Il rastrellamento del Ghetto di Roma
Il 16 ottobre del 1943 i nazisti portarono via dalle loro case più di mille ebrei e li mandarono nei campi di sterminio
Poco dopo le 5 del mattino di sabato 16 ottobre 1943 i militari delle SS naziste che avevano occupato la città di Roma con la fine del regime fascista e l’armistizio tra Italia e alleati, accompagnati dalla polizia militare tedesca, fecero irruzione nel ghetto ebraico di Roma e iniziarono ad arrestare e radunare gli ebrei, lì e in tutta la città. In poche ore arrestarono 1024 persone, tra cui oltre 200 bambini. Due giorni dopo, il 18 ottobre, tutti i prigionieri partirono dalla stazione Tiburtina diretti ai campi di sterminio in Germania. Fu la prima massiccia deportazione di ebrei dall’Italia in Germania (ma centinaia di ebrei erano stati arrestati a Trieste pochi giorni prima). Soltanto quindici uomini ed una donna tornarono in Italia.
Il ghetto di Roma
Dopo la caduta di Mussolini e l’8 settembre, gli ebrei di Roma, come gran parte della popolazione italiana, vivevano in una situazione di incertezza. Gli alleati erano sbarcati nel sud Italia, dove il re fuggito da Roma aveva ricreato un governo arreso agli inglesi e agli americani, e avanzavano piuttosto lentamente verso Roma. A nord, Benito Mussolini aveva da poco fondato la Repubblica di Salò, tentativo di ricostruzione in fuga del regime fascista. Roma si trovava in una situazione molto particolare. Formalmente era sottoposta alle autorità della Repubblica di Salò, ma i tedeschi impedirono che vi si installassero ministeri e che la città fosse visitata dalle autorità fasciste. La città era militarmente occupata dall’esercito tedesco e i poteri civili erano di fatto esercitati dall’ambasciata tedesca a villa Wolkonsky, vicino a San Giovanni in Laterano. Per la popolazione non era chiaro chi comandasse e a molti sembrava che la liberazione della città da parte degli alleati fosse oramai questione di poche settimane: in realtà Roma venne liberata soltanto nel giugno del 1944. Per gli ebrei – che vivevano in grande maggioranza nel ghetto a ridosso del Tevere creato nel XVI Secolo su ordine dell’allora Papa Paolo IV – la situazione era particolarmente preoccupante. In tutta Italia si erano oramai diffuse le notizie di deportazioni e uccisioni indiscriminate di ebrei nel resto d’Europa, anche grazie agli avvertimenti che Radio Londra diffondeva clandestinamente. Fino a che era resistito il regime fascista, malgrado discriminazioni e persecuzioni estese, in Italia non erano avvenute né deportazioni nei campi né stermini di massa. In molti non credevano che qualcosa di simile a quello che si raccontava fosse successo in Polonia potesse avvenire anche in Italia.
I tedeschi
In parte avevano ragione. Molti degli ufficiali tedeschi in Italia erano contrari, spesso per ragioni pratiche e strategiche, alla deportazione degli ebrei e in particolare di quelli della comunità romana. La massima autorità civile tedesca in Italia era l’ambasciatore Rudolph Rahn, che all’epoca si trovava a nord, per tenere sotto controllo Mussolini e la Repubblica di Salò. A Roma c’era il suo sostituto, il console Eitel Friedrich Moellhausen – un diplomatico di carriera che non aveva una particolare simpatia per il nazismo. Tra i suoi sottoposti c’era il comandante delle SS, il maggiore Herbert Kappler, che il 24 settembre 1943 ricevette dal comando supremo delle SS l’ordine di procedere al rastrellamento degli ebrei di Roma e alla loro deportazione. Come Moellhausen anche Kappler era contrario alla deportazioni. I loro motivi non erano del tutto umanitari. Kappler preferiva usare gli ebrei di Roma per i lavori forzati e impegnarli nella costruzione di fortificazioni. Inoltre, entrambi sapevano che la comunità ebraica di Roma era una delle più antiche del mondo ed era integrata con la popolazione locale. Un rastrellamento avrebbe potuto complicare i rapporti con la popolazione di Roma ed anche con il Vaticano, che molti ufficiali tedeschi – ora che l’esito della guerra cominciava a sembrare preoccupante – vedevano come una possibile protezione dopo la sconfitta. Almeno parte di questi timori sarebbero stati confermati pochi giorni dopo quando il 27 settembre la popolazione di Napoli insorse contro gli occupanti tedeschi. Il timore dell’insurrezione era particolarmente forte negli ufficiali nazisti: il 26 Moellhausen e Kappler si recarono dalla massima autorità militare tedesca in Italia, il feldmaresciallo Albert Kesselring, per chiedergli quante truppe avrebbe potuto distaccare per procedere al rastrellamento in tutta sicurezza. Kesselring disse che non poteva distaccare nemmeno un soldato. In quei giorni gli alleati stavano rapidamente avanzando verso Napoli e tutte le truppe erano necessarie per una linea difensiva che veniva approntata intorno a Montecassino, al confine tra Lazio e Campania.
L’oro di Roma
Il 26 settembre sembrava che i tedeschi non avessero né l’intenzione né la capacità di procedere al rastrellamento degli ebrei. Quella sera stessa, però, Kappler convocò a villa Wolkonsky i capi della comunità ebraica romana, il rabbino capo Ugo Foà e il presidente della comunità Dante Almansi, e chiese loro di consegnare entro 36 ore 50 chili d’oro, oppure di consegnare 200 capi famiglia come ostaggi. Durante il processo seguito alla fine della guerra, Kappler spiegò quella richiesta dicendo che pensava così di mostrare ai suoi superiori di Berlino che era possibile sfruttare in altro modo gli ebrei di Roma e quindi di riuscire ad evitare la loro deportazione. Ma quello stesso pomeriggio Kappler aveva scoperto che l’esercito non lo avrebbe aiutato, e questa è una spiegazione più plausibile alla sua iniziativa. Quella notte stessa la comunità ebraica si riunì per discutere cosa fare (questa storia viene raccontata nel film di Carlo Lizzani “L’oro di Roma”, che su YouTube è possibile vedere per intero). La comunità dibatté a lungo, ma alla fine venne presa la decisione di pagare. Per tutto il 27 settembre ci fu una lunga coda davanti all’edificio della presidenza della comunità. Vennero donati gioielli, lingotti, collane, anelli e persino denti d’oro. Alla donazione parteciparono anche diversi cattolici che, per evitare rappresaglie, vennero iscritti nei registri senza il loro vero nome e ricevettero ricevute anonime. Alle 11 di mattina del 28 settembre la raccolta dell’oro venne terminata e ci furono grida di gioia quando venne proclamato che in tutto erano stati messi insieme 50 chili e 300 grammi d’oro. L’oro venne caricato in dieci scatole su un taxi e alcuni rappresentanti della comunità salirono sull’auto diretti in via Tasso, dove aveva sede il quartiere generale della Gestapo. Alcuni di loro raccontarono che fecero i tre chilometri di viaggio con il terrore di aver sbagliato i conti.
Il rastrellamento
Dopo alcune ore di tensione, in cui l’oro venne pesato di nuovo, il riscatto venne accettato. La comunità ebraica di Roma si sentì al sicuro: Kappler aveva dato la sua parola, in cambio dell’oro la comunità non sarebbe stata disturbata. I 50 chili vennero spediti immediatamente a Berlino. Ma in Germania i comandanti delle SS si erano accorti che a Roma stavano cercando di ignorare i loro ordini. Il 6 ottobre arrivò a Roma il capitano delle SS Theo Dannecker, un veterano della “questione ebraica”. Dannecker aveva lavorato nella deportazione degli ebrei di Parigi nel 1942 ed era stato poi nominato capo delle operazioni contro gli ebrei in Bulgaria. Dannecker arrivò con un ordine scritto che imponeva a tutte le autorità di polizia di collaborare con lui per completare la deportazione nel più breve tempo possibile. La retata venne preparata su una grande cartina di Roma a villa Wolkonsky. Gli ebrei, anche quelli che vivevano fuori dal ghetto, erano registrati dal 1938 (quando il regime fascista aveva approvato le “leggi razziali“) quindi era facile individuare le loro case sparse per la città. Alcuni commissari di polizia italiana aiutarono Dannecker nella sua pianificazione. La mattina del 16 ottobre Dannecker non volle nessun italiano tra gli uomini che dovevano compiere l’azione: i tedeschi non si fidavano della reazione della popolazione e nemmeno di quella delle autorità di polizia. In tutto vennero coinvolti 379 tra soldati e ufficiali delle SS e della Feldgendarmerie, la polizia militare dell’esercito tedesco. Un centinaio, accompagnati da pochi camion, erano destinati al ghetto, il resto doveva raggiungere gli altri ebrei sparsi per la città.
La data scelta per il rastrellamento fu sabato 16 ottobre, all’alba del giorno di festa, in modo da trovare il numero più alto possibile di persone in casa. Alle 5 e un quarto, dopo aver bloccato le vie di accesso al ghetto, le SS cominciano a bussare alle porte delle varie case. In ogni casa chiedevano quante persone vi abitassero e poi consegnavano un bigliettino con alcuni ordini. Le famiglie ebree dovevano prepararsi a un lungo viaggio, mettere insieme otto giorni di viveri, prendere con sé gioielli e altri oggetti di valore, chiudere a chiave le case e presentarsi in strada entro 20 minuti. Molti testimoni di quella notte raccontarono che erano anni che nessuno aveva in casa cibo per otto giorni. Chi dopo il tempo assegnato non si fece trovare in strada venne trascinato a forza fuori dalla propria casa. Mentre il rastrellamento procedeva, molti uomini corsero a nascondersi nelle cantine o nelle soffitte. Erano convinti che i tedeschi volessero soltanto prendere gli uomini abili al lavoro e mandarli a scavare trincee al fronte. Dopo poco, le grida di donne e bambini li avvertirono che le SS stavano prelevando tutti. In poche ore e dopo numerosi viaggi dei pochi camion a disposizione di Dannecker, 1.259 persone vennero radunate al Collegio Militare di Palazzo Salviati, a Trastevere.
Dopo il 16 ottobre
I tedeschi compirono quel giorno i primi controlli tra le persone radunate al Collegio e poco più di duecento persone vennero liberate – riconosciuti come cittadini stranieri o non ebrei. I prigionieri vennero fatti attendere per 30 ore. Poi, intorno alle 14 del 18 ottobre 1943, vennero fatti salire su 18 vagoni di un treno alla stazione Tiburtina e vennero portati al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 15 uomini e una donna riuscirono a ritornare. Nessuno dei 200 bambini catturati quella notte sopravvisse. Dopo la guerra Kappler venne processato da un tribunale militare italiano e condannato all’ergastolo. Riuscì ad evadere nel 1977 e morì l’anno dopo in Germania. Dannecker morì suicida, poco dopo essere stato catturato dagli alleati nel 1945.