L’uomo più potente del Medioriente di cui non avete mai sentito parlare
Si chiama Qassem Suleimani, è iraniano, è una cosa a metà tra il capo delle forze speciali e il ministro degli Esteri
Da almeno 15 anni un pezzo rilevante della politica estera dell’Iran – che condiziona quindi quella di tutta l’area, dal Libano all’Iraq, e quindi ha conseguenze anche sugli Stati Uniti e il resto del mondo – viene condotta da un uomo di cui si parla molto poco, come molto poco si sa dell’unità dell’esercito iraniano di cui è il capo, le forze Quds (un corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie). Si chiama Qassem Suleimani, in Iran è famosissimo ed è una specie di eroe nazionale: intoccabile, amico di tutti i politici che contano, a partire dalla guida suprema Ali Khamenei. A vederlo in video e in foto – poche, quelle in circolazione sono pubblicate anche sulla sua pagina Facebook – sembra un tipo qualsiasi: sorride spesso, alterna divisa militare e abiti civili, e quando parla ha un tono di voce sempre molto basso e pacato.
A dispetto delle apparenze, Suleimani è considerato responsabile direttamente o indirettamente di diversi attentati e violenze in giro per il Medioriente (ma anche fuori): tra le altre cose, ha organizzato e coordinato le milizie sciite in Iraq dopo la guerra del 2003 e ora sta collaborando col dittatore siriano Bashar al Assad e altri gruppi militari contro i ribelli siriani. Di lui nel corso degli anni si è detto e scritto un po’ di tutto: Richard Clarke, agente dell’antiterrorismo statunitense durante le amministrazioni Clinton e Bush figlio, ha detto: «Io vedo [Suleimani] come una sorta di genio del male che sta dietro a tutte le attività che le forze Quds hanno fatto, a tutta l’influenza che l’Iran ha ottenuto». Un funzionario statale americano invece lo descrive così: «È come Keyser Soze dei Soliti Sospetti: è ovunque e da nessuna parte». Il 30 settembre il New Yorker ha pubblicato un lungo articolo di Dexter Filkins, il più completo finora, che mette insieme quello che si sa su Suleimani e aggiunge un bel po’ di cose nuove.
Chi è Qassem Suleimani
Suleimani ha 56 anni, è basso, ha i capelli brizzolati e la barba sfatta. È un “uomo piccolo” ma chi lo conosce dice che è dotato di quella qualità che gli arabi chiamano khilib, il carisma. Un ex funzionario statunitense in Iraq ha detto di lui: «Ci possono essere dieci persone in una stanza, ma quando Suleimani entra non si siede lì accanto a loro. Si siede dall’altra parte, da solo, in un modo molto discreto. Non parla, non commenta, rimane lì seduto e ascolta. E, inevitabilmente, i pensieri di tutti i presenti nella stanza sono solo per lui». Suleimani ha descritto se stesso come “il più piccolo dei soldati”: è un’esaltazione della modestia, dice Filkins, quasi teatrale per un uomo della sua posizione e del suo potere.
Suleimani deve la sua fortuna all’amicizia che lo lega alla guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, la più importante e potente figura politica di tutto il paese. È un convinto sostenitore del sistema autoritario iraniano e non potrebbe essere altrimenti. Nel luglio 1999, nel momento più intenso delle proteste studentesche anti-governative che seguirono alla chiusura del giornale Salam, Suleimani fu uno delle guardie rivoluzionarie che firmarono un “avvertimento” all’allora presidente riformista Mohammad Khatami, in cui si invitava a reprimere in fretta e in maniera decisa qualsiasi forma di protesta (“La nostra pazienza è finita”, c’era scritto nella nota). Per queste ragioni, e per il suo impegno e la sua dedizione nelle forze Quds, Khamenei ha definito Suleimani come “un martire vivente della rivoluzione”.
Suleimani, scrive Filkins, vive a Teheran, la capitale dell’Iran, e sembra fare una vita piuttosto tranquilla, «da burocrate di mezza età». Raccogliendo diverse testimonianze di persone che l’hanno conosciuto nel corso degli anni, Filkins racconta di lui: «Si alza alle 4 ogni mattina e va a dormire alle 21.30 tutte le sere»; «è rispettoso di sua moglie» e a volte la porta con sé in alcuni dei viaggi che compie. Ha 5 figli, tre maschi e due femmine. Una delle sue figlie, Nargis, vive in Malesia e lo preoccupa, perché si sta allontanando dai precetti dell’Islam.
Suleimani in guerra
Nel 1979, l’anno della rivoluzione islamica guidata da Khomeini, Suleimani aveva 22 anni: decise di unirsi alle “Guardie Rivoluzionarie”, una forza militare istituita dalla nuova leadership religiosa iraniana per prevenire un possibile colpo di Stato che avrebbe potuto riportare al potere lo scià. Diciotto mesi dopo iniziò la guerra tra Iran e Iraq. Suleimani fu mandato al fronte con una semplice missione: portare rifornimenti di acqua ai soldati. «Sono entrato in guerra per svolgere una missione di 15 giorni e ho finito per star lì fino alla fine della guerra», disse diversi anni dopo. Durante gli otto anni di conflitto i religiosi al potere a Teheran mandarono migliaia di giovani direttamente tra le linee irachene, spesso per “ripulire” i campi minati. Il numero dei morti tra gli iraniani fu molto alto. Suleimani, che nel frattempo aveva iniziato a svolgere missioni di comando, cominciò a sentire molto la pressione e la responsabilità per le perdite di vite umane. Scrive Filkins:
«Prima di mandare i suoi uomini in battaglia, li avrebbe abbracciati uno a uno, per dirgli addio: nei discorsi, tesseva le lodi dei soldati che erano diventati martiri, e chiedeva perdono per non essere diventato martire lui stesso»
Si è scritto molto, negli anni, delle capacità di Suleimani in battaglia. Ryan Crocker, ambasciatore americano in Iraq dal 2007 al 2009, una volta chiese a uno dei leader iracheni che lo conosceva bene se Suleimani fosse particolarmente religioso. La sua risposta fu: «Non molto. Frequenta la moschea a intervalli regolari ma non assiduamente. Non lo guida la religione. Lo guidano il nazionalismo e l’amore per la battaglia».
Alcune cose che ha fatto Suleimani nelle forze Quds
Dalla fine della guerra tra Iran e Iraq, la storia e le vicende di Suleimani sembrano diventare un film. Verso la fine degli anni Ottanta Suleimani fu mandato al confine orientale per aiutare i ribelli afghani nella loro guerra contro i talebani – gli iraniani vedevano con parecchia ostilità i talebani, principalmente per le persecuzioni nei confronti della minoranza sciita afghana. Anche qui Suleimani riuscì a farsi una reputazione. Il confine tra Iran e Afghanistan era un territorio molto frequentato dai trafficanti di droga – problema peraltro presente ancora oggi – e molti dei soldati e dei leader locali rimasero coinvolti in affari illegali ed episodi di corruzione. Suleimani si distanziò da questo gruppo di persone e al contrario cercò di frenare le attività illecite, guadagnandosi stima e rispetto tra i suoi soldati.
Quindici anni fa, nel 1998, Suleimani prese il comando delle forze Quds, un’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie: in arabo il termine “Quds” significa “Gerusalemme”, che i combattenti di questa unità hanno promesso di liberare. Negli ultimi trent’anni le forze Quds sono state per l’Iran quello che la CIA e le forze speciali, assieme, sono state per gli Stati Uniti: uno strumento di intelligence, forza militare e politica estera potente e insieme sfuggente. Il loro compito più importante è stato esportare la rivoluzione islamica iraniana all’estero.
Suleimani ha usato l’influenza e il potere delle forze Quds per cambiare i rapporti in Medioriente in favore dell’Iran, usando tutti i mezzi a sua disposizione: assassinando politici, fornendo armi e sostegno agli alleati e, per più di un decennio, gestendo una rete di gruppi responsabili dell’uccisione di centinaia di americani in Iraq. John Maguire, ex funzionario della CIA in Iraq, lo ha descritto come «l’agente operativo oggi più potente in tutto il Medio Oriente» («e nessuno ha mai sentito parlare di lui», ha aggiunto). Suleimani ha trasformato le forze Quds in un’organizzazione con una capacità di azione senza precedenti, in grado di compiere operazioni speciali finanziarie, di intelligence e sabotaggio di vario tipo: si stima che oggi le forze Quds comprendano tra i 10 e i 20mila uomini, divisi tra quelli che combattono e quelli che addestrano.
Dopo l’11 settembre, i talebani e l’Iraq
Ryan Crocker, che nel settembre 2001 lavorava per il dipartimento di Stato americano, ha raccontato a Filkins di avere avuto diversi incontri con gli iraniani prima dell’inizio della guerra in Afghanistan, nell’ottobre 2001: l’Iran era disposto a collaborare con gli Stati Uniti, vista la rivalità decennale con i talebani afghani. Crocker raccontò che durante quei colloqui ebbe la netta sensazione che gli iraniani rispondessero direttamente a Suleimani (lo chiamavano “Haji Qassem”). Prima che iniziassero i bombardamenti sull’Afghanistan, Crocker iniziò a percepire addirittura una certa impazienza da parte dell’Iran, che spingeva per accelerare i tempi delle operazioni. Ne seguì comunque una collaborazione fruttuosa, almeno per la prima parte della guerra afghana.
Il 29 gennaio 2002 cambiò un po’ tutto. Nel suo tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, l’allora presidente statunitense George W. Bush incluse inaspettatamente l’Iran nei paesi del cosiddetto “Asse del Male”, che comprendeva anche Iraq e Corea del Nord. Molti dei diplomatici americani che stavano lavorando con gli iraniani furono presi alla sprovvista. Crocker racconta che il giorno dopo incontrò un negoziatore iraniano alla sede ONU a Kabul: era molto arrabbiato e disse a Crocker: «Suleimani è furioso. Si sente compromesso». Gli incontri tra Iran e Stati Uniti finirono lì.
L’anno successivo gli Stati Uniti attaccarono l’Iraq, su una premessa – il possesso di grandi quantità di armi chimiche da parte del regime di Saddam Hussein – che poi si rivelò falsa. Gli iraniani si opposero all’intervento: le truppe americane erano in Afghanistan, stavano per arrivare anche in Iraq e l’Iran temeva che questo accerchiamento militare avrebbe potuto portare a un attacco diretto. Crocker dice che una volta sconfitto Saddam Hussein, e creato il primo governo provvisorio iracheno, Suleimani iniziò in Iraq una campagna molto aggressiva fatta soprattutto di sabotaggi e poi di attentati. A combattere gli americani in Iraq c’erano già due milizie sciite, le Brigate Badr e l’Esercito Mahdi: la loro parziale imprevedibilità, però, spinse Suleimani a organizzare altre milizie, addestrate in Iran (a volte con l’aiuto di Hezbollah), il cui obiettivo era guadagnare influenza e uccidere gli americani: entrambi gli obiettivi, si può dire anni dopo, sono stati abbondantemente raggiunti.
Il messaggio di Suleimani a Petraeus
Una delle frasi più conosciute – forse la più conosciuta – di Suleimani è quella che all’inizio del 2008 rivolse al generale David Petraeus, allora comandante delle forze armate americane in Iraq: fu un messaggio di testo che il presidente iracheno Jalal Talabani ricevette sul suo telefono e fece leggere a Petraeus. Il messaggio diceva:
«Generale Petraeus, dovrebbe sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica dell’Iran per quanto riguarda l’Iraq, il Libano, Gaza e l’Afghanistan. Inoltre, l’ambasciatore a Baghdad è un membro delle forze Quds. Colui che lo va a sostituire è, anche lui, un membro delle forze Quds».
Due anni dopo Petraeus parlò della sua battaglia contro Suleimani e disse: «Se si pensa di usare [con l’Iran] i mezzi tradizionali che si usano quando si tratta con un altro ministero degli Esteri, allora diventa tutto molto più difficile. Quello di Suleimani non è un ministero: è un apparato di sicurezza». Petraeus di fatto diede ragione a Suleimani: era lui a fare la politica diplomatica dell’Iran in giro per il Medioriente. Molti osservatori confermano il punto di vista di Petraeus sul fatto che il potere di Suleimani sia cresciuto nel corso degli anni: l’ultima sua grande conquista è stata la concessione dell’uso dello spazio aereo iracheno per trasportare armi e uomini in Siria.
Alle forze Quds negli ultimi anni sono stati attribuiti – con diversi gradi di coinvolgimento – anche diversi attentati in giro per il mondo: il più grande e conosciuto fu quello del 1994, quando l’esplosione di una bomba al centro della comunità ebraica a Buenos Aires, in Argentina, uccise 85 persone. Nell’ottobre del 2011 il dipartimento del Tesoro statunitense impose alcune sanzioni sul generale Suleimani per il suo presunto coinvolgimento nella progettazione dell’attentato contro l’ambasciatore saudita a Washington D.C. Poi, da un paio d’anni, è arrivata la Siria.
Distinguersi dagli americani, sulla Siria
Per Suleimani la sopravvivenza del regime siriano di Assad è una questione di orgoglio: «ci ha detto che gli iraniani faranno tutto ciò che è necessario» per salvare Assad, ha riferito un ex funzionario iracheno, che ha aggiunto di avere sentito Suleimani dire «non siamo come gli americani. Non abbandoniamo i nostri amici». L’amico dell’Iran in questo caso è il regime di Assad, cioè il suo unico alleato rimasto in Medioriente. Fino all’agosto 2012, tuttavia, non sembrava che l’Iran fosse interessato a mandare i propri soldati in Siria. Le cose dopo sono cambiate.
Nell’agosto del 2012 i ribelli siriani catturarono 48 iraniani in Siria. Il governo di Teheran disse che si trattava di pellegrini ma nessuno gli credette, né i ribelli né i servizi di intelligence occidentali. Erano combattenti delle forze Quds, dissero loro. Comunque andò, quei 48 iraniani furono “valutati” così tanto che Assad decise di scarcerarli in cambio della liberazione di oltre 2mila ribelli catturati in precedenza. Come scrissero poi molti giornalisti ed esperti di Iran, i 48 iraniani catturati erano molto probabilmente combattenti delle forze Quds: la loro missione in Siria rientrava nell’idea di Suleimani, del “non abbandoniamo i nostri amici”. Da lì in poi diversi esperti scrissero della presenza di combattenti Quds in Siria, unita a un’altra serie di aiuti, soprattutto finanziari e militari, concessi dall’Iran al regime di Assad.
Suleimani iniziò ad andare a Damasco in diverse occasioni. Un funzionario statunitense ha detto a Filkins che Suleimani «sta conducendo una guerra per conto suo»: ha creato una sua base di comando all’interno di un edificio anonimo particolarmente protetto dove ha riunito una serie di capi militari, tra cui alcuni funzionari siriani, un comandante di Hezbollah e un coordinatore delle milizie sciite irachene, pronti a continuare a combattere anche nel caso della caduta di Assad. La vittoria più importante ottenuta da Suleimani è stata senza dubbio la riconquista di Qusayr – città di importanza strategica vicina al confine con il Libano – che ha permesso ad Assad di ribaltare l’andamento della guerra azzerando il vantaggio che fino a quel momento avevano i ribelli. In quell’occasione, scrive Filkins, Suleimani avrebbe chiamato direttamente il suo vecchio amico Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita libanese Hezbollah, dicendogli di mandare a Qusayr qualche migliaio di militanti per combattere a fianco di Assad. John Maguire ha detto: «L’intera operazione è stata orchestrata da Suleimani. È stata una grande vittoria per lui».
Oggi, con il presidente moderato Hassan Rouhani al potere, in Occidente non è chiaro a nessuno quali siano i rapporti di forza interni al regime di Teheran. Da tre mesi Rouhani ha fatto una serie di aperture diplomatiche verso gli Stati Uniti, specie su temi molto cari agli occidentali come il nucleare (se le sue intenzioni siano serie, però, non si sa). Rouhani ha avuto il sostegno della guida suprema Khamenei, che rappresenta l’ala più intransigente e conservatrice del regime iraniano: proprio sabato Khamenei ha ammesso pubblicamente di sostenere le aperture diplomatiche di Rouhani, aggiungendo però di avere qualche “riserva” sull’atteggiamento considerato troppo amichevole nei confronti degli Stati Uniti. In molti, soprattutto gli statunitensi, sperano che in questo processo anche Suleimani, da sempre dalla parte di Khamenei, perda parte del suo potere.
Foto: Qassen Suleimani è quello chinato in avanti (foto pubblicata sulla pagina pubblica Facebook di Suleimani, il 22 luglio 2013)