Anna Magnani, attrice
Morì 40 anni fa: un libro di Minimum Fax racconta dal suo punto di vista la storia di come venne girato Roma città aperta – senza soldi, senza attrezzatura, senza Cinecittà
Sono passati pochi giorni dal quarantesimo anniversario della morte di Anna Magnani, una delle attrici italiane in assoluto più apprezzate e famose, nonché la più rappresentativa della cosiddetta “stagione neorealista” del cinema italiano. Lavorò con Rossellini, Visconti e Pasolini, nel 1956 vinse il premio Oscar come miglior attrice e sulla Walk of Fame di Los Angeles c’è una stella con il suo nome. Morì il 26 settembre del 1973 e la sua storia è ben raccontata nel libro “Nannarella“, scritto dal giornalista e autore televisivo Giancarlo Governi ed edito da Minimum Fax. Il libro ne racconta la vita e la carriera come un romanzo. Nell’estratto che segue, si raccontano le tragicomiche vicende dietro al film che l’ha resa famosa in tutto il mondo, Roma città aperta (Rossellini, 1945), girato senza soldi e senza mezzi in una Roma ancora devastata dalla guerra.
«Io da anni urlavo quasi: ma è possibile che non si possa fare un film su una donna qualunque, che non sia bella, non sia giovane… d’accordo, allora ero giovane, comunque: perché, ripetevo, perché non un film su una donna della strada che non sia diva, falsa? Quando vennero a leggermi il copione di Roma città aperta, ci siamo, pensai, questo è meraviglioso. Senonché io a quell’epoca facevo la rivista e avevo un grosso successo. Proprio come Fabrizi, che recitava in altre cose.
«Ora, siccome non mi volevano dare la stessa paga che per il film davano a Fabrizi… una miseria, centomila lire in più… per un puntiglio, insomma, per una questione di principio, risposi no. Io allora nemmeno lo conoscevo Rossellini, ma so che voleva me. In questo modo cominciarono con la Calamai. Chissà, forse perché aveva fatto Ossessione. Non so, è una scelta che io non posso giudicare. Si entra nella mentalità dei produttori, in certi schemi. Sono andati avanti dieci giorni e poi hanno cercato di nuovo me. Per fortuna, perché per una fregnaccia avrei perso il film più importante della mia carriera».
Trovati anche i protagonisti, finalmente il film comincia, ma in mezzo a mille difficoltà. A Roma manca tutto, la guerra è passata da poco, ma il fronte si è spostato al Nord dove si combatterà fino alla fine di aprile del 1945. Mancano i generi alimentari, mancano i trasporti (i romani viaggiano aggrappati a sgangherate camionette) e manca anche la pellicola. La gente della troupe viene sguinzagliata per Roma alla ricerca di qualche spezzone. Rossellini è costretto a risparmiare, molte scene vengono girate una sola volta e non vengono stampati i «giornalieri», non c’è possibilità di controllare ciò che è stato girato giorno per giorno. Il rischio è molto grosso, perché se una scena non è venuta bene non può essere più girata, anche perché non c’è la possibilità di ricostruire la situazione su cui si basa.
A un certo punto cominciano a scarseggiare anche i soldi. Rossellini ha iniziato a girare perché sa, per esperienza, che spesso nel cinema l’importante è dare inizio alle riprese e poi, quasi sempre, tutto si aggiusta. Jone Tuzzi, che di Roma città aperta fu la segretaria di produzione, racconta: «Roberto era sempre attaccato al telefono della latteria vicina a cercare soldi. Ogni tanto finivano i soldi e si smetteva, poi ne arrivavano un po’ e si girava qualcosa… Una volta aveva cinquantamila lire e le aveva messe in banca, e poi aveva fatto quasi duecentomila lire di assegni… C’era ancora il coprifuoco. Giravamo a via Rasella, dov’era successo quello che era successo, e dove eravamo vicinissimi a un casino, quello degli Avignonesi. Al primo piano di dove lavoravamo c’erano delle ragazze, delle ragazze un po’ passate, delle “segnorine” che andavano coi negri. Quando giravamo, anche la notte, veniva sempre gente, venivano questi militari che vedevano le luci, e venivano lì, perché volevano scopare, ci avevano presi per il casino! Allora gli indicavamo il casino vero e li mandavamo da queste ragazze. Bisogna dirlo, fino a quel momento Rossellini era considerato uno di serie b, per cui facendo il film io non l’ho fatto neanche con la stessa passione con cui lavoravo di solito, l’ho fatto perché non ci avevo altro da fare, ero convinta che il film non sarebbe mai finito. Tant’è vero che, prima che finisse, io lasciai la lavorazione per tornarmene con Soldati, che stava preparando un’altra cosa. Chi avrebbe immaginato il film che ne è venuto fuori?».
Lo scetticismo nei confronti del film di cui parla Jone Tuzzi lentamente comincia a serpeggiare in tutta la troupe, un po’ perché il film è fatto veramente in condizioni miserevoli e frammentarie che non permettono di prevedere il risultato finale; ma anche perché è veramente un film diverso, molto lontano da quelli che il cinema italiano ha prodotto prima e durante la guerra.
Molte scene, talvolta le più importanti, quelle che rimarranno impresse nella mente degli spettatori di tutto il mondo, nascono per caso. Come la scena dell’uccisione del personaggio interpretato da Anna Magnani: la donna che viene falciata dai mitra tedeschi mentre si getta all’inseguimento del camion che porta via il suo promesso sposo. Sergio Amidei racconta che la scena, non prevista dal copione con questa dinamica, gli fu suggerita da un’ennesima lite – una delle ultime – fra Anna e Massimo Serato, che era andato a trovarla sul set. «Una volta che avevamo girato una scena», racconta Amidei, «con la Magnani, Fabrizi e un tedesco, grazie a un prete trafficone che ci aveva fatto girare di notte, dietro la caserma dei carabinieri a Trastevere, la Magnani aveva litigato con Serato, che era il suo uomo di allora, e Serato era scappato di corsa, saltando su una camionetta della produzione che aveva fatto mettere subito in moto. La Magnani corse appresso a questa camionetta, gridando i peggiori insulti di cui era capace, frocio, magnaccio, roba del genere! È stato questo il complemento del primo episodio: la Magnani dietro il camion dei tedeschi che le portano via il suo uomo».
È, comunque, una scena che Anna vive con una passione e una verità inedite nel cinema di tutti i tempi. Anna, nonostante le difficoltà, si appassiona al film, lo capisce e sente che la farà uscire dal bozzettismo popolaresco e farà scoprire agli spettatori e al cinema che, sotto quella potentissima maschera comica, c’è una maschera drammatica altrettanto potente. E poi la guerra, perlomeno l’ultima parte, quella terribile dell’occupazione nazista, Anna l’ha vissuta con rabbioso orrore. Ha nascosto e aiutato i suoi amici, come Luchino Visconti, che avevano imboccato la strada dell’antifascismo militante; ha, insieme a Totò, sfidato dal palcoscenico, nei limiti del loro mestiere, la tracotanza dei nazifascisti. Ha soprattutto, come tutti gli italiani onesti, assistito con orrore alle infamie e alle atrocità che hanno segnato la storia di quei terribili mesi. Nella scena della morte Anna ha certamente travasato tutte queste esperienze.
Inizialmente chiede una controfigura che dovrebbe cadere al suo posto, ma, quando si affaccia sulla piazza gremita di tedeschi con i mitra spianati e popolani piangenti, Anna diventa Teresa Gullace, una del popolo che vede il proprio uomo andare alla morte. «Io della scena della morte non ho fatto prove. Con Rossellini, che è stato quel grande regista che è stato, non si provava: si girava. Lui sapeva che, preparatomi l’ambiente, io poi funzionavo. Durante l’azione del rastrellamento, quando sono uscita dal portone, all’improvviso ho rivisto le cose… Sono ripiombata al tempo in cui per Roma portavano via i giovani. I ragazzi. Perché era popolo-popolo quello che stava addossato contro i muri. I tedeschi erano tedeschi-tedeschi presi da un campo di concentramento. Di colpo non sono stata più io. Ero personaggio, insomma. Eh sì, Rossellini aveva preparato la strada in maniera veramente allucinante. Le donne, sa che erano pallide nel risentire i nazisti mentre parlavano fra loro? Questo mi ha comunicato l’angoscia che ho reso sullo schermo. Terribile. Un’emozione del genere, chi se l’aspettava?».
Appena Rossellini dà l’azione e Anna vede passare il camion con il suo uomo, si butta disperatamente alla rincorsa, gridando: «Francesco, Francesco», poi, allo sparo, stramazza al suolo. La troupe accorre, la solleva, Anna è ferita e piange disperatamente: ha vissuto la finzione fino in fondo! Per dare più verità, e anche in omaggio alla povera Gullace, Rossellini fa gridare in doppiaggio a Francesco prima «Pina», che è il nome del personaggio, e poi «Teresa», che è il nome della martire.
Roma città aperta finalmente è terminato. Il film ora ha tanti padroni: la Minerva che ha pagato i debiti, il pecoraio che ha anticipato i soldi, Peppino Amato che ha comprato i diritti per l’estero, un ufficiale americano che ne ha portato una copia in America per venderla a un grosso produttore. Della contessa mecenate, che ha avuto l’idea originaria e ha messo i primi soldi, non si sa più niente: è sparita nelle nebbie dei ricordi.
I padroni sono tanti, ma non vi figurano Amidei e Rossellini, che questo film hanno voluto e difeso con le unghie e con i denti. Anna è cosciente di aver partecipato all’impresa che segnerà una grande svolta nella sua carriera. Ora si sente finalmente un’attrice matura, a cui viene offerta la possibilità di interpretare i ruoli che le sono più congeniali e che sono in sintonia con il suo carattere e con la realtà del paese. Roma città aperta dà inizio a una stagione nuova nel cinema italiano, come con la Resistenza e la Liberazione era iniziata una stagione sociale nuova per il paese.
Il cinema diventa più maturo e si fa strumento di conoscenza e veicolo di idee. Il film di Rossellini farà scuola a tutti gli altri che verranno dopo, dando vita a un cinema che, uscito dagli studi, scenderà nelle strade, a contatto con la gente. Sarà una stagione breve, ma intensa, e si chiamerà neorealismo. Anna Magnani, anche se poi questo cinema si nutrirà dei cosiddetti attori presi dalla strada, del neorealismo rimarrà il simbolo, con il suo volto vero e sofferto, pronto a illuminarsi in una risata viscerale come a incupirsi nella collera o a disfarsi nel dolore.
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