La Cina ha un problema con l’acqua
È troppo poca, spiega l'Economist, e il governo sta facendo le cose sbagliate per risolvere il problema
L’Economist di questa settimana dedica due articoli a quello che molti ambientalisti definiscono il principale problema della Cina: non l’inquinamento dell’aria – Pechino è considerata una delle città più inquinate del mondo e se ne è parlato di nuovo all’inizio di quest’anno – né quello del cibo, che ha causato diversi scandali recenti. Il problema è la scarsità d’acqua e il fatto che molti fiumi e torrenti sono incredibilmente inquinati.
Alla base della questione c’è una divisione di carattere geografico: nella metà settentrionale del paese vive circa metà della popolazione e ci sono due terzi delle terre coltivabili, ma l’80 per cento delle risorse idriche – tra cui l’enorme bacino dello Yangzi, chiamato in italiano Fiume Azzurro – si trova invece a sud. A Pechino, che si trova a nordest, l’acqua disponibile è molto poca: appena 100 metri cubi l’anno a persona, livelli paragonabili all’Arabia Saudita e molto al di sotto della soglia della scarsità, definita internazionalmente a circa 1000 metri cubi l’anno a persona. Complessivamente, la Cina ha circa un quinto della popolazione mondiale ma solo il 7 per cento delle riserve idriche.
Al momento la Cina usa molta meno acqua di un qualsiasi paese europeo, circa 400 metri cubi a persona all’anno (in totale, 600 miliardi di metri cubi l’anno), ma i livelli di utilizzo sono già insostenibili. La prima conseguenza è che i corsi d’acqua spariscono: l’Economist dice che i 50 mila fiumi con una portata significativa degli anni Cinquanta sono diventati circa 23 mila e aggiunge che “come se questo non fosse abbastanza, la Cina sta inquinando la poca acqua rimasta”. Sulle rive del Fiume Giallo (Huáng Hé, il secondo corso d’acqua del paese dopo il Fiume Azzurro) ci sono oggi quattromila impianti petrolchimici e, secondo una ricerca governativa del 2007, un terzo dell’acqua è così inquinata da non poter essere utilizzata teoricamente neppure per irrigare i campi. Il ministero per il Territorio dice che oltre metà dell’acqua nella pianura settentrionale cinese, ai margini della quale si trova Pechino, è inadatta all’utilizzo industriale, mentre sette decimi non è abbastanza pulita per il contatto umano, ovvero neppure per lavarsi.
I rimedi sbagliati
L’Economist sostiene anche che i rimedi che sta portando avanti la classe dirigente cinese sono straordinariamente sbagliati. “Per decenni il paese è stato governato dagli ingegneri, molti dei quali ingegneri idraulici (come l’ultimo presidente, Hu Jintao). Un parziale risultato è che i leader comunisti hanno reagito ai problemi idrici con la costruzione di progetti ingegneristici su scala sbalorditiva”. Il più famoso è la Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro, ma stanno per cominciare i lavori di un’infrastruttura ancora più vasta, il cosiddetto Progetto di Trasferimento d’Acqua Sud-Nord.
Il progetto prevede di collegare il Fiume Azzurro con il Fiume Giallo attraverso tremila chilometri di canali, con l’obiettivo finale di trasferire l’abbondante acqua del sud nel secco (e industriale) nord del paese. Dei tre canali principali, il primo dovrebbe aprire tra pochi mesi e spostare miliardi di metri cubi d’acqua (quella che è stata spostata finora era così inquinata che un terzo dei costi è andato in depurazione). A dimostrazione del fatto che l’acqua è sempre stata al centro dei progetti delle autorità cinesi, il canale sfrutta anche una via d’acqua tra Pechino e Hangzhou che venne completata dagli imperatori verso il 500 avanti Cristo, il cosiddetto Grande Canale. I numeri del progetto sono di trasferire 45 miliardi di metri cubi l’anno d’acqua al costo complessivo di circa 80 miliardi di dollari: l’Economist osserva che “sarebbe più economico desalinizzare una quantità equivalente di acqua di mare”.
L’enorme progetto ha molti punti critici. Il principale è di tipo ambientale, visto che i danni potenziali sono irreparabili. Un altro problema del progetto è che avrà un impatto su molti paesi geograficamente vicini alla Cina che dipendono dalle acque del Mekong e del Brahmaputra, interessati dalle enormi infrastrutture cinesi. Tra questi paesi ci sono l’India, il Bangladesh e il Vietnam, e non tutti sembrano convinti dalle assicurazioni cinesi che la diminuzione nella portata dei fiumi sarà solo dell’1 per cento. Riassume l’Economist:
Il governo sta affrontando il problema nel modo sbagliato. Costruire dighe o deviare fiumi influenza solo la disponibilità della risorsa: aumenta l’acqua disponibile catturandone una parte maggiore di quella che scorre nei fiumi o la muove da un corso d’acqua a un altro. Il governo farebbe meglio a concentrarsi sulla domanda, riducendo il consumo d’acqua in modo da usare meglio le risorse limitate. L’acqua è troppo economica in molte città e costa di solito un decimo rispetto all’Europa. […] L’industria ricicla troppa poca acqua, l’agricoltura ne spreca troppa. Prezzi più alti aumenteranno i costi per le fattorie e le fabbriche, ma sarebbe meglio che spendere miliardi per spostare l’acqua in giro per il paese.
I piani di sviluppo dovrebbero essere anche riscritti con un occhio alla scarsità. La Cina sta costruendo città da un milione di persone nel deserto dei Gobi. Questo non ha senso. Il governo dovrebbe smettere di incentivare la domanda di acqua in luoghi dove non ce n’è.
Ma la scarsità d’acqua è un problema troppo pressante per la Cina, che ha già in programma di utilizzare più risorse idriche di quante ha attualmente a disposizione per sostenere la crescita economica del prossimo futuro. I programmi di investimento nello shale gas – che in alcune zone del mondo come gli Stati Uniti hanno già portato a grandi benefici economici – avranno bisogno di grandi quantità d’acqua (ciascun pozzo per l’estrazione dello shale gas ne usa circa 15 mila tonnellate l’anno) e ancora di più ne serviranno per il raffreddamento delle 450 nuove centrali a carbone che dovrebbero sorgere nel paese.
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