La riforma della Banca Mondiale
La sta portando avanti il presidente Jim Yong Kim, tra molto scetticismo (e monaci buddisti)
All’inizio di settembre, a tutti i dipendenti della Banca Mondiale è arrivata una mail che dichiarava il 10 del mese “giornata della meditazione consapevole”. Ospite d’onore della giornata sarebbe stato Thich Nhat Hanh, un monaco vietnamita di 87 anni, buddista zen. Tutti i dirigenti erano invitati a concedere l’intera giornata ai dipendenti per permettergli di assistere alla cerimonia, organizzata nel grande atrio della sede centrale dell’organizzazione a Washington.
Hanh è arrivato accompagnato da altri venti monaci in tonaca ed ha parlato di pratiche per mantenere la “consapevolezza” della propria mente. «È stato tutto molto zen», ha raccontato al Washington Post uno dei 300 dipendenti che hanno partecipato all’evento. La giornata è trascorsa in maniera perfetta, tranne per un piccolo incidente.
Quando Hanh è uscito dalla dall’edificio per intraprendere insieme ai suoi accoliti una “camminata meditativa”, la polizia che doveva scortarlo non era ancora arrivata. Per qualche minuto, Hanh ha dovuto affrontare gli automobilisti che, in modo molto poco zen, si lamentavano per la strada occupata dai monaci.
La riforma della Banca Mondiale
La “giornata della meditazione consapevole” è soltanto una delle iniziative, e forse non quella meglio riuscita, del direttore della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, che ha assunto l’incarico nel marzo del 2012. Un anno fa, nell’ottobre del 2012, Kim ha promesso di rivoluzionare la Banca Mondiale, un’istituzione che ha il compito di aiutare a combattere la povertà nel mondo, ma che spesso è stata accusata di avere una struttura goffa e inefficiente e di non essere in grado di raggiungere i propri obiettivi. E quello che si è posto Kim un anno fa è piuttosto ambizioso: eliminare dal mondo la povertà assoluta entro il 2030.
La Banca Mondiale è un’istituzione creata alla fine della Seconda guerra mondiale, con lo scopo iniziale di aiutare la ricostruzione dei paesi più colpiti dalla guerra. Nel corso degli anni il suo ruolo è cambiato e si è evoluto. Al momento è quello di studiare i processi che portano le nazioni allo sviluppo economico e offrire capitali e soprattutto assistenza e consigli ai paesi più poveri.
Negli ultimi anni la Banca Mondiale è stata accusata di sprecare denaro per alimentare la sua grande e inefficiente struttura burocratica e di non essere riuscita a portare a termine molti dei progetti che ha varato. Attualmente la Banca e le organizzazioni che controlla portano avanti più di quattromila progetti in 172 paesi diversi. Sono numeri importanti, ma, come l’Economist mette in guardia, sono meno importanti di quanto si possa pensare.
Combattere la povertà
Molti dei paesi che in passato hanno ricevuto aiuti dalla Banca Mondiale, negli ultimi anni hanno avuto una spettacolare crescita economica. La dotazione di fondi dell’organizzazione non è diminuita, ma le crescita economica nei paesi in via di sviluppo ha comunque cambiato le cose. Se in passato un prestito della Banca Mondiale poteva fare la differenza, oggi la sua capacità totale di prestare denaro è scesa sotto l’un per cento del PIL dei paesi a cui presta denaro.
Kim respinge alcune delle critiche che vengono rivolte alla Banca Centrale, sostenendo ad esempio che l’obiettivo di dimezzare il tasso di povertà del 1990 prima del 2015 è stato raggiunto con cinque anni di anticipo (anche se con un contributo da parte della Banca Mondiale non proprio fondamentale).
Nel mondo resta comunque circa un miliardo di persone che rientrano nella definizione di povertà assoluta dell’organizzazione: un reddito inferiore agli 1,25 dollari (circa un euro) al giorno. Secondo gli obiettivi di Kim, entro il 2030 dovranno uscire da questo stato. Gran parte di questi poveri vive in paesi come India e Brasile, proprio quei paesi in cui la crescita economica degli ultimi anni ha reso piuttosto inutile per il governo ricorrere ai prestiti della Banca Mondiale. Riformare la banca per focalizzarsi sul combattere la povertà anche in questi paesi in via di sviluppo, scrive l’Economist, potrebbe dare un senso alla riforma che Kim ha promesso un anno fa (e di cui, secondo alcuni dipendenti della Banca Centrale, si sono viste finora poche tracce).
A parte per le riunioni zen e la meditazione consapevole, la riforma voluta da Kim dovrebbe anche coinvolgere la struttura della Banca Mondiale. Fino ad oggi gli esperti della banca lavorano in compartimenti regionali e quelli che si occupavano di una regione (l’Asia, ad esempio) si consultavano molto raramente con quelli di un’altra area geografica. Al momento è in corso una transizione e il lavoro della banca dovrebbe d’ora in poi essere suddiviso per tipologia (finanza, infrastrutture, istruzione) e non più su base geografica.
La banca è stata anche accusata di finanziare troppi progetti, alcuni dei quali ben poco legati alla lotta contro la povertà (come ad esempio progetti per la conservazione delle tigri o di altre specie animali). Il piano di riforma prevede uno studio più accurato per individuare i paesi che hanno più bisogno di aiuto e, all’interno di quei paesi, le aree più povere dove i progetti e gli investimenti potrebbero essere più efficaci.
Una riforma utile?
La Banca Mondiale ha una lunga storia di riforme. Dagli esordi come banca per la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale è passata ad essere una banca che si occupava principalmente di prestiti ai paesi in via di sviluppo, per poi passare ad essere una “banca della conoscenza” che si occupava di studiare le cause dello sviluppo e nel fornire consigli per metterlo in atto. L’ultima transizione, quella voluta da Kim, dovrebbe essere a “banca delle soluzioni” (di cui ha parlato anche il 10 ottobre 2013 al meeting annuale di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale), cioè un’organizzazione in grado di fornire soluzioni pronte ed efficaci contro la povertà a tutti gli stati che ne abbiano bisogno.
Le varie transizioni non hanno sempre prodotto risultati notevoli e l’Economist ha parecchi dubbi che questa nuova trasformazione possa essere differente. La nuova struttura, non più basata sulle regioni, ma sulle competenze, potrebbe costringere i manager delle varie aree a viaggiare di continuo tra un paese e l’altro, fermarsi solo per il tempo strettamente indispensabile e quindi ripartire immediatamente verso un altro paese dove è in corso un altro progetto. Questo modo di procedere è già adottato – e molto criticato – da numerose altre agenzie e organizzazioni non governative.
All’interno della banca ci sarebbero poi dei dubbi sullo stesso Kim, che all’inizio del suo processo di riforma ha licenziato diversi dipendenti di alto livello dell’organizzazione, i quali a loro volta non hanno risparmiato critiche al suo modo di gestire l’organizzazione. Ma il più grosso dubbio del settimanale sul futuro della Banca è un altro e ha a che fare con la natura stessa dell’organizzazione. Se gli obiettivi promessi da Kim, eliminare la povertà estrema entro il 2030, dovessero essere raggiunti, si domandano all’Economist, quale ruolo resterà per la banca, i suoi 9 mila dipendenti e i suoi numerosi dirigenti? Qualcosa, conclude il settimanale, si inventeranno di sicuro.