I 40 anni di Quadrophenia
La storia del più leggendario disco degli Who, che uscì il 19 ottobre di un anno ricchissimo per la storia del rock
Per l’industria discografica britannica e americana il 1973 fu un anno particolarmente fecondo, che segnò un passaggio importante nella carriera di molti musicisti e, in certi casi, anche l’inizio di un modo nuovo di fare (e di pensare) la musica rock. Uscirono dischi come The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, Houses of the Holy dei Led Zeppelin, Goats Head Soup dei Rolling Stones, Berlin di Lou Reed, Selling England by the Pound dei Genesis, Mind Games di John Lennon, Living in the Material World di George Harrison, Aladdin Sane e Pin Ups di David Bowie, Don’t Shoot Me I’m Only the Piano Player e Goodbye Yellow Brick Road di Elton John. Fu anche l’anno del primo disco di Bruce Springsteen, dei Queen, dei Lynyrd Skynyrd, degli Aerosmith. In un libro che ripercorre gli eventi musicali di quell’anno, il giornalista Michael Walker scrisse che il 1973 fu «l’anno in cui morirono i Sessanta».
A ottobre di quell’anno uscì anche un doppio album che celebrò – come nessun’altra opera, prima o dopo – una parte importante della storia di quei Sessanta in Inghilterra: una parte non occupata né dai Beatles né dai Rolling Stones, ma piuttosto dai Kinks e più esclusivamente da quella che – prima di diventare una delle più grandi rock band del mondo – fu per qualche tempo la band simbolo della cultura Mod: gli Who. L’album si chiamò Quadrophenia, nacque quarant’anni fa dalla testa del chitarrista Pete Townshend – come quasi tutta la produzione musicale degli Who – e non era una raccolta di canzoni e basta: era la storia di un giovane mod londinese a metà degli anni Sessanta, una specie di film su vinile, che poi divenne un film vero. Fu un disco ambizioso ma segnato da molte difficoltà prima e dopo la pubblicazione: dai contrasti all’interno della band ai disguidi tecnici nelle esecuzioni dal vivo, fino ai problemi sempre più frequenti del batterista Keith Moon (che la sera della prima tappa americana del tour promozionale svenne sul palco).
Gran parte della storia è stata raccontata l’anno scorso in un bel documentario della BBC (“Can you see the real me?”) in cui Pete Townshend e il cantante Roger Daltrey – insieme ad altri collaboratori degli Who all’epoca – spiegano come nacque quella che oggi è da molti considerata la più importante opera rock mai scritta (la competizione è agguerrita, soprattutto da parte di Tommy, un altro disco degli Who di quattro anni prima) e, dallo stesso Townshend, «l’ultimo grande album degli Who».
La storia di Quadrophenia
Pete Townshend – creativo autore di gran parte della musica degli Who – cominciò a lavorare su Quadrophenia poco dopo il maggio 1972, nello stesso anno di pubblicazione dell’album Who came first, un suo disco da solista che riprendeva in parte alcune idee rimaste fuori dall’ultimo album degli Who (Who’s Next, 1971) e in parte un suo vecchio progetto mai realizzato (Lifehouse, inizialmente pensato come una sceneggiatura). Nel 1969 gli Who avevano già pubblicato il doppio album Tommy, l’altra loro celebre opera rock: la creatività di Townshend e la sua familiarità con le composizioni lunghe – costruite intorno a un unico tema narrativo e a partire da una linea melodica principale – erano peraltro visibili fin dai primi album, in cui alcune canzoni più lunghe sviluppavano delle storie a parte rispetto al resto dell’album (“A Quick One While He’s Away”, nell’album A Quick One del 1966, e “Rael”, in The Who Sell Out del 1967, da cui poi nascerà proprio l’idea per Tommy).
Per Quadrophenia, tutto partì da un racconto di Townshend che ripercorreva i primi anni di attività della band e gli anni della cultura Mod, un movimento giovanile che aveva creato una popolare moda estetica e musicale: ne uscì un nuovo lungo album pensato come la colonna sonora (effetti sonori inclusi) di un ipotetico film su un ragazzo londinese degli anni Sessanta. Quadrophenia racconta la storia di Jimmy Cooper, un giovane adolescente mod in cerca di risposte e di guai – come molti adolescenti – ma per di più affetto da una particolare forma di “doppia” schizofrenia: ospita in sé quattro personalità diverse (da cui il titolo dell’opera), che rappresentano ciascun componente degli Who.
Gli Who e la cultura Mod
Tra il 1964 e il 1965, e cioè gli anni in cui poi venne ambientata la storia di Quadrophenia, gli Who erano diventati uno dei gruppi di riferimento per i giovani mod londinesi, grazie alle frequentazioni di locali come il Goldhawk Social Club in Goldhawk Road e il club The Scene nel quartiere di Soho, e grazie anche alla conoscenza di uno dei personaggi più noti nel giro dei mod, Peter Meaden, che diventò il loro primo manager (era un “Face”, che nel gergo mod indicava solitamente quelli più in gamba e con un lavoro, e quindi in cima nella gerarchia dell’ammirazione). Fu Meaden a suggerire agli Who – che mod non erano, almeno inizialmente – di adottare quello stile, cambiando il loro aspetto e persino il nome (per qualche tempo si chiamarono High Numbers, un’altra espressione che nel gergo definiva un certo grado nella gerarchia). A proposito di Meaden, Daltrey disse:
All’epoca, in Inghilterra, il 90 per cento delle band somigliavano o ai Rolling Stones o ai Beatles. Noi somigliavamo agli Stones: avevamo i capelli lunghi e suonavamo una specie di blues trasandato. Fu Peter [Meaden] a farci rendere conto che non era tutto questione di musica e basta, che c’entrava anche l’immagine.
Oltre che la passione per il modern jazz e la musica nera in genere (rhythm and blues, soul, ska), i mod condividevano la ricercatezza nel look e nell’abbigliamento, l’amore per gli scooter italiani e il consumo di droghe sintetiche, soprattutto anfetamine (o mix di barbiturici e anfetamine chiamati purple hearts). Portavano i capelli tagliati alla francese, indossavano giubbotti parka, pantaloni stretti e mocassini, e giravano in Vespa o Lambretta, al contrario dei rivali rockers, che preferivano le motociclette e un look alla Marlon Brando nel film Il selvaggio, e con i quali scoppiavano risse di frequente (tra cui una leggendaria sulla spiaggia di Brighton, il 18 maggio 1964).
Scooter, benzina, abiti, droghe: i mod potevano permettersi tutto questo perché molti di loro avevano un lavoro e uno stipendio, e perché – come ricordato da Daltrey nel documentario della BBC – appartenevano alla prima generazione inglese del secondo dopoguerra ad avere qualche soldo in tasca.
Il ruolo di Peter Meaden
A quell’epoca, Meaden era alla ricerca di un complesso musicale con cui il movimento potesse identificarsi in maniera completa e univoca, e a un certo punto del 1964 gli sembrò che la sua sintesi dello stile mod («vivere con stile [“clean”] in circostanze difficili») potesse essere incarnata alla perfezione dagli Who/High Numbers, ragazzi ben vestiti e dalla faccia pulita che in verità erano dei gran casinari. Lo stemma dell’aeronautica militare britannica (la Royal Air Force), presente sui giacconi militari parka indossati dai mod, diventò il simbolo della band, che Meaden affiancò per qualche mese. Fu lui a scrivere i testi del loro primo 45 giri, I’m the face, che uscì il il 3 luglio del 1964: il singolo – un riadattamento da Got Love If You Want It di Slim Harpo, peraltro già reinterpretato dai Kinks – non andò benissimo, anche perché non c’entrava granché con l’energia nota ai primi fan degli Who, che già conoscevano le loro performance nei club.
Ad agosto, dopo aver ascoltato gli High Numbers dal vivo, i produttori Chris Stamp e Kit Lambert – più esperti e ben più ammanicati di Meaden – diedero a Meaden 150 sterline per farsi da parte, e diventarono i nuovi manager degli Who (che in autunno ripristinarono il loro nome originario). Nel 1965 arrivarono il singolo I can’t explain, le prime performance alla radio e in televisione, poi il grande successo di My Generation, e infine il primo album, a dicembre. L’intuizione di Meaden si rivelò azzeccata: gli Who erano diventati in pochissimo tempo l’icona della generazione Mod, raccontata da Quadrophenia nel 1973 e più tardi dal libro “Mods!” di Richard Barnes, giornalista e vecchio amico di Townshend (fu lui a suggerire il nome “Who”).
Gli Who, prima di Quadrophenia
Nella seconda metà degli anni Sessanta, spingendosi ben oltre l’immaginazione di Meaden, gli Who ci misero poco tempo a diventare una band molto nota e apprezzata anche fuori dal giro dei mod, per il loro talento e la loro eccentricità, e soprattutto per i loro spettacoli dal vivo: erano quelli di My Generation, quelli che sfasciavano gli strumenti ai concerti, quelli col chitarrista genio e il batterista formidabile e completamente fuori di testa (uno che nel 1964, quando prese a calci la batteria per la prima volta lo fece per “solidarietà” con Townshend, che aveva rotto per sbaglio il manico della sua Rickenbacker poche settimane prima); erano quelli che in una indimenticabile performance in diretta sulla CBS fecero esplodere la batteria di Moon e Townsend quasi perse l’udito.
In meno di quattro anni dal 1964 – grazie anche al loro primo tour negli Stati Uniti e al successo dei singoli I can see for miles e Magic Bus – gli Who erano diventati un successo internazionale. Quando uscì Quadrophenia, nel 1973, venivano da due album molto diversi, ed entrambi grandi successi di pubblico e di critica: Tommy, il doppio album del 1969, negli Stati Uniti aveva venduto 200 mila copie nelle prime due settimane; Who’s Next, pubblicato nel 1971, conteneva pezzi che in poco tempo sarebbero diventati tra i più noti e riconoscibili di tutto il repertorio degli Who (Baba O’Riley, Won’t get fooled again, Behind blue eyes). In mezzo c’era stato l’indimenticabile concerto a Leeds (Yorkshire), registrato a febbraio e pubblicato a maggio del 1970, uno dei migliori dischi dal vivo della storia del rock.
Le registrazioni di Quadrophenia
Nel documentario della BBC del 2012, Townshend spiega che quando iniziò a lavorare a Quadrophenia non era un buon momento, nei rapporti tra i componenti della band: «era ormai chiaro che Moon era un matto da ricoverare, e che se non avesse avuto una batteria da suonare probabilmente sarebbe finito in galera». Entwistle – il bassista che da sempre voleva essere un autore – era sempre più schiacciato dal ruolo di Townshend all’interno della band, mentre a Daltrey «importava soltanto essere una superstar». Townshend era peraltro ancora molto frustrato a causa del sostanziale fallimento del suo progetto Lifehouse (i cui materiali alla fine erano stati riutilizzati per Who’s Next e Who came first).
A maggio del 1973, dopo circa un anno di lavoro individuale, Townshend fu costretto a fare i conti con i limiti materiali di un doppio album, e lasciò fuori diverse canzoni e minuti di registrazioni, che poi in parte confluirono in album successivi: aveva scritto una cinquantina di pezzi in totale, abbastanza da farne non un doppio ma un quadruplo album. Alla fine presentò agli altri membri della band le demo complete di tutti i pezzi tenuti dentro: in quel momento, come ricorda Daltrey nel documentario della BBC, Quadrophenia era di fatto un disco di Pete Townshend in attesa di essere suonato dagli Who.
Quadrophenia – registrato tra maggio e giugno – uscì il 19 ottobre del 1973 nel Regno Unito e il 3 novembre negli Stati Uniti, e fu il sesto album degli Who registrato in studio: in entrambi i paesi raggiunse la seconda posizione nella classifica dei dischi più venduti (che negli Stati Uniti fu anche la posizione più alta mai raggiunta da un album degli Who). Nel Regno Unito al primo posto in classifica c’era Pin Ups di David Bowie, un disco che conteneva, tra le altre cose, le cover di due pezzi degli Who (Anyway, Anyhow, Anywhere e I can’t explain). Negli Stati Uniti primo era Elton John con Goodbye Yellow Brick Road.
Nonostante si trattasse di un disco meno immediato rispetto ai precedenti Who’s Next e Tommy, Quadrophenia fu tutto sommato ben accolto dal pubblico e dalla critica: la rivista statunitense Rolling Stone celebrò la grandezza e il talento degli Who, ma stavolta, per un album che avrebbe dovuto rappresentare quattro personalità diverse, vide nella natura individuale del lavoro di Townshend più un limite che un pregio.
Il ragazzo della copertina dell’album
La copertina dell’album fu realizzata dall’artista Graham Hughes, mentre le fotografie all’interno (contenute in un fascicolo di 22 pagine) furono fatte dal fotografo Ethan Russell, già autore di copertine celebri – tra cui quella di Who’s Next degli stessi Who, due anni prima, e quella di Let it be dei Beatles – oltre che fotografo ufficiale dei Rolling Stones nel loro tour americano del 1969. Di Russell, Townshend una volta disse: «Ethan è l’occhio civile di una forma d’arte incivile: il rock and roll».
Per la copertina, Hughes e Daltrey pensarono inizialmente di sovrapporre le facce dei quattro membri degli Who a formare un unico volto, ma alla fine fu deciso di mettere in copertina il protagonista della storia scritta da Townshend: un ragazzo a bordo di uno scooter, con un logo degli Who disegnato sul suo giubbotto, e i volti di Townshend, Daltrey, Moon ed Entwistle che compaiono nei quattro specchietti retrovisori (che non era un’esagerazione strampalata: gli scooter dei mod erano superaccessoriati).
Il ragazzo della fotografia – scattata da Hughes il 24 agosto 1973 – si chiamava Terry Kennett, detto “Chad”, ed era un giovane graffitaro che Townshend aveva conosciuto vicino allo studio di registrazione (i Ramport Studios, a sud di Londra, che finirono in gran parte delle fotografie dell’album). Russell lo utilizzò come modello per le foto di Jimmy, ma a un certo punto del servizio fotografico – raccontò lo stesso Russell nel documentario – Chad gli disse che doveva presentarsi in tribunale per difendersi dall’accusa di aver rubato un autobus: Russell lo accompagnò ed entrò in aula con lui. Al termine dell’udienza, il giudice si assicurò dell’occupazione di Chad e gli chiese: «ora che stai facendo?». «Faccio il modello», gli rispose Chad.
«E per chi [“who do you work for”]?».
«Per gli Who [“I work for the Who”]».
Il giudice chiese conferma a Russell, Russell annuì e Chad fu rilasciato.
La struttura di Quadrophenia
Quadrophenia si apre con il suono del mare, che come molti altri suoni dell’album furono raccolti dallo stesso Townshend con un registratore a nastro. Townshend raccontò che la prima immagine da cui nacque Quadrophenia fu proprio il ricordo delle onde sulla spiaggia, nel 1963, ai tempi delle loro primissime esibizioni nella sala da ballo dell’acquario di Brighton.
Nel primo pezzo dell’album, I am the sea, sovrapposte al suono delle onde, vengono presentate in sequenza le quattro linee melodiche principali di Quadrophenia, una per ogni componente della band e personalità di Jimmy: la prima linea è una breve frase eseguita alla tromba, le altre tre sono tracce vocali.
La prima linea melodica (sol#, fa#, sol#, la, si) è la linea principale nel brano Helpless Dancer e corrisponde alla personalità di Daltrey (il duro e “cattivo”, nell’idea di Townshend). La seconda linea melodica (sol#, sol, sol#, sol, re#, fa#, sol) è quella della parte in cui Daltrey canta “Is it me for a moment?” – la variazione in Doctor Jimmy –, e corrisponde alla personalità di Entwistle (il “romantico”). La linea melodica di Keith Moon (la#, la, la#) è il refrain nel brano Bell Boy, quello con una parte cantata dallo stesso Moon, e corrisponde alla personalità “folle”. L’ultima linea melodica (la#, la#, la#, sol#, fa#, re#) è quella di Townshend, il “buono”, ed è quella della parte in cui Daltrey canta “Love Reign O’er Me”, nell’ultimo pezzo.
Le quattro linee melodiche si ripresentano più volte, in più punti dell’album: le uniche due tracce che le contengono tutte e quattro sono due pezzi strumentali lunghi poco più di sei minuti ciascuno, Quadrophenia e The Rock, due delle canzoni musicalmente più complesse mai scritte da Townshend. Questa tecnica di composizione – che ripropone poche linee melodiche essenziali all’interno di pezzi diversi tra loro – dà all’album un senso di grande omogeneità e lo rende molto familiare già al primo ascolto.
I problemi durante il tour
Il tour promozionale di Quadrophenia iniziò in Inghilterra il 28 ottobre, a meno di due settimane dall’uscita dell’album: Entwistle, Moon, Daltrey e soprattutto Townshend – come lui stesso racconta nel documentario BBC – erano esausti prima ancora di cominciare. Quadrophenia – che oltre ai sintetizzatori, già presenti in Who’s Next, utilizzava una notevole quantità di suoni precampionati – si rivelò un disco molto più complicato del previsto da suonare dal vivo, principalmente a causa delle difficoltà nel sincronizzare le registrazioni degli effetti e dei suoni con la performance live della band sul palco. Molte tappe iniziali del tour furono in parte rovinate da inconvenienti tecnici, e alcune canzoni – The Dirty Jobs, Is It in My Head e I’ve Had Enough – furono completamente eliminate dalla scaletta già a partire dalla seconda tappa del tour.
Inoltre, diversamente dal tour di Tommy (un disco che veniva eseguito senza particolari soste), gli Who pensarono di far precedere ogni pezzo di Quadrophenia dal racconto della relativa parte della storia di Jimmy, spesso col risultato di spazientire il pubblico.
Dopo la fine del tour del 1973, se si esclude qualche altra data sporadica nel 1974, gli Who non riproposero più integralmente Quadrophenia dal vivo fino al 1996.
Il malore di Keith Moon e la serata di Scot Halpin
La sera del 20 novembre 1973 gli Who erano al Cow Palace di Daly City, a San Francisco, per la prima tappa americana del tour (partito da Stoke, in Inghilterra, un mese prima). Scot Halpin – uno studente di 19 anni, batterista per passione, che si era trasferito a San Francisco da qualche mese – era arrivato al palasport insieme a un amico molte ore prima dell’inizio del concerto, per assicurarsi i posti migliori, ed era tra i circa 13 mila e 500 spettatori di quella sera. Gli Who aprirono con tre canzoni tratte da dischi precedenti (I can’t explain, Summertime Blues e My Generation) prima di cominciare con i pezzi di Quadrophenia, che costituiva la parte centrale e più lunga dello spettacolo.
Dopo circa settanta minuti di concerto, durante l’esecuzione di Won’t get fooled again, Keith Moon svenne sulla batteria e fu subito trasportato fuori dal palco dal suo roadie Mick Double, aiutato da altri tecnici, mentre Townshend, Daltrey ed Entwistle chiudevano il pezzo senza sezione ritmica. Nel backstage, Double e gli altri assistenti infilarono Moon sotto la doccia, per fargli riprendere conoscenza, e gli fecero un’iniezione di cortisone, e la cosa sembrò funzionare. Nel frattempo Townshend spiegò al pubblico cosa stava succedendo e perché era così difficile continuare: «l’orribile verità è che senza di lui non siamo un gruppo», disse, piuttosto desolato.
Dopo circa mezz’ora di interruzione, Moon ricomparve sul palco e si unì di nuovo al gruppo per Magic Bus: riuscì a suonare per tutta la prima parte del pezzo, quella in cui serve solo il woodblock (quello strumento cavo di legno, a forma di mattoncino), ma quando attaccò con rullante e grancassa, crollò di nuovo sulla batteria. Fu trascinato di corsa nel backstage e stavolta non tornò sul palco: gli altri tre chiusero Magic Bus senza percussioni e proseguirono senza fermarsi con See Me, Feel Me (Daltrey provò a tenere il ritmo con un tamburello). Poi Townshend ringraziò il pubblico per il sostegno e, invece che chiuderla lì, chiese: «qualcuno sa suonare la batteria? Uno bravo, intendo».
Halpin e il suo amico non erano distanti dal palco, e l’amico urlò a un uomo della security: «Lui! Lui sa suonare la batteria!». Bill Graham, organizzatore del concerto, chiese ad Halpin: «ce la fai?», e Halpin – che non toccava una batteria da quando si era trasferito in California, e cioè da mesi – disse di sì e fu fatto salire sul palco (poi Halpin raccontò che gli diedero uno shottino di brandy, prima di metterlo alla batteria). Townshend strinse la mano ad Halpin, che ancora si stava sistemando sullo sgabello, e gli disse «ti guido io», mentre Daltrey annunciava al pubblico il nome del batterista (dal minuto 11 del primo video).
Townshend attaccò subito con il riff di Smokestack Lightning, un blues che gli Who – e molti complessi beat di quegli anni – eseguivano spesso dal vivo: Halpin gli andò dietro, cavandosela più che dignitosamente (anche con Spoonful, un altro vecchio blues che eseguirono subito dopo). Andò meno bene con Naked Eye, un pezzo degli Who decisamente più difficile, con diverse variazioni ritmiche. Tutto il concerto fu filmato con una videocamera in bianco e nero, per l’archivio personale di Bill Graham.
Alla fine dello spettacolo gli Who chiamarono Halpin nel backstage e gli regalarono un giaccone del tour (che però qualcuno gli rubò quella stessa notte, insieme alle bacchette). La causa del malore di Moon non fu mai del tutto chiarita, anche se in un’intervista del 1979 per Rolling Stone Townshend disse che quella sera, prima del concerto, Moon – che era tipo da fare cose del genere – aveva preso una notevole quantità di tranquillanti per animali con una notevole quantità di brandy. Nella sua biografia di Keith Moon, il giornalista Tony Fletcher scrisse che quella sera l’amica con cui Moon si era intrattenuto prima di salire sul palco – una ragazza conosciuta lì in California – collassò poco dopo l’inizio del concerto, molto prima di Moon, e fu portata in ospedale.
Il film del 1979
Nel 1979 – un anno dopo la morte di Keith Moon per overdose di sedativi contro la dipendenza da alcol – di Quadrophenia fu fatto anche un film, diretto dal regista inglese Franc Roddam e prodotto dagli stessi Who. Roddam raccontò al New York Times che, qualche tempo prima di morire, Moon gli aveva detto: «ho una grande idea: perché non lo dirigiamo insieme?», e Roddam gli aveva risposto: «ho una grande idea: perché non mi fai suonare la batteria nel prossimo disco degli Who?».
Il film non fu un musical, come quello del 1975 tratto da Tommy, ma un’interpretazione piuttosto lineare e accurata della storia di Jimmy per come Townshend l’aveva immaginata. Tra gli attori c’era anche Sting, che faceva la parte del Mod più tosto e più invidiato (Ace Face), mentre per la parte di Jimmy – per cui fece un provino anche John Lydon dei Sex Pistols – fu infine scelto un giovane attore semisconosciuto, Phil Daniels (protagonista, molti anni dopo, del videoclip di Parklife dei Blur).
Il film, ambientato a Londra nel 1964, ritraeva le occupazioni e i costumi tipici della cultura Mod degli anni Sessanta, dalle serate al Goldhawk Social Club alle risse tra mod e rockers. Non tutti i pezzi di Quadrophenia furono utilizzati nel film, e alcuni furono remixati e accorciati rispetto agli originali del 1973: Townshend scrisse anche tre nuove canzoni per la colonna sonora, che fu dedicata proprio a Peter Meaden, il primo manager degli Who, morto per un’overdose nel 1978 (circa un mese prima di Keith Moon). Due di quelle nuove canzoni della colonna sonora furono in assoluto i primi pezzi registrati dagli Who con Kenney Jones alla batteria al posto di Moon.
Secondo molti, la pubblicazione e la rapida diffusione del film e della colonna sonora contribuirono alla rinascita in Inghilterra di una nuova ondata Mod, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, guidata da gruppi come i Jam e i Chords.
I tour del 1996-97 e del 2012
Il 29 giugno del 1996, per un evento benefico organizzato a Hyde Park, Townshend, Entwistle e Daltrey – con Zak Starkey (figlio di Ringo Starr) alla batteria – suonarono interamente Quadrophenia dal vivo, tornando insieme su un palco per la prima volta dal 1989, con diversi musicisti come ospiti, tra cui David Gilmour, chitarrista dei Pink Floyd. Dato il grande successo, ne seguì un tour in Inghilterra e negli Stati Uniti, con gran parte dei musicisti già coinvolti nel concerto di Hyde Park.
A novembre del 2012, Townshend e Daltrey – sempre con Zak Starkley alla batteria, e stavolta con il bassista Pino Palladino al posto di Entwistle, morto nel 2002 – iniziarono un nuovo tour americano di Quadrophenia, nonostante l’aggravarsi dei disturbi all’udito di Townshend (di cui cominciò a soffrire già dagli anni Settanta). In mezzo c’era stata la pubblicazione di Endless Wire, nel 2006, il primo album degli Who con pezzi inediti dai tempi di It’s hard (1982).
Nella serata conclusiva della parte europea del tour – l’8 settembre 2013, a Wembley –Townshend ringraziò il pubblico al termine del concerto, per esser stati parte di qualcosa «scritto nel 1973, su fatti del 1963, ed eseguito nel 2013».