Le bombe sulla Casa Bianca, l’altra
Quella di Mosca, però: quando Boris Eltsin ordinò ai carri armati di sparare contro i suoi oppositori chiusi nel Parlamento
La mattina del 4 ottobre 1993 i carri armati dell’esercito russo spararono contro la Casa Bianca di Mosca, la sede del parlamento russo. A mezzogiorno le forze speciali assaltarono l’edificio mettendo fine a una crisi istituzionale tra il parlamento e Boris Eltsin, all’epoca presidente della Russia, che durava da mesi.
Prima della crisi
Boris Eltsin e i membri del parlamento che si scontrarono con lui, tra cui il vicepresidente Aleksandr Rutskoi, erano stati alleati molto stretti fino a poco tempo prima della crisi: negli anni in cui Mikhail Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica, aveva dato il via prima alla “Perestroika” e poi alla “Glasnost”, due processi di riforma che portarono molti cambiamenti nel campo delle libertà personali ed economiche e nella struttura stessa dello Stato.
Il processo era osteggiato da alcuni membri più conservatori dell’esercito e del KGB che nell’agosto del 1991, mentre Gorbaciov si trovava in vacanza in Crimea, avevano tentato un colpo di Stato. Mentre Gorbaciov era tenuto agli arresti, i militari occuparono una serie di importanti edifici e strutture di Mosca ma dovettero scontrarsi con l’opposizione di Eltsin e Rutskoi, che portarono decine di migliaia di persone in piazza e riuscirono a bloccare il colpo di Stato.
Evitato il colpo di Stato, Eltsin e gli altri non abbandonarono il potere e si imposero come nuova classe dirigente, costringendo dopo pochi mesi Gorbaciov a dimettersi da capo dell’Unione Sovietica. L’alleanza però non durò e in pochi mesi cominciarono ad emergere numerose diversità tra quelli che avevano stroncato il golpe del 1991.
Le cause della crisi
Nel corso del 1991 e del 1992 Eltsin, diventato il primo presidente della Russia postsovietica, accelerò le riforme iniziate da Gorbaciov e ne impose di nuove, con l’aiuto dei suoi ministri dell’economia. Lo scopo delle riforme era trasformare l’economia russa in un’economia di mercato. Furono varate gigantesche privatizzazioni delle società statali, delle quali spesso beneficiarono gli amici della classe dirigente, la cosiddetta nomenklatura.
L’economia russa era in una fase di stagnazione almeno dagli anni Settanta e il crollo dell’Unione Sovietica inaugurò una fase molto caotica anche dal punto di vista economico. Migliaia di impiegati pubblici persero il loro lavoro. Acquistare i beni di prima necessità divenne difficile e davanti ai negozi di alimentari si formavano ogni giorno lunghe file.
Di fronte a questa situazione la politica si divise. Da un lato Eltsin chiese più poteri per il presidente e spinse affinché le riforme di liberalizzazione venissero portate a termine rapidamente e ancora più a fondo. Dall’altro lato si schierò una larga maggioranza del parlamento, capeggiata dal vicepresidente Ruskoi, che invece voleva limitare i poteri del presidente e rallentare, e in certi casi invertire, la transizione a un’economia di mercato.
Per tutta l’estate del 1993 presidente e Soviet Supremo, come ancora si chiamava il parlamento, si affrontarono promulgando leggi e decreti in contraddizione e sfiduciandosi l’uno con l’altro. Al culmine della crisi, il 21 settembre 1993, Eltsin dichiarò la dissoluzione del Soviet Supremo, indisse un referendum per l’approvazione di una nuova costituzione fortemente presidenzialista e nuove elezioni legislative per il nuovo parlamento, la Duma, a dicembre di quell’anno. Secondo la costituzione del 1978 ancora in vigore, Eltsin non possedeva quei poteri: seicento parlamentari si riunirono nella Casa Bianca, la sede del Soviet Supremo a Mosca, e votarono la decadenza di Eltsin. Il giorno dopo, il 24 settembre, Eltsin fece tagliare elettricità, acqua e telefoni all’edificio del parlamento.
L’assedio al parlamento
Il declino economico aveva unito un ampio fronte politico contro le riforme di Eltsin: comunisti, grandi sindacati, organizzazioni patriottiche, partiti di estrema destra e formazioni paramilitari di ultra-nazionalisti. A partire dal 25 settembre decine di migliaia di persone manifestarono per tutta Mosca contro Eltsin, mentre gruppi paramilitari con armi e munizioni si introducevano nel parlamento e si preparavano a difenderlo contro un eventuale tentativo di irruzione delle forze di sicurezza (il primo ottobre il ministro degli Interni stimò che dentro la Casa Bianca ci fossero almeno 600 persone armate; l’atmosfera di quei giorni è descritta anche in un bel libro recente e di grande successo, Limonov di Emmanuel Carrère).
Il 28 settembre ci furono i primi morti negli scontri tra manifestanti a favore del parlamento e forze di sicurezza. Le manifestazioni si allargarono a tutta la città e Eltsin proclamò lo stato di emergenza in tutta la regione di Mosca. Lo stesso giorno, il 2 ottobre, Ruskoi, lo storico alleato di Eltsin ora a capo dell’opposizione, si affacciò al balcone della Casa Bianca e chiese alla folla riunita di assaltare l’ufficio del sindaco di Mosca e di occupare la sede della televisione nazionale.
La sera del 3 ottobre, dopo duri scontri con la polizia, i manifestanti occuparono il municipio e si spostarono verso la sede delle televisioni, ma l’edificio era presidiato da diverse unità del ministero degli Interni. Ci furono scontri durissimi, ma alla fine i manifestanti vennero respinti.
Spaventati dalla durezza degli scontri, alcuni oppositori di Eltsin decisero di condannare Ruskoi per la sua scelta di chiedere alla folla di marciare contro obbiettivi protetti dalla polizia. Contemporaneamente diversi generali, che fino a quel momento erano rimasti neutrali, fecero sapere a Eltsin di essere dalla sua parte. La notte del 3 ottobre Eltsin decise di farla finita con il parlamento nel modo più diretto e rapido possibile.
L’assalto
Alle 8 di mattina del 4 ottobre unità dell’esercito regolare russo strinsero ancora di più l’anello di forze di sicurezza intorno alla Casa Bianca. Parecchi blindati circondarono il palazzo, mentre decine di carri armati T72 e T80 si disposero lungo una strada da cui avevano una buona visuale dell’alto edificio.
Pochi minuti dopo iniziò il bombardamento. Per diverse ore i carri armati fecero fuoco con cannoni da 125 mm contro i piani più alti del palazzo con lo scopo di “minimizzare le perdite e spaventare i cecchini”. Alle 12 i gruppi d’assalto si lanciarono contro il palazzo e cominciarono a combattere piano per piano per liberarlo. Alle 17, dopo circa dieci ore di battaglia, i leader del parlamento, tra cui lo stesso Ruskoi, si arresero e vennero arrestati. Non si conoscono numeri ufficiali e affidabili degli scontri di quei giorni, ma in tutto si stima che siano morte tra le duecento e le mille persone.
La fine della crisi
I video e le fotografie dei carri armati dell’esercito russo che, schierati in fila, facevano fuoco contro un palazzo del governo vennero ripresi dai mezzi di comunicazione di tutto il mondo. Moltissimi russi furono scioccati da quelle immagini, diventate tra le più famose degli anni Novanta. Anche nel resto del mondo ci furono reazioni molto preoccupate: guardando quei video sembrava che una guerra civile stesse per cominciare nel paese con il secondo arsenale nucleare più grande del mondo.
Ma l’assalto alla Casa Bianca si rivelò una vittoria completa di Eltsin e stroncò i tentativi di bloccare le sue riforme. Nelle settimane successive Eltsin varò una serie di decreti che avevano lo scopo di consolidare il suo potere. A dicembre riuscì a far approvare con un referendum una nuova costituzione, la prima da quella approvata nel 1978, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica. Nonostante queste mosse, le elezioni parlamentari che si tennero a dicembre furono una sconfitta per Eltsin e i candidati che appoggiavano il suo piano di riforme. Furono un successo per l’opposizione comunista e soprattutto dell’estrema destra nazionalista.
Pur con la temporanea sconfitta alle elezioni di dicembre, il programma di Eltsin ebbe successo. La Russia fu trasformata in una repubblica fortemente presidenziale, com’è tuttora, dove il capo dello stato possiede moltissimi poteri. Eltsin rimase al vertice di questo sistema fino al 1999 quando il suo posto venne preso dall’attuale presidente, Vladimir Putin.