La storia del falsario Mark Landis
Ha riempito i musei americani di disegni e dipinti contraffatti di artisti importanti, con un sistema efficacissimo: regalarglieli
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
Nel ricco repertorio di racconti e inchieste sul business dei falsari di opere d’arte, Alec Wilkinson del New Yorker ha raccontato una storia anomala: quella di un pittore americano autore di numerose opere contraffatte, che ha poi donato per anni a diversi musei americani spacciandole per opere originali, talvolta di autori molto famosi ma più spesso di autori minori della storia dell’arte, ottenendo che le sue opere fossero esposte da quei musei. Il suo vero nome è Mark Landis ma negli anni ha assunto diverse identità per compiere le sue truffe, da cui peraltro non ha mai ricavato vantaggi economici rilevanti (né mai dato l’impressione di volerne ricavare). I protagonisti della storia sono due: Matthew Leininger – curatore dell’Oklahoma City Museum of Art, a cui Landis donò alcune opere contraffatte nel 2008 – che fu il primo a portare allo scoperto i raggiri di Landis, e il primo a indagare la questione approfonditamente; e Mark Landis – che ha sempre donato, e mai venduto, le sue opere –, il quale non è mai stato formalmente accusato di alcun crimine. Oggi vive nella sua casa di Laurel, in Mississippi: Wilkinson è andato a parlare con lui, e ha scoperto una serie di dettagli interessanti sul mondo dell’arte e dei falsari, oltre che ricostruito per bene la storia di Landis, dai primi falsi alla scoperta di Leininger, fino alla mostra del 2012 che allo stesso Landis venne dedicata, a Cincinnati, in Ohio.
Chi è Mark Landis
Mark Landis ha cinquantotto anni e vive a Laurel, una piccola città del Mississippi con poco meno di ventimila abitanti. Abita in un complesso residenziale per anziani, nell’appartamento che era della madre, morta nel 2010. Il nonno di Landis era vicepresidente della Auburn, una casa automobilistica che smise la produzione nel 1937. Il padre di Landis, un ufficiale della marina militare, morì che Landis aveva diciassette anni, e la madre – che intanto si era risposata con un uomo benestante – lasciò a Mark, figlio unico, un’eredità sufficiente per permettergli di non preoccuparsi di come mantenersi.
I Landis vissero per diversi anni in giro per l’Asia e per l’Europa, prima di ritornare in America: da piccolo, Mark – che era un tipo molto studioso – rimaneva spesso solo a casa, e trascorreva il tempo ricopiando delle illustrazioni di martìri dai cataloghi delle mostre collezionati dalla madre. Dopo la morte del padre, fu ricoverato per diciotto mesi in un ospedale di Topeka, in Kansas, con una diagnosi di schizofrenia, che fu ripetuta una seconda volta quando aveva trentatré anni, e per cui ancora oggi prende delle medicine. Quando uscì dall’ospedale andò a studiare all’Art Institute di Chicago, e poi si trasferì a San Francisco per fare il mercante d’arte: tra il 1985 e il 2000 – si legge in un articolo del Financial Times del 2011 – Landis cambiò indirizzo sedici volte, spostandosi tra San Francisco (California) e Hattiesburg, Jackson e Laurel (Mississippi).
Secondo Wilkinson, Landis decise di diventare una originale sorta di “filantropo” per ottenere riconoscimenti che potessero compiacere la madre: spesso, quando ancora viveva da solo a San Francisco, le spediva le lettere di ringraziamento che riceveva dai musei a cui aveva cominciato a donare dei dipinti. Dei dipinti falsi.
Le diverse identità
Per compiere le sue truffe, Mark Landis ha assunto negli anni diverse identità ricorrenti: a volte era Stephen Gardiner, altre volte era Mark Lanois (dal suo biglietto da visita cancellava la parte superiore della “d”). Più spesso si presentava ai musei nei panni di un prete gesuita, su una Cadillac rossa, dicendo a volte di chiamarsi padre Arthur Scott e altre volte padre James Brantley. L’idea di fingersi prete gli venne da un film del 1956 con Grace Kelly, Il Cigno, in cui compare un prete tra i personaggi minori: tutti i casati illustri ne hanno sempre uno in famiglia.
I nomi scelti non erano casuali, spiega Wilkinson sul New Yorker: dietro c’era uno scrupoloso lavoro di documentazione sui cognomi più presenti nei cataloghi delle aste d’arte. «Scott era il cognome di una famiglia di Philadelphia che compariva spesso», ha detto a Wilkinson.
La tecnica di disegno utilizzata da Landis
Wilkinson ha chiesto a Landis di mostrargli la tecnica con cui disegna le sue riproduzioni. Landis ha preso uno studio della pittrice americana Mary Cassatt (1844-1926), da lui già riprodotto numerose volte: ha attaccato con del nastro adesivo una fotocopia del disegno, e un foglio di carta sovrapposto, su una superficie di plastica trasparente appoggiata sulle gambe, e quindi ha sistemato una lampada da tavolo a terra tra le ginocchia, puntandola verso l’alto.
Dopo aver tracciato solo un contorno veloce, Landis ha spento la lampada e ha messo sul tavolo il foglio, e quindi ha sovrapposto il foglio alla fotocopia dello studio, ma soltanto per tre quarti: sovrapponendo e sollevando ripetutamente la fotocopia dal disegno – ogni volta per non più di un secondo – Landis tracciava velocemente dei segni, seguendo le linee originali che gli rimanevano impresse nella memoria (lui chiama questa tecnica “trucco della memoria”). Alla fine, spiega Wilkinson, si è impegnato a lungo su ogni singola lettera della firma: se la firma è abbastanza convincente, dice Landis, il dipinto viene controllato meno attentamente.
Una volta un dottore gli disse che aveva un gran talento, ma lui disse «ho sempre pensato che chiunque sia in grado di farlo».
Il falso rifilato all’Oklahoma City Museum of Art
A maggio del 2008 l’Oklahoma City Museum of Art ricevette un acquarello da un uomo chiamato Mark Landis: l’acquarello – che ritraeva una donna con un abito giallo, una cintura rossa e delle scarpe blu – portava la firma di Louis Valtat (1869-1952), un pittore francese coetaneo (e amico) di Henri Matisse, ed era accompagnato da una lettera del signor Landis e da una copia della pagina del catalogo dell’asta da cui verosimilmente proveniva l’acquerello. Nella lettera, Landis chiedeva al museo di accettare quell’opera in memoria del padre, Arthur Landis, capitano di corvetta della marina militare degli Stati Uniti. Per far spazio al Valtat donato da Landis, il museo tolse un Renoir dalla sala in cui già esponeva un olio di Valtat.
Quando un mese più tardi Landis fece visita all’Oklahoma City Museum of Art, il curatore del museo Matthew Leininger lo trovò un tipo “stravagante ed eccentrico”, che secondo Leininger sono qualità piuttosto comuni nei filantropi: «lo presi per un tipico collezionista d’arte sconosciuto», ha raccontato a Wilkinson. Landis portava una valigetta con dentro altri cinque lavori che regalò al museo, raccontando che anche quelli erano appartenuti al padre, e che desiderava cederli prima di doversi sottoporre a un difficile intervento chirurgico al cuore. Landis rimase a Oklahoma City per due giorni e mezzo, «trattato come un re», dice Leininger, che gli regalò anche dei cataloghi e dei libri; dopodiché Landis non si fece più vedere, nonostante avesse sostenuto di voler donare altre opere al museo.
Gli altri falsi
Per più di vent’anni Landis aveva donato dipinti contraffatti a più di cinquanta musei in venti stati americani (e ad alcuni più di una volta). Uno dei primi falsi fu Ritratto di una ragazza della pittrice francese Marie Laurencin (1883-1956), che Landis consegnò al Museo d’Arte di New Orleans. Nel 2003 donò al Lauren Rogers Museum of Art, lì a Laurel, un dipinto del pittore americano Everett Shinn (1876-1953) intitolato Ninfa sulle rocce: Wilkinson dice che il direttore del Lauren Rogers, George Bassi, cominciò a insospettirsi quando Landis non fece seguito alle sue promesse di regalare altre opere al museo. Anni dopo, in seguito alle ricerche di Leininger, Bassi scoprì che Landis – che viveva a Laurel – aveva talvolta usato proprio il nome del Lauren Rogers, spacciandosi per un membro della famiglia fondatrice del museo, per rendere più convincenti le sue offerte.
Da quando Leininger, nel 2008, avviò una serie di ricerche su di lui, Landis non ha mai smesso di donare altre opere contraffatte a diversi musei, ma è diventato via via più accorto e più sfuggente. Nel 2010 – nei panni di padre Arthur Scott, e in memoria della madre defunta, Helen Mitchell Scott – donò al Mint Museum di Charlotte, nella Carolina del Nord, un altro pastello a olio di Everett Shinn. In quello stesso anno, donò al Museo d’Arte della Oglethorpe University, in Georgia (Stati Uniti), un disegno di un artista francese sconosciuto, e all’Università della Louisiana a Lafayette donò un olio su tela del pittore americano Charles Courtney Curran (1861-1942). Nel 2011 – stavolta nei panni di padre James Brantley – donò alla Cabrini High School di New Orleans un olio su rame del pittore tedesco Hans von Aachen (1552-1615), e nel 2012 diede alla Loyola University di New Orleans un’opera intitolata Cristo sul Calvario, un olio su rame dell’italiano Paolo Landriani (1757-1839).
Gran parte di quello che oggi si sa sul conto di Mark Landis si deve alle ricerche accurate e approfondite di Leininger, il curatore dell’Oklahoma City Museum of Art, che fu il primo a portare allo scoperto i suoi imbrogli, nel 2008, e ad avvisare tutti gli altri musei. Molti musei, racconta Wilkinson sul New Yorker, non hanno mai scoperto la truffa, e alcuni ne sono venuti a conoscenza in seguito alle ricerche di Leininger.
La scoperta di Leininger
Un paio di mesi dopo la visita di Landis all’Oklahoma City Museum of Art, Matthew Leininger cominciò a raccogliere informazioni per compilare delle schede sui dipinti ricevuti da Landis, una formalità solitamente richiesta prima di poter inserire i dipinti nella collezione permanente. Da una ricerca per immagini fatta su un acquerello senza titolo di Paul Signac (1863-1935, uno dei maggiori esponenti del Puntinismo), Leininger scoprì che il Savannah College of Art, in Georgia (Stati Uniti), ne possedeva un altro identico, regalato dal signor Mark Landis. All’inizio Leininger non si preoccupò affatto, «perché gli artisti dipingono spesso gli stessi soggetti, prendete ad esempio Monet e il suo ciclo delle cattedrali», ha detto a Wilkinson.
Da un’altra ricerca di Leininger, anche un diverso dipinto donato da Landis – un olio dell’artista francese Stanislas Lépine (1835-1892), che ritraeva dei cavalli e un carro in un campo – risultò presente altrove: al St. Louis University Museum of Art, nel Missouri, e pure questo regalato dal signor Mark Landis.
Come ha scoperto che erano falsi
Sul New Yorker, Wilkinson spiega che uno dei modi per determinare l’età di un dipinto – e scoprire un possibile falso – è esaminarlo ai raggi ultravioletti: ogni diverso pigmento di colore, steso in periodi diversi, restituisce colori differenti. Alcune parti del Lépine donato da Landis – ha raccontato Leininger a Wilkinson – restituivano un bianco bluastro, che può indicare una tela recente. Peraltro «la tela profumava ancora di olio di lino», un odore che avrebbe dovuto scomparire da un pezzo, ha detto Leininger. Anche un’altra opera donata da Landis, un disegno a sanguigna risalente al Seicento, risultò essere contraffatta: invece che risultare uniforme, ai raggi ultravioletti il disegno restituiva macchie chiare e macchie scure, e cioè «ogni genere di anomalia», secondo Leininger, che a Wilkinson ha raccontato di essersi chiesto, lì per lì: «ma Landis lo sa che in tutti questi anni ha posseduto dei falsi?».
Leininger inviò subito una mail ai membri della American Alliance of Museums chiedendo chi e quanti di loro avessero mai ricevuto regali da Landis, e gli risposero in venti in un’ora. Scoprì che diversi musei possedevano la stessa opera: c’era uno stesso dipinto di Alfred Jacob Miller (1810-1874) in sei o sette musei; il falso Lépine donato all’Oklahoma City Museum of Art era in altri cinque musei, tra cui l’Art Institute di Chicago e il Museo d’Arte dell’Università del Kentucky; e anche uno stesso autoritratto di Marie Laurencin era in cinque musei diversi. Quando Leininger riferì tutto alla direttrice del suo museo, lei rispose: «mio dio, togliete subito quel Valtat!» (e il Renoir tornò al suo posto, nella sala con il Valtat autentico).
Perché Landis non è stato arrestato?
Dopo aver scoperto l’imbroglio, Leininger contattò l’FBI ma quando parlò con l’investigatore capo della sezione crimini d’arte, Robert Wittman, insieme non riuscirono a individuare alcun reato federale commesso da Landis. Qualcuno gli aveva offerto qualche cena, sì, e molti lo avevano trattato come un ospite importante, ma sostanzialmente si trattava di «un tipo che gira per il paese a sue spese regalando cose ai musei», ha detto Wittman a Wilkinson.
Anche potendo arrestarlo, peraltro, nessuno all’epoca sapeva esattamente dove trovarlo: secondo un articolo del New York Times pubblicato a gennaio del 2011 l’ultima volta che qualcuno aveva visto Landis era novembre del 2010, all’Ackland Art Museum dell’Università del North Carolina: da allora, scriveva il New York Times, pareva fosse completamente scomparso.
Come hanno fatto gli altri a non accorgersene prima
Prima delle ricerche di Leininger, alcuni musei si erano insospettiti più per le maniere bizzarre di Landis che non per le opere contraffatte. I responsabili dei musei sono solitamente meno attenti all’autenticità dei dipinti regalati da sconosciuti benefattori, scrive Wilkinson, di quanto non lo siano rispetto alle opere che acquistano, anche perché solitamente è onere del donatore offrire dettagli sulla provenienza del dipinto (Landis allegava le etichette originali e le ricevute delle aste in cui diceva di essersi aggiudicato le opere).
Negli anni, peraltro, Landis si è specializzato nella riproduzione di dipinti di autori di secondo piano nella storia dell’arte, riguardo ai quali i curatori dei musei sono solitamente meno preparati. «Ogni museo possiede dei falsi», consapevolmente o inconsapevolmente, ha detto l’agente Wittman a Wilkinson: a volte i musei li ricevono da collezionisti di cui si fidano, altre volte li accettano come parte di donazioni più grandi, composte principalmente di opere autentiche; ma nessun museo, scrive Wilkinson, ha nel suo personale dei professionisti che si occupino soltanto di scoprire possibili contraffazioni.
Che tipi sono i falsari?
Spesso i falsari sono artisti che si ritengono ingiustamente sottovalutati, scrive Wilkinson. Secondo Henry Adams – insegnante d’arte alla Case Western Reserve University di Cleveland, in Ohio, ed esperto di arte americana dell’Ottocento – una delle spinte alla contraffazione è data dalla convinzione che la propria bravura non sia affatto o adeguatamente riconosciuta dal mondo dell’arte. Thomas Hoving – ex direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, morto nel 2009, e autore di un libro molto citato sui grandi falsi dell’arte (“False Impressions: The Hunt for Big-Time Art Fakes”) – scrisse che a volte alcuni falsari si danno alla contraffazione «per dimostrare quanto sia stupido, cieco e pomposo l’establishment dell’arte». Ma ci sono anche falsari che vogliono arricchirsi e basta, e scoprono di poterci riuscire in un modo relativamente facile per loro.
Secondo Leininger, Landis – che lui preferisce definire un “genio della truffa” più che un falsario – non rientra in nessuna di queste categorie: sembrerebbe che non gli importi essere considerato un artista o un sovversivo, ma soltanto riprodurre bene dei dipinti e farsi accogliere. Solitamente i falsari che intendono arricchirsi, scrive Wilkinson, devono occuparsi di un sacco di altre cose: recuperare materiali dell’epoca del dipinto originale, conoscere quali vernici e quali polveri utilizzare per far apparire antichi i falsi, e sapere come produrre con degli aghi le piccole crepe sulla superficie dei dipinti, per renderli verosimili. Tutte cose che hanno sempre annoiato molto Landis, che di solito butta giù un disegno in un’ora, preoccupandosi solo che sia bello, a prescindere da qualsiasi autenticità.
Peraltro Landis non ha mai venduto niente ai musei, né ha mai richiesto ai musei i moduli necessari per ottenere eventuali deduzioni fiscali (in alcuni casi possono ottenerle anche i collezionisti che scoprono di possedere un falso e lo cedono a un museo). Non averci sostanzialmente ricavato niente, secondo il New Yorker, lo rende uno dei falsari americani più singolari di sempre.
La mostra del 2012 dedicata a Landis
A un certo punto, svelata la storia, a Leininger venne in mente l’idea di organizzare una mostra dei lavori di Landis – con la speranza che questo lo spingesse a smettere i suoi inganni – e l’Università di Cincinnati, in Ohio, si offrì di ospitarla: Leininger e Aaron Cowan, co-curatore della mostra, misero insieme tutti i dipinti di Landis che riuscirono a recuperare (Cowan chiese e ottenne da Landis persino il suo travestimento da padre Arthur Scott/James Brantley), e la mostra – intitolata “Faux Real”, “falso autentico” – fu inaugurata ad aprile del 2012. Ci furono dei musei che si rifiutarono di inviare a Cincinnati i lavori di Landis: alcuni per paura che – al contrario delle intenzioni di Leininger – la mostra potesse incoraggiare Landis a falsificare ancora, e altri per non voler rivelare pubblicamente che erano tra quelli che c’erano cascati.
Landis fu presente all’apertura dell’esposizione (proprio il giorno del pesce d’aprile, peraltro), e quel giorno vide di nuovo Leininger, per la prima volta dopo il loro incontro del 2008. Insieme fecero soltanto pochi metri nelle sale della mostra, poi Landis si fermò e disse «ho già visto questa roba», e chiese di tornare in albergo. Leininger gli strinse la mano: «grazie di essere venuto, Mark», gli disse. Landis rispose «se ho creato dei problemi, mi dispiace. Non pensavo di fare qualcosa di sbagliato».
Poi Landis aggiunse: «mi dica se c’è qualcosa che posso fare per dare una mano».
«Voglio solo che tu smetta, Mark», gli rispose Leininger.
Landis ha confidato a Wilkinson – racconta l’articolo del New Yorker – di aver donato altre opere false, dopo la mostra, ma pensa che quelle date a ottobre del 2012 ad altri musei del Mississippi saranno le sue ultime donazioni di sempre: non gode di buona salute, scrive Wilkinson, e non si sente più abbastanza in forma da poter viaggiare.