Perché nelle vecchie foto non si sorride?
La risposta ha a che fare con l'arte del Cinquecento, la cultura e la tecnologia, spiega l'Atlantic
Lo avete notato di sicuro anche se magari non ci avete fatto caso: la gente nelle vecchie foto non sorride mai. Otto von Bismarck non sorrideva – e d’altro canto era soprannominato il cancelliere di ferro – ma non sorridevano nemmeno scrittori come Mark Twain o Victor Hugo e nemmeno scienziati come Guglielmo Marconi.
C’è dietro una storia interessante, in cui si mischiano cultura, storia e tecnologia. Questa settimana ne ha scritto l’Atlantic, riprendendo un articolo pubblicato sulla Public Domain Review da Nicholas Jeeves, che insegna alla Cambridge School of Art.
La questione delle facce seriose risale a molto più indietro delle prime fotografie. Chi si fa un giro nelle gallerie di ritratti dei musei troverà pochissimi ritratti di gente sorridente (e di solito la gente non sorride nemmeno negli altri dipinti). Il massimo che si può trovare, magari nel ritratto di qualche personaggio ambiguo o misterioso – e di certo non in quello di un nobile o di un re – è un tenue sorrisetto – il più famoso dei quali è quello della Monna Lisa, ed è proprio una di quelle cose che rendono il dipinto così particolare.
Soprattutto nel Rinascimento e nei secoli successivi, il ritratto non era in primo luogo una rappresentazione realistica del soggetto, ma principalmente una sua idealizzazione da consegnare all’eternità. Le qualità fisiche della persona ritratta erano meno importanti delle sue qualità morali. I tratti quindi finivano ingentiliti e i difetti smussati. Ma soprattutto i sorrisi dovevano scomparire – quale re, nobile, mercante o imperatore avrebbe ritenuto che l’essere divertente fosse una qualità morale da immortalare in un ritratto?
Quando qualche secolo dopo comparve la fotografia, la nuova arte rimase a lungo in uno stato di sudditanza nei confronti della pittura, e questo si vide anche nella ritrattistica. Quello che valeva per i ritratti fatti con il pennello, valeva anche per quelli con le macchine fotografiche, esattamente come i primi libri a stampa, alla fine del Quattrocento, cercavano di riprodurre fedelmente tutte le caratteristiche della scrittura a mano dei manoscritti. Il fatto che nelle fotografie non bisognasse sorridere, come non si sorrideva nei ritratti, venne espresso in maniera molto chiara proprio da Mark Twain in una lettera inviata ad un giornale: «Una fotografia è il documento più importante e non c’è nulla di peggiore che passare alla posterità che con uno sciocco e stupido sorriso fissato sulla faccia per l’eternità».
In realtà, molto prima della definizione sprezzante di Twain, il sorriso aveva trovato il suo spazio nella pittura. Se la solennità e la seriosità erano il segno dell’aristocrazia o comunque di forti qualità morali, allora il sorriso poteva descrivere con efficacia il loro opposto. Nell’arte del Cinquecento, e poi ancora di più in quella del Seicento, i sorrisi erano relegati alle rappresentazioni degli strati più bassi della popolazione. Chi rideva era un ubriaco, un dissoluto e comunque di sicuro una persona volgare.
Molti pittori olandesi del Seicento, come Rembrandt ad esempio, sono diventati famosi per i ritratti di popolani che ridono, bevono o festeggiano. Dipingere gli strati più bassi della popolazione con un bel sorriso era concesso, ma utilizzare il sorriso per altri temi era considerato un comportamento da iconoclasti. Caravaggio, racconta Jeeves, diede scandalo dipingendo Eros come un bambino nudo con un largo sorriso malizioso.
Ma con l’arrivo della fotografia ci fu un nuovo problema, anche per coloro che desideravano rompere le regole e riprendere soggetti ubriachi e sorridenti. Le prima macchine fotografiche avevano un lungo tempo di esposizione, molto più lungo del tempo medio in cui una persona riesce a mantenere un sorriso naturale. Sorrisetti o espressione serie erano molto più facili da mantenere rispetto a un largo sorriso che avesse anche un aspetto sincero.
Con il progresso della tecnologia, nel corso dell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, divenne possibile fare foto che cogliessero l’istante del movimento, senza dare origine a un pasticcio sfuocato e sovraesposto. Altri due fenomeni procedettero insieme a questo progresso tecnologico: da un lato la cultura diveniva sempre più popolare e non c’era più bisogno di esprimere una costante serietà e solennità in ogni gesto, dall’altro fare fotografie diventava più semplice ed economico e quindi era possibile farne di più. Non era più questione di tramandare ai posteri la propria immagine con un unico ritratto o al massimo con qualche fotografia.
La creazione di macchine fotografiche abbastanza economiche da poter essere acquistate da tutti – ciò che fece ricco il signor Eastman, fondatore della Kodak, più o meno 120 anni fa – ha fatto sì che si diffondesse la tradizione di fotografarci in tutti i nostri stati d’animo. E questa usanza si è trasferita anche ai più importanti dei soggetti che si possono fotografare. Oggi i politici si assicurano che siano sempre disponibili foto che li ritraggano in tutto lo spettro dei sentimenti umani: dallo sguardo solenne e imperioso, alla composta tristezza, fino a quello che fino a un secolo destava il massimo scandalo, un largo sorriso che lascia i denti scoperti.