che non possiamo che accettare così come viene: è un fenomeno prodotto e gestito dall’uomo. E in questo senso il ruolo della politica sarà decisivo per determinare se nei prossimi anni il digitale porterà ricchezza per pochi o per molti, lavori di qualità o lavori scadenti, più o meno diritti, più o meno conoscenza per tutti, più o meno città vivibili, più o meno uguaglianza. Per far assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo digitale, occorre contrastare tre forme di divario digitale: infrastrutturale, economico e culturale. Tutte le azioni proposte sono da considerarsi investimenti per assicurare un futuro a questo paese (e, per la nostra parte, all’Europa). In sede europea, dunque, l’Italia dovrebbe pretendere che le relative voci di bilancio non siano incluse nel calcolo dei vincoli sulla spesa pubblica.
È un grave danno per il paese, economico ma anche civile, che in così tante parti d’Italia l’accesso a Internet sia debole o addirittura inesistente; con, dove Internet arriva, velocità di navigazioni medie che sono tra le più basse tra i paesi sviluppati. Dopo anni di parole e promesse mai mantenute, portare Internet in tutta Italia deve diventare uno dei pilastri del rilancio nazionale. Ciò deve avvenire con un’azione di ampio respiro che coinvolga non solo i grandi operatori telefonici, ma anche:
- gli enti locali: per includere nelle opere di urbanizzazione l’estensione/creazione di reti in fibra locali, per la creazione di punti di accesso wi-fi in biblioteche, edifici pubblici, giardini, ecc.;
- le multi-utility: come è possibile che in numerose città si è portata, col teleriscaldamento, acqua sotto pressione e quasi bollente in tutti i palazzi e invece non è stati capaci di portare (anche) delle semplici fibre ottiche?
- il sistema dell’istruzione e delle Università: le scuole vanno urgentemente cablate ad alta velocità, possibilmente sfruttando l’esistente rete della ricerca (la rete Garr, che già serve molto bene università e enti di ricerca), perché la rete degli edifici scolastici e accademici diventi una rete al servizio della collettività.
Le statistiche europee dicono che milioni di cittadini non accedono a internet, non solo perché non è disponibile dove vivono (divario infrastrutturale) o perché non possono permetterselo (divario economico), ma perché non ne capiscono l’utilità. Occorre, quindi, innanzitutto impostare una grande, pluriennale, coraggiosa azione per l’istruzione degli Italiani, sia bambini, sia adulti, senza la quale non sarà possibile assicurare uno sviluppo economico e civile all’Italia in linea con i paesi più sviluppati. A fianco di tale azione più generale è poi opportuno strutturare fin da subito una specifica azione per dare gli Italiani, dai bambini agli adulti, i mezzi per sfruttare i vantaggi della rivoluzione digitale minimizzandone al contempo i rischi.
Internet e in generale gli strumenti digitali sono mezzi potenti per massimizzare la rilevanza economica, culturale e democratica di scuola, università e ricerca. È, quindi, nell’interesse generale capire in che modo sfruttare la rivoluzione digitale per portare la conoscenza a chi ne è ancora escluso, per declinarla in modo da venire incontro alle specifiche esigenze dei singoli, per rendere più trasparenti le attività delle istituzioni, per rendere immediatamente accessibili a cittadini e imprese i risultati della ricerca e della didattica pubblica, per avviare un dialogo tra mondo della ricerca e la società su temi di interesse pubblico e per molto altro ancora. Superando sia gli entusiasmi acritici (e spesso interessati) di chi vede nel digitale la panacea per tutti i problemi dell’istruzione italiana, sia gli scetticismi anch’essi acritici (e anche loro spesso interessati) di chi rifiuta aprioristicamente l’idea che il digitale, se correttamente dispiegato, possa risultare un valido alleato di insegnanti, ricercatori e, soprattutto, studenti. In questo senso, sono tre i pilastri di un’azione di governo che voglia a prendere a cuore l’interesse generale nell’età della rete.
L’apertura: internet per la prima volta nella storia rende potenzialmente possibile accedere a costo nullo e con minima fatica non solo ai risultati prodotti dalla ricerca (pubblicazioni, dati, software), ma anche materiali didattici di tutti i tipi (slide, appunti, libri, video, audio). È quindi prioritario – nonché in linea con le direttrici espresse da Commissione Europea e dai G8 – garantire l’open access, ovvero, l’accesso gratuito online a tutti i risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici. Analogamente, scuole e università devono essere incoraggiate a produrre e pubblicare materiali didattici aperti (open educational resources), destinati non solo ai propri studenti, ma anche al tutta la cittadinanza e ai lavoratori, in modo da favorire l’auto-apprendimento e l’auto-aggiornamento (in attesa di un serio programma di istruzione permanente degli adulti, in Italia ancora clamorosamente assente).
La sperimentazione: ormai vent’anni di studi dimostrano che il digitale può essere di aiuto in classe, ma solo a certe condizioni, che variano da paese e paese, se non da classe a classe. Non basta, insomma, paracadutare tablet sulle scuole per migliorare la qualità dell’istruzione che ricevano bambini e ragazzi. È quindi importante creare le condizioni, normative, economiche e tecnologiche, affinché i docenti possano sperimentare per capirese e come usare gli strumenti digitali che mano a mano vengono proposti dalla rivoluzione digitale. Solo questa è la strada per una scuola 2.0 con i piedi per terra, evitando sia scorciatoie, sia luddismi.
La difesa dell’istruzione come interazione tra persone che condividono lo stesso spazio e lo stesso tempo. Interazione tra docente e studenti, naturalmente, ma anche tra docenti e docenti, e tra studenti e studenti. Tale interazione in presenza fisica può naturalmente venire estesa e arricchita da interazioni online (vedere i precedenti due pilastri), ma mai sostituita. L’educazione, infatti, è fondata su rapporti umani: solo così è possibile tirare fuori il meglio da ogni studente e, soprattutto, solo così è sperabile far andare avanti gli studenti più a rischio, quelli che per motivi famigliari o sociali non hanno la disciplina interiore e le motivazioni per procedere unicamente con forze proprie. In questi anni una retorica con enormi mezzi alle spalle sta invece cercando di imporre l’idea che uno schermo possa sostituire il rapporto personale col docente (e con gli altri studenti). Si tratta di iniziative imprenditoriali che hanno il preciso obiettivo di aprire al capitale privato almeno parte dell’enorme mercato dell’istruzione, finora in larga parte sottratto al mercato. Per riuscirci, però, devono riuscire a convincere la pubblica opinione che uno schermo è meglio di un’aula. La corretta risposta a questa offensiva è incoraggiare scuole e atenei ad aprirsi (primo pilastro) e a sperimentare (secondo pilastro), ma sempre difendendo la centralità della scuola e dell’università come spazio fisico nel quale persone creano relazioni avendo come guida l’amore della conoscenza. E a chi obietta che è meglio guardare una lezione universitaria su YouTube piuttosto che seguire una lezione in un cinema con altri 500 studenti, rispondere che vanno urgentemente eliminate le lezioni-massa, non abolite le lezioni tout court.
La cultura è trasformazione
Il ruolo principale della cultura è quello di costruire le identità particolari e collettive, non di oscurarle. Di elaborare i traumi, non di contribuire a rimuoverli. Di criticare radicalmente la realtà esistente e le sue storture, non di convalidarla a tutti i costi. Di aiutare le persone a comprendere l’esistenza, e la propria evoluzione all’interno di questo tempo esistenziale. Di produrre continuamente il senso dell’umano. La cultura dunque è il primo elemento della trasformazione.
Anche l’innovazione – intesa come modifica sostanziale dell’ordine conosciuto – ha bisogno di un’ecologia, di un intero ecosistema culturale in cui nascere, mettere radici e crescere organicamente. Esattamente il tipo di habitat di cui l’Italia ha, in questo momento, un impellente e disperato bisogno: l’aggravarsi della crisi non fa che evidenziare brutalmente, ogni giorno, questa assenza. Il problema principale del nostro Paese, infatti, è la peculiare avversione al rischio che sembra aver sviluppato negli ultimi decenni: ogni innovazione vera è percepita come una minaccia e regolarmente esclusa dallo sguardo collettivo. La società italiana soffre dell’incapacità cronica, a tutti i livelli, di immaginare il futuro; e persino – cosa forse ancor più grave – di percepire il presente.
Vuoti (a perdere)
Ovviamente, adesso questo avvitamento si rivela ancora più pericoloso che in passato. La crisi sta infatti ridefinendo i parametri e gli standard che regolano i singoli territori della vita collettiva in Italia, e quello culturale ovviamente non fa eccezione. Il modello fondamentale di questa riconfigurazione è quello della desertificazione: i tagli ai finanziamenti pubblici annunciati – e realizzati – quotidianamente non hanno e non possono avere altra conseguenza, al netto delle lodevoli e interessanti sacche di resistenza (istituzioni, associazioni, movimenti, singoli autori). Nel nostro Paese vige e impera una visione (o di un’assenza di visione) ampia e asfissiante, che si può sintetizzare così: «in questo momento, ci sono cose ben più importanti a cui pensare: ci dispiace, ma non possiamo pensare anche alla cultura». Il pensiero sottinteso è, naturalmente: la cultura è un lusso, un bene voluttuario, un “vuoto a perdere” che non ci possiamo più permettere. Naturalmente, non ci potrebbe essere quasi nulla di più sbagliato, proprio in un momento del genere: ridurre, comprimere, soffocare, eliminare la produzione e la fruizione culturale vuol dire, molto semplicemente, segare il ramo su cui si è seduti. Cancellare le proprie chance presenti e future.
È un errore grossolano e molto pericoloso, come quello – purtroppo molto diffuso – di pensare che la crisi prima o poi passerà. Che sia solo, in definitiva, una sospensione dell’ordine naturale delle cose, del loro stato normale; e che, una volta trascorsa, quello stesso ordine si ristabilirà. In realtà, nulla tornerà come prima: lo stesso “prima” non esiste e non esisterà più. Non c’è nessun “tunnel” (dal momento che questa è, a quanto pare, la metafora preferita della nostra classe dirigente) che va attraversato: a meno di non immaginarne uno in cui il mondo che troviamo all’uscita è profondamente cambiato rispetto a quello da cui siamo entrati – e a cambiarlo siamo stati proprio noi.
La crisi è la transizione consapevole da uno stato della realtà ad un altro, inevitabilmente diverso. La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione, che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione del mondo. E non c’è nulla come la cultura che riesca ad assolvere questa funzione, nella maniera più completa ed efficace: la cultura ci prepara a trovare soluzioni inedite a problemi che ci paiono insormontabili, mutando i punti di vista sui fenomeni, stabilendo connessioni tra eventi e idee, articolando livelli molteplici di interpretazione. Compito della cultura dunque, in una fase di transizione epocale come quella che stiamo attraversando, non può che essere – dopo aver ratificato ed analizzato la fine dell’epoca precedente – immaginare, articolare e costruire l’epoca nuova. La cultura è il telaio, la struttura fondamentale di progettazione del presente e del futuro.
L’esigenza principale e prioritaria è la creazione di un’agenzia nazionale interamente dedicata alle industrie culturali e creative: questa agenzia dovrebbe essere svincolata dalla politica e dotata di una governance autonoma, cioè in grado di elaborare una sua programmazione di medio-lungo termine. Per affrontare in modo adeguato i temi complessi legati alle industrie culturali e creative, l’Italia dovrebbe inoltre affidarsi a enti di ricerca specializzati, sul modello inglese del Nesta (National Endowment for Science, Technology and the Arts), centro di eccellenza impegnato nell’analisi della cultura e delle industrie creative per lo sviluppo sociale, economico e territoriale.
Una reale integrazione di questi temi nella politica industriale, che molto spesso a livello nazionale punta per abitudine su industrie tradizionali, e un grande sforzo di comprensione delle specificità delle industrie culturali e creative (che sono molto interconnesse tra di loro e con tanti altri settori).
Un altro elemento fondamentale è costituito dalla leva fiscale per i privati e un premio per gli enti locali che tutelano e rendono fruibile il patrimonio culturale e che investono nelle produzioni creative. Così come è decisivo intervenire attivamente sulla formazione: la formazione attuale, soprattutto nei campi del digital entertainment, dell’IT applicata alle industrie culturali ed alla fruizione del patrimonio culturale, e dell’infrastrutturazione digitale, risulta obsoleta ed inefficiente, al punto da impedire addirittura, secondo gli operatori, lo stesso recruiting tra le giovani leve. Si potrebbero dunque costruire, in accordo con Università, enti di Ricerca e reti/consorzi imprenditoriali, occasioni di formazione in questo campo rivolte agli studenti, ai nuovi imprenditori e di aggiornamento per i senior.
Essenziale è favorire l’ibridazione tra filiere produttive. Uno dei tratti distintivi dell’ultima ondata di attività e di innovazione nei settori culturali e creativi è la capacità di mettere in dialogo filiere produttive tradizionalmente appartenenti ad ambiti settoriali differenti e tipicamente non comunicanti. Queste forme di ibridazione possono dare luogo a nuove forme di aggregazione distrettuale caratterizzate non dalle forme classiche di integrazione di filiera, ma da un comune orientamento verso l’innovazione a base culturale e creativa.
Incoraggiare la sperimentazione è necessario per stimolare gli operatori culturali a elaborare e implementare modalità progettuali innovative, che utilizzino in modo originale ed efficace le molte possibilità oggi disponibili per raggiungere obiettivi qualificanti come: a) assicurare elevati livelli di partecipazione e di condivisione delle singole comunità; b) privilegiare l’impiego e l’occupabilità di competenze (come quelle umanistiche) ritenute meno spendibili in altri ambiti professionali e produttivi.
Infine, non si può non preservare e implementare il patrimonio intangibile. La grande abbondanza di patrimonio tangibile che caratterizza la maggior parte dei territori italiani porta spesso a trascurare il ruolo sempre più importante del patrimonio intangibile, fatto di saperi, di narrazioni, di pratiche che spesso affondano le proprie radici in epoche storiche lontane, e che non vanno semplicemente individuate e preservate ma messe a disposizione delle comunità per poter continuare a svilupparsi e dare quindi contributi potenzialmente importanti alla competitività di territorio, alla sua coesione sociale, alla costruzione di un immaginario collettivo. Occorre quindi incentivare la creazione di un archivio del patrimonio intangibile dei territori italiani, anche attraverso l’uso efficace delle nuove tecnologie che permettono di conservare e riconfigurare le molte dimensioni di questo patrimonio.
PER UN’ECONOMIA POSITIVA
Per il Pd, la centralità del lavoro ha sempre rappresentato un tratto identitario forte, sin dalla fondazione. Certo, il ruolo del lavoro per l’economia, per lo sviluppo della persona, per la coesione sociale è da ripensare e aggiornare, ma non se ne può smarrire l’importanza centrale. Eppure non si può dire che si siano raggiunti risultati notevoli. Anzi. La Ue si pone l’obiettivo di più occupazione, di migliore qualità. Aver scelto la via della compressione dei salari e delle retribuzioni in genere (la “svalutazione interna” a fronte della moneta unica) non ha reso il paese più competitivo ma più povero e sempre più ingiusto. La Costituzione ci indica la strada, inquadrando l’attività di impresa in finalità sociali che la politica promuove e indirizza. È ora che la politica torni a puntare sulle imprese che compiono le scelte più utili alla ripresa economica e a sostenere gli sforzi delle aziende proiettate verso produzioni competitive, per qualità e originalità dei prodotti, per innovazione e efficacia dei processi.
La politica farà la sua parte proponendo opzioni precise: “via alta”: l’innovazione, la valorizzazione della componente lavoro, la sostenibilità; produzioni di beni e servizi che presentano caratteristiche di unicità (“non replicabili”); misure per crescita dimensionale, cooperazione territoriale e cluster innovativi; affiancare i giovani che avviano nuove iniziative imprenditoriali; rivisitando le strutture che dovrebbero farlo, destinando maggiori risorse e disboscando l’intrico di norme che ostacolano la creazione di impresa e facilitare lo startup di impresa (incentivi per i primi 3 anni di attività); sostenere le Pmi nell’accesso al credito dove i tassi sono più onerosi, alleviare il rischio di impresa (con strumenti finanziari: microcredito, fondi rotativi); promuovere il ricorso a venture management; fronteggiare le crisi aziendali, associando misure di emergenza e sostegno alla riconversione con responsabilizzazione delle imprese.
Accesso basato sulla formazione, non sulla precarietà
Il mercato del lavoro, basato su un dualismo inaccettabile, deve porre termine alla discriminazione dei giovani garantendo un accesso basato sulla formazione e non sullo sfruttamento della precarietà:
Si deve tradurre nei fatti la formula, semplice e chiara, lanciata con il programma di Italia Bene Comune: il lavoro flessibile e discontinuo deve costare più di quello stabile. Altrimenti significa precarietà.
Equa distribuzione dei redditi e equa remunerazione (il “lavoro di qualità”) devono andare di pari passo. Nei dieci anni in cui è stata al Governo la destra ha mirato sistematicamente a ridurre e, in più di un caso, eliminare ogni forma di tutela normativa e di regolazione degli accessi. La pretesa era che si sarebbe reso più facile l’accesso al lavoro con un conseguente aumento di occupazione. Invece, l’occupazione è rimasta al palo, è peggiorata per i giovani, in particolare nel Sud. Più di 2/3 delle assunzioni sono a tempo, di breve durata, è dilagato un lavoro formalmente autonomo privo di autonomia sostanziale, senza potere contrattuale.
Per l’obiettivo di un lavoro di qualità ed equamente remunerato occorre creare un adeguato sistema di convenienze per premiare il ricorso lavoro stabile ed introdurre contrappesi nei contratti flessibili.
- diminuire, già nell’immediato, le tasse sui redditi da lavoro;
- alleggerire gli oneri indiretti (fiscali e contributivi) sul lavoro stabile, IRAP e IRES, e contributivi (senza pregiudizio del montante INPS) sul lavoro stabile, in quanto rapporto ”tipico”;
- introduzione nei contratti flessibili di contrappesi attraverso la contrattazione (parametri retributivi, formazione, tutele e diritti): introduzione del contratto unico di inserimento; modello standard di accesso per i giovani, con apprendistato professionalizzante, con una durata minima e massima fissata nella contrattazione, tipologie di prestazioni, garanzie per l’effettivo contenuto formativo, esigibilità contrattuale della qualificazione conseguita: in generale, non uscire dalla scuola senza esperienze di lavoro, non entrare al lavoro senza formazione iniziale;
- un salario minimo definito tramite accordo interconfederale sulla base dei minimi contrattuali vigenti nella contrattazione di categoria
Negli anni del Governo della destra abbiamo assistito a un’offensiva su più fronti (welfare, diritti sul lavoro, previdenza) che ha portato a un sensibile regresso. Si deve cambiare strada: scommettere sul dialogo tra le parti sociali senza impedire il conflitto ma impegnando le istituzioni per favorire un suo esito funzionale agli interessi generali (sviluppo equo e sostenibile, coesione sociale). Promuovere un’impresa attenta ai fini sociali, con modelli di gestione aperti alla partecipazione dei lavoratori e un sindacato la cui rappresentatività sia basata (e misurata) su regole democratiche e trasparenti.
In base all’accordo sindacati-Confindustria sui livelli di contrattazione (oltre a parti dell’accordo per Expo 2015) e al pronunciamento della Consulta sull’art. 19 esistono le condizioni per definire, concertandola con le parti sociali, una legge di attuazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione basata su: piena autonomia delle rappresentanze; criteri obiettivi di rappresentatività sia a livello nazionale, per la stipula dei contratti, che a livello aziendale, per le parti dei contratti nazionali rinviate a quel livello così come per questioni specifiche inerenti la gestione aziendale; certezza di basi giuridiche ai contratti di lavoro; forme di democrazia industriale che senza sostituirsi al conflitto distributivo, nella separazione dei ruoli, prevedano un intervento dei lavoratori nella gestione delle imprese maggiori (come valore aggiunto, non come orpello, o minaccia).
Uguaglianza è efficienza
È arrivato il momento di virare e avvicinarci alla maggioranza degli italiani, quella maggioranza che non si riconosce né nel liberismo sfrenato e né nella difesa dei vecchi privilegi. Noi, possiamo e dobbiamo essere il loro punto di riferimento partendo dall’idea di uguaglianza. In quest’ottica, ridurre le disuguaglianze non significa rispolverare senza riflessione critica vecchie ideologie, ma vuol dire piuttosto interrogarsi sulle falle del nostro sistema economico. Falle che ci impediscono di sfruttare un enorme potenziale umano, che giace inutilizzato per le sperequazioni del sistema. Proporre di ridurre le disuguaglianze significa allora portare alla ribalta un’agenda da troppo tempo ignorata nel nostro partito: abbattere la disuguaglianza per avviare una lotta serrata contro l’inefficienza del sistema.
Di fronte alla proposta di rendere universalistico il nostro stato sociale, molti sostengono che i costi sarebbero insostenibili. In realtà l’Italia spende un quarto del Pil per il welfare, esattamente come la Finlandia, uno dei paesi più virtuosi del mondo per quanto concerne la protezione sociale dei suoi cittadini. Dove sta allora la differenza? La differenza sta in pochi numeri: noi spendiamo il 14% del Pil in pensioni, loro il 9%; noi spendiamo l’1,40% per le politiche familiari, loro oltre 2%; noi spendiamo lo 0,90% per le politiche attive sul mercato del lavoro mentre loro spendono più del 2%. In Finlandia si spende molto più nella creazione di servizi e molto meno nei trasferimenti diretti. A questo aggiungete che la Finlandia ha deciso da molti anni di investire nella scuola dell’infanzia e in quella primaria. I soldi per finanziare il welfare universalistico ci sono quindi, ma li spendiamo male, negando servizi e aiuto alle famiglie e ai lavoratori più giovani.
Il marcato dualismo del nostro sistema di welfare si esprime nelle differenze regionali, nella diversa generosità del sistema per persone con occupazioni diverse e nel profondo squilibrio generazionale. E si esprime anche a livello generazionale. L’impatto della cultura familistico-patriarcale ha teso a escludere la donna dal mondo del lavoro conferendole pochissimi diritti. C’è stata una netta inversione di tendenza in questo senso negli anni Ottanta e Novanta ma la posizione della donna, specie nelle regioni meridionali, resta ancora precaria e poco tutelata rispetto a quella dell’uomo.
Non serve accrescere la spesa per avere un welfare che finalmente riduca le disuguaglianze e renda il nostro sistema produttivo più efficiente, ma occorre avere il coraggio di ribilanciarla partendo dalla correzione delle storture che abbiamo indicato.
Reddito minimo garantito e ammortizzatori universali
Da cosa deriva la nostra spesa in eccesso rispetto ai migliori paesi europei? Il nostro livello di spesa è dovuto principalmente a due ragioni: un sistema retributivo sballato e la concessione in passato di pensionamenti a persone troppo giovani.
Con il sistema retributivo l’importo della pensione non era proporzionale ai contributi versati durante la vita lavorativa ma calcolato sulla base dell’ultimo stipendio. La trasformazione demografica del nostro paese, con la crescita esponenziale del numero di pensionati rispetto ai lavoratori, ha però fatalmente alterato i conti. A questo vanno aggiunte una serie di scelte politiche scriteriate (come l’elargizione di pensioni di invalidità non giustificate, la divisione organizzativa creata per favorire alcune categorie professionale, o ancora la possibilità per le madri di andare in pensione dopo quattordici anni di servizio) che hanno accresciuto la frammentazione e l’inefficienza del sistema. Per far fronte a questa situazione tra il 1992 e il 2012 si sono susseguite una serie di riforme che hanno ridotto la generosità dei criteri di rivalutazione delle pensioni; accresciuto il numero di anni di contribuzione per accedere alla pensione di anzianità; innalzato l’età di pensionamento; istituito la possibilità di creare fondi complementari privati; trasformato il sistema da retributivo a contributivo.
Questo significa che chi ha iniziato a contribuire prima del 1978 riceve una pensione che oscilla tra l’80 e il 100% dell’ultimo salario netto, mentre chi ha iniziato dopo il 1996 riceverà circa il 50% di esso. Gli sperperi, i costi e la cattiva gestione del sistema pensionistico sono tutti a carico di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1978 ed in particolare dopo il 1996. Sulla base di questo ragionamento, visto che non si può tornare indietro, dobbiamo trovare dei correttivi che consentano di ricalibrare almeno in parte il sistema. I pensionati con regola retributiva non sono tutti uguali. Sulla base dei dati analizzati da Emanuele Ferragina, si evince che in Italia ci sono 18,6 milioni di pensionati: circa 11,6 milioni (il 63% del totale) ricevono una pensione sotto i 1000 (533 euro al mese di media); circa 5 milioni (il 26% del totale) ricevono una pensione compresa tra i 1000 e i 2000 euro; circa 2 milioni (l’11% del totale) ricevono una pensione superiore ai 2000 euro (2909 euro al mese di media).
Se a questo aggiungete che sulla base della regola retributiva i due milioni di pensionati più ricchi ricevono una pensione per cui in media hanno contribuito solo per metà. I soldi ottenuti dalla tassazione aggiuntiva delle pensioni più alte e da una maggiore tassazione sul patrimonio andrebbero tutti investiti sul mercato del lavoro, istituendo il reddito minimo garantito e il sussidio universale di disoccupazione.
Ci troviamo di fronte al paradosso di uno stato sociale che accresce la disuguaglianza offrendo ingenti trasferimenti monetari a chi non ne avrebbe bisogno. Gli assegni familiari e i sussidi di disoccupazione non arrivano quasi mai alle fasce più povere: i primi sono riservati ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, i secondi proteggono solo chi ha già guadagnato l’accesso a un’occupazione stabile e regolare. Per questa ragione le politiche per il lavoro e quelle per la famiglia vanno ripensate in senso universalistico. La strada maestra è indicata con chiarezza dal successo dei paesi scandinavi, che hanno perseguito importanti riforme nel passato e ora raccolgono i dividendi di scelte coraggiose e lungimiranti. Esistono due misure attuabili in tempi brevi per riformare il sistema in chiave universalistica (riducendo i livelli di povertà e fornendo una protezione adeguata a tutti): il reddito minimo garantito e gli ammortizzatori universali per i disoccupati.
Il reddito minimo è la garanzia di un livello base al di sotto del quale nessun individuo (a prescindere dalla sua condizione occupazionale) possa scendere. Si tratta del riconoscimento di un principio minimo in linea con gli altri paesi europei e un’armonizzazione delle varie misure esistenti in alcune regioni. Garantire un reddito minimo di quattrocento euro a persona (aggiustato al costo della vita nelle varie aree del paese e alla composizione della famiglia) costerebbe 7,1 miliardi di euro (solo lo 0,5% del Pil) e supporterebbe circa l’8% delle famiglie italiane. Questo calcolo è basato sull’assunto di distribuire il beneficio solo a coloro i quali hanno un reddito inferiore a quattrocento euro per arrivare a tale cifra. Ovviamente ove le finanze pubbliche lo consentissero si potrebbe pensare di alzare questa asticella nel tempo a 600-700 euro. Un altro dato interessante è che attualmente solo il 27% delle famiglie al di sotto della soglia di povertà sono supportate direttamente dallo Stato, mentre con il reddito minimo garantito questa percentuale salirebbe al 91%.
Al reddito minimo andrebbe aggiunto un sussidio universale di disoccupazione, accompagnato da politiche attive sul mercato del lavoro. Il successo di queste politiche in molti paesi del Nord Europa dimostra come il welfare non sia solo uno strumento di protezione sociale, ma anche una leva imprescindibile per lo sviluppo economico. Serve in tal senso un sussidio universale di disoccupazione, accessibile in qualsiasi momento della vita lavorativa. Il sussidio dovrà essere limitato nel tempo e offerto solo a chi si impegna realmente per cercare lavoro. Tito Boeri aveva stimato nel 2008 che il costo di un sussidio con queste caratteristiche si sarebbe aggirato intorno ai 9 miliardi di euro. Nello stesso anno l’Italia spendeva 240 miliardi di euro per le pensioni (un terzo di essi per i due milioni di pensionati più ricchi).
Con meno di 20 miliardi di euro l’anno si potrebbero creare simultaneamente il reddito minimo garantito e il sussidio universale di disoccupazione, cambiando in modo radicale il nostro mercato del lavoro e accrescendo il livello di tutele per i più poveri e per coloro i precari. Potrebbe sembrare paradossale, ma in Danimarca, dove la protezione sociale per i lavoratori è molto elevata, è più facile licenziare un lavoratore a tempo indeterminato rispetto all’Inghilterra (dove la protezione sociale è molto più bassa): la protezione non si basa sul rendere rigide e impercorribili le vie che portano al licenziamento ma sul prendere per mano il lavoratore, che per varie ragioni (competenze obsolete, ciclo economico negativo in un settore) si trova disoccupato. Tutto ciò avviene attraverso la garanzia di un reddito sostanziale per l’intera durata del periodo di inattività, e l’offerta regolare di opportunità formative per rientrare nel mercato del lavoro in una posizione più forte rispetto a quella precedente.
In una revisione complessiva del welfare, non si può prescindere dalla drammatica situazione del mercato del lavoro (segmentazione, diminuzione dei posti di lavoro, salari d’ingresso al di sotto dei minimi contrattuali, mancanza di tutela per i lavoratori “atipici”); né dalle indicazioni che vengono dal Governo, che auspica un ridimensionamento dell’attuale regime di cassa integrazione verso un ritorno alla sola cassa ordinaria. Sarebbe auspicabile anche un superamento dell’istituto della mobilità, per andare verso una maggiore responsabilizzazione dell’impresa rispetto ai posti di lavoro direttamente gestiti. In questa direzione, del resto, si muove anche l’Aspi, con l’introduzione di “una tassa sul licenziamento”, per quei contratti che non prevedano il versamento di contributi, in modo da consentire ai perdenti posto di usufruire di un’indennità di disoccupazione.
Rispetto alla Cig, istituto particolarissimo presente solo in Italia, la crisi rende difficile un suo totale superamento. Tuttavia per evitare che la distorsione rappresentata da posti di lavoro non in grado di autoremunerarsi continui a gravare sulle spalle delle imprese potenzialmente sane, minandone la competitività, bisogna programmare da subito un ritorno alla sola cassa integrazione ordinaria. Contestualmente, occorre ridurre, progressivamente quanto drasticamente, la relativa contribuzione, in modo che non si generino più le eccedenze verificatisi negli anni precedenti la crisi.
L’istituto della mobilità è già in fase di superamento con la progressiva estensione dell’applicazione dell’istituto Aspi, che si completerà nel 2016. L’indennità di disoccupazione è su base assicurativa in tutti i paesi europei: il suo ammontare è relativamente alto e la durata limitata. In Italia la sua regolazione è stata recentemente riformata con l’introduzione dell’Aspi, che andrà progressivamente a sostituire l’indennità di disoccupazione ordinaria (tranne quella agricola) entro il 2016. Il principale cambiamento introdotto non è tanto il limitato allargamento della platea degli aventi diritto, ma quanto il fatto che il lavoratore, che nei due anni precedenti abbia versato almeno 12 mesi di contribuzione, diventi automaticamente titolare del diritto all’indennità al momento del licenziamento, senza alcuna intermediazione (come avveniva invece con la mobilità). Inoltre, per la prima volta l’impresa subisce un costo diretto per il licenziamento di un dipendente, dovendo versare la cosiddetta “tassa per il licenziamento” pari al 41% del massimale mensile di Aspi per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.
Attualmente si tratta di meno di 2000 euro, e non è l’indennizzo diretto al lavoratore, dovuto per esempio in Germania: tuttavia è un primo modo, non ideologico, di ricondurre concretamente la responsabilità del mantenimento del posto di lavoro in capo all’impresa. Dall’allargamento della base imponibile derivante dalla revisione della contribuzione dovuta dalle imprese per gli ammortizzatori sociali e, soprattutto, da una profonda revisione del sistema assistenziale che riveda, ad esempio, i criteri di assegnazione dell’indennità di accompagnamento e delle pensioni di invalidità civile, ci aspettiamo le risorse per istituire anche in questo paese un reddito minimo garantito, affiancato da un programma specifico di sostegno dei minori (sul tipo del programma Children Care inglese, o di quello, più articolato nell’offerta di servizi, francese o belga) e da un eventuale supporto per l’affitto. I criteri devono essere definiti a livello nazionale per garantire una maggiore efficienza ed equità. I comuni potrebbero essere gli operatori responsabili dell’applicazione e del controllo di questi criteri.
Il primo passo è quello di indicare i destinatari: i senza reddito, inoccupati o disoccupati, che abbiano compiuto 18 anni, che abbiano una situazione finanziaria al di sotto di una certa soglia (in Gran Bretagna è fissata a 6000£), che dichiarino l’intenzione di far parte della forza lavoro o che studino secondo un regolare corso di studi universitari, che non siano titolari di pensioni a nessun titolo. Se più individui che si trovino in questa condizione condividono la residenza, scatteranno dei coefficienti di ponderazione a partire dal secondo individuo (ne sono un esempio i coefficienti adottati dalla Provincia Autonoma di Trento per l’erogazione di un reddito di garanzia). L’intenzione di far parte della forza lavoro deve essere comprovata dalla partecipazione ad attività di formazione e riqualificazione, coordinate dalle Agenzie per l’Impiego, che dovrebbero vedere il coinvolgimento più largo possibile di imprese dei vari settori. La formazione potrebbe anche essere finalizzata ad avviare forme di self employment: in questo caso, sarebbero fondamentali accordi con istituzioni finanziarie disponibili forme di micro-credito. Una stima ragionevole per il reddito di base, prendendo come riferimento altri paesi europei e le valutazioni dei recenti studi citati, potrebbe essere intorno ai 400-450 euro mensili.
Liberi da (questi) ordini (professionali)
Gli ordini restringono eccessivamente l’accesso alla professione, diventando spesso una barriera insormontabile che si pone fra il giovane e il mondo del lavoro. Da anni ignoriamo gli effetti deterrenti che gli ordini hanno nei confronti di chi deve scegliere il proprio percorso formativo. Ed è purtroppo impossibile quantificare lo scoramento prodotto dalla loro esistenza, perché si può monitorare solo ciò che succede a chi prova ad accedere all’albo (riuscendoci o meno). Pensate a quanto talento sprecato, per esempio, fra chi sceglie di dedicarsi a un diverso percorso di studi solo perché scoraggiato dall’eventuale gara a ostacoli che dovrà intraprendere. O da chi decide di partire per esercitare la sua professione senza sottostare alle regole vigenti in Italia.
In un’economia moderna gli ordini professionali non dovrebbero rappresentare un capriccio legislativo, o uno strumento di difesa degli interessi particolari di potenti e inflessibili lobby; dovrebbero essere concepiti, invece, come garanti del consumatore che si deve orientare in mercati difficili e particolari. L’ordine dovrebbe fare da intermediario tra il consumatore e il professionista, garantendo che quest’ultimo: abbia uno specifico titolo di studio, abbia sostenuto un esame abilitante, abbia svolto un periodo di formazione per uniformare la qualità del servizio prestato e si conformi a un codice deontologico. Gli ordini dovrebbero quindi essere preposti a proteggere il consumatore, escludendo dal mercato tutti i professionisti che non sono in grado di fornire un servizio adeguato.
Per questa ragione serve una modifica degli ordini professionali che ne esalti l’utilità’ collettiva riducendo gli effetti distorsivi. Serve una riforma che agevoli l’accesso dei giovani professionisti (anche quelli che non hanno un genitore o un parente all’interno dell’ordine) – ma anche e soprattutto l’efficienza, garantendo servizi migliori a prezzi più bassi. Bisogna separare la funzione di rappresentanza dal controllo deontologico e eliminare l’esame di Stato perché il diploma di laurea potrà essere titolo abilitante per l’esercizio stesso della professione. In questo schema si possono prevedere dei tirocini da svolgere durante il percorso di studi, della durata non superiore a due anni (il governo Monti ha previsto 18 mesi). L’esercizio delle professioni regolamentate dovrà poter essere svolto oltre che nelle forme già previste anche in forma societaria ed eventualmente con apporto di capitale. La maggior parte dei cambiamenti elencati non richiederebbe misure drastiche ma semplici accorgimenti e riforme graduali. Il problema risiede come sempre nell’esistenza di una volontà politica a favorire l’uguaglianza e l’efficienza.
Il fisco giusto ovvero il Paese che siamo e il tempo che non abbiamo (più)
C’è un elemento comune che lega le difficoltà delle famiglie e imprese italiane, la tassazione esorbitante di chi guadagna 30.000 euro lordi all’anno, la spesa pubblica nel cuore dello stato e la lotta all’evasione. Questo elemento comune è la fine della centralità del lavoro in Italia ed è la ragione profonda per cui dobbiamo ridurre le imposte sul reddito da lavoro.
La scarsa crescita italiana è impressionante nel confronto con le altre economie sviluppate. Tra tutti i paesi dell’Ocse, l’Italia è l’unica economia ad avere avuto un tasso di crescita del reddito reale medio pro capite negativo nell’ultimo decennio. Mentre – secondo i dati Ocse – dal 2001 al 2011, il reddito reale medio è cresciuto in tutte le economie sviluppate ed emergenti, nel nostro paese questo è calato. Ci ritroviamo nel 2012 ad essere mediamente più poveri di ben dieci anni fa. Non siamo più poveri del 2007, ma del 1997.
Con un debito pubblico proiettato sui 2.100 miliardi di Euro e un deficit al 3% del Pil per il 2013, con una produzione industriale che riporta il Paese indietro di quindici anni e una capacità di risparmio delle famiglie italiane che è meno della metà di quella del 1980, bisogna smettere di dare per scontata la nostra posizione nel mondo. Non possiamo permetterci di perdere più tempo. Abbiamo perso due decadi depredando il nostro passato. Negli anni ottanta abbiamo accumulato più debito pubblico che nei 30 anni che li avevano preceduti. Dagli inizi degli anni 2000, durante i primi anni dell’Euro, abbiamo perduto un’altra decade. Mentre la spesa per interessi su uno dei debiti pubblici più alti del mondo era passata da più del 10% del PIL della prima metà degli anni novanta a poco più del 4%, il paese perdeva l’ennesima occasione per riformarsi in profondità. Il risultato di questa mancanza è stato impressionante: negli anni 2000 la produttività del lavoro italiana calava rispetto a Germania, Francia, Stati Uniti e Giappone, mentre il costo unitario del lavoro cresceva più che in ciascuno di quei paesi.
È in gioco la sopravvivenza del paese che conosciamo e del benessere a cui siamo abituati. Con un passato ipotecato e un presente da dimenticare, cerchiamo di ricostruire il nostro futuro. Davanti a noi c’è una tentazione: imputare alla reazione disordinata di un paese sfibrato e spaventato l’impossibilità di riforme. Così facendo non rimane che perpetrare l’ennesima promessa di sostegno dell’economia basata su maggiore spesa pubblica. È quel che la politica italiana ha offerto per tutti gli anni dell’ultimo decennio precedenti alla crisi, quando la spesa pubblica, al netto della spesa per interessi, è passata dal 39.5% del Pil (474,9 miliardi Euro, fonte Istat) nel 2000 al 45,6% (714,4 miliardi di Euro, fonte Mef) nel 2012 e la pressione fiscale seguiva passando dal 41% al 44% del Pil (fonte Istat) nello stesso.
Eppure un paese spaventato dalla crisi e incerto sul futuro merita di meglio: ha bisogno di essere cambiato con una proposta politica che cambi radicalmente la struttura produttiva per tornare a crescere.
La nostra missione produttiva
I problemi italiani sono precedenti alla crisi economica e la scelta cruciale per un paese che non cresce è come generare il cambiamento della propria struttura produttiva. Oggi più che mai siamo quel che creiamo. Per cambiare dobbiamo però mutare gli incentivi alla base delle scelte fondamentali della vita delle persone. Quanto lavorare e con quali prospettive? Quanto investire su se stessi? Il principale problema italiano è che questo paese ha smesso da molto tempo di cercare di essere il luogo per chi vuole lavorare. Lo ha fatto con una pubblica amministrazione inefficiente e un livello di corruttela endemico ma, soprattutto, ha fallito per un mercato del lavoro incoerente e un sistema fiscale sconsiderato.
Lavorare ormai non assicura le stesse opportunità del passato. Comprare casa è forse l’esempio più eclatante di questa trasformazione: se nel 1980 l’appartamento medio valeva tra 3 e 4 volte il reddito lordo annuo medio di un trentenne, oggi vale più di 10 di queste annualità. Non è il risultato di una bolla immobiliare italiana sproporzionata – certo non maggiore che negli altri paesi: dipende dal fatto che iI reddito da lavoro ha semplicemente smesso di essere centrale.
Senza la centralità del lavoro, la società italiana ha fermato la mobilità sociale e raggiunto una disuguaglianza dei redditi sugli stessi livelli di Stati Uniti e Regno Unito. La nostra diseguaglianza è però diversa da tutte le altre: è la diseguaglianza tra chi produce, autonomo o dipendente, vive del proprio lavoro e paga le tasse e chi invece vive di una rendita patrimoniale o di posizione. Dobbiamo incoraggiare le persone a investire su se stesse, sulla propria professionalità e sulle loro attività imprenditoriali, a mettersi in gioco nella competizione internazionale attraverso le loro capacità e i loro talenti. L’esatto contrario di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi vent’anni.
La Repubblica fondata sul lavoro
Nel paese con la più alta tassazione sul lavoro tra tutti i partner Europei di rilievo, l’imposta sul reddito è il punto di partenza ideale da cui cominciare per tagliare le tasse. Il fisco italiano è responsabile dello svilimento del ruolo del lavoro. Secondo i dati relativi al 2010 siamo il paese che tassa gli individui di più: più di Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Francia e Spagna.
Per rendersi conto della stortura nell’attuale sistema fiscale italiano, basta osservare come è cambiata l’aliquota marginale di imposizione fiscale sul reddito. Chi oggi guadagna 10.000 euro lordi paga un’aliquota marginale quasi doppia rispetto al 1975. Se nel 1975 pagava un’aliquota marginale per l’imposta sul reddito uguale al 13%, oggi questa è del 23%. Il caso più eclatante è quello del contribuente che oggi guadagna 30.000 euro lordi all’anno, circa 1.600 euro netti al mese. Nel 1975 l’aliquota marginale su un reddito equivalente era del 25%, oggi questa è al 38%. Questo significa che se il datore di lavoro di questo contribuente volesse offrirgli 100 euro in più, meno di 30 finirebbero nello stipendio al lavoratore stesso. 38 euro svanirebbero per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, circa 2 euro se ne andrebbero tra addizionali regionali e comunali e circa altri 30 euro finirebbero in contributi sociali. Tutto questo non ha senso. Non possiamo tenere in piedi un sistema fiscale così penalizzante per il lavoro.
In un paese di questo tipo il dibattito pubblico dovrebbe essere ossessionato dal tema della tassazione del lavoro. Invece siamo ostaggi della discussione sull’imposta sulla prima casa. Partiamo dall’Imu sulla prima casa: se la si abolisse si perderebbero circa 4 miliardi di Euro di gettito, stando ai livelli 2012. Il gettito complessivo da Imu in percentuale del Pil è circa la metà della Francia e della Gran Bretagna. Anche includendo l’Imu, il fisco italiano non è certo più patrimonializzato che altrove. Inoltre, l’Imu sulla prima casa è già una imposta piuttosto progressiva: più della metà di questo gettito viene dal 30% delle famiglie più ricche. Abolendo l’Imu sulla prima casa, come è stato fatto con una sospensione per il 2012, si renderebbe il nostro sistema fiscale perfino più regressivo. In un’economia come quella italiana che, fino al 2012, vantava una pressione fiscale più alta di Germania, Francia, Spagna e Inghilterra, una riduzione di imposta è una buona notizia. Eppure non c’è una sola buona ragione economica per cominciare dall’Imu.
Non più in alto del Quirinale
Per reperire le risorse per cominciare la riduzione delle imposte sul reddito delle persone fisiche è importante riconoscere che, alle distorsioni del sistema fiscale, corrispondono distorsioni nella distribuzione della spesa pubblica italiana. Uno dei casi più sorprendenti e importanti per finanziare la riforma fiscale è la spesa per gli organi esecutivi, legislativi e affari esteri: il cuore dell’amministrazione statale che però non eroga servizi parte del nostro stato sociale. Secondo Eurostat, nel 2010 questa si attestava in Italia a 1% di Pil più in alto della Gran Bretagna, dello 0,7% più della Germania e dello 0,8% più della Spagna. Alcune remunerazioni di alti funzionari dello Stato sembrano davvero incomprensibili. Molto si è scritto sulla remunerazione del precedente capo della polizia, che guadagnava quasi il doppio del capo dell’Fbi. Il suo non è purtroppo un caso isolato: il Presidente della Consulta che guadagna il doppio del Capo dello Stato. Anche il segretario generale della Consulta supera il Presidente.
Stabiliamo allora un principio semplice, dal forte valore simbolico e concreto in termini di spesa pubblica: nessuno può guadagnare più del 90% del Presidente della Repubblica, incluso il primo presidente della Corte di Cassazione, a cui molte delle remunerazioni della pubblica amministrazione sono legate. Imporre il limite che nessuno nella pubblica amministrazione, anche cumulando diversi incarichi, possa guadagnare più di 210.000 euro lordi, garantisce finalmente chiarezza nella struttura delle remunerazioni e un controllo della spesa pubblica. È un tetto generoso che offre ampi margini alla remunerazione del merito nella pubblica amministrazione. Certamente questa riforma non sarà in grado di risolvere questa peculiarità della spesa pubblica nella sua interezza. Eppure offre un punto di partenza importante per ridurre un eccesso di spesa, nel confronto internazionale, obiettivamente indifendibile. Questa riduzione offre veri risparmi di spesa corrente, che possiamo utilizzare a favore dei lavoratori, tagliando le aliquote dell’imposta sui redditi, a partire dalle aliquote più basse.
Una lotta all’evasione credibile e condivisa
Una volta tagliate le aliquote saremo in grado di affrontare l’insostenibile evasione fiscale su basi rinnovate. Ogni anno al momento di presentare la dichiarazione sui redditi, questo paese mente a se stesso. Stando al Dipartimento delle Finanze del MEF, 27.500 Euro è il reddito lordo (percepito prima delle imposte) che bastava aver dichiarato nel 2012 per essere più ricchi di 4 contribuenti italiani su 5. È difficile credere che figure professionali quali un commissario di polizia con qualche ora di straordinario o un insegnante di scuola media con 30 anni di anzianità, entrambi con una remunerazione lorda superiore ai 27.500 Euro, siano realmente parte del quinto più ricco di questo paese. 27.500 Euro è quindi una menzogna.
Dobbiamo riaffermare la credibilità nel contrasto all’evasione fiscale con un cambiamento di prospettiva. Per farlo introduciamo misure ovvie, come la riduzione del contante e la digitalizzazione e centralizzazione delle fatture (il fisco 2.0), riorganizziamo il sistema delle deduzioni, rendiamo detraibili più spese per scoraggiare l’elusione fiscale, correggiamo insomma le contraddizioni di un sistema fiscale disorganico. Ma soprattutto riduciamo le aliquote della imposta sul reddito del lavoro, a partire da una forte affermazione del principio di progressività, che si è perso nel corso degli ultimi anni.
Ogni euro strappato all’evasione fiscale sarà poi impegnato in fondo blindato per la riduzione delle imposte sul reddito da lavoro l’anno seguente. Impegnando i proventi dell’evasione in riduzione delle imposte sul lavoro per i primi cinque anni di governo, la lotta all’evasione beneficerà tutti i cittadini onesti invece che fermarsi alla sola sanzione degli evasori. Solo a questo punto la lotta all’evasione diverrà credibile, come non è mai stata. Per la prima volta verremo in sostegno dei contribuenti onesti, abbassando il carico fiscale sui produttori, prima di gravare su tutti con controlli onerosi e intrusivi per scovare i disonesti. Non sarà una lotta all’evasione solamente credibile ma, a differenza del passato, anche condivisa.
Sarà il più grande cambiamento della storia della lotta all’evasione. Tra cinque anni questo potrà essere un paese diverso: con un’evasione fiscale ai livelli delle altre economie sviluppate e un livello di imposizione del reddito da lavoro ridotto del 20% rispetto a oggi.
Sarà una riforma straordinaria, senza essere finanziata da vendite straordinarie di patrimonio dello Stato. Una Repubblica fondata sul lavoro, in cui il sistema fiscale riconosca la centralità dei produttori per favorire la trasformazione produttiva, è alla nostra portata: per un paese migliore, un paese che non c’è mai stato e l’unico che possiamo permetterci oggi. Un paese possibile.
Foto: Giuseppe Civati, Milano, novembre 2011 (Gian Mattia D’Alberto/LaPresse)