La Siria, i bambini e noi
Una riflessione di un premio Pulitzer sul perché stavolta le immagini di bambini uccisi non hanno spinto l'opinione pubblica a una reazione più forte
Verso la fine del film La corazzata Potëmkin, uscito nel 1925 e diretto dal famoso regista sovietico Sergej Ejzenštejn, c’è forse una delle più famose scene della storia del cinema: i soldati dell’esercito dello Zar, di cui per gran parte della scena vengono ripresi dalla cinepresa solo gli stivali e i fucili per rendere l’idea della loro brutalità anonima e “meccanizzata”, scendono lentamente una lunga scalinata sparando ai cittadini di Odessa, in Ucraina, colpevoli di essere stati solidali con alcuni marinai ribellatisi agli ammiragli zaristi.
All’interno di questa scena, chiamata negli anni “La scala di Odessa” a causa della sua riconoscibilità, a un certo momento della sparatoria viene colpito un bambino di circa 4 anni, che cade a terra con il volto insanguinato e urla per richiamare l’attenzione della madre: questa lo prende in braccio – anche con una certa decisione – e si porta da sola davanti al plotone dei soldati, mostrando loro il corpo morente del bambino e implorando implicitamente pietà. I soldati le sparano e riprendono la discesa della scalinata passando sopra ai cadaveri della donna e del bambino.
Philip Kennicott – critico d’arte del Washington Post, premio Pulitzer nel 2013 – in un recente articolo ha ricordato questa scena in relazione alle note immagini dei bambini siriani colpiti dal presunto bombardamento chimico ad opera dalle forze armate di Bashar al-Assad, il 21 agosto del 2013. Kennicott, in particolare, ha notato la somiglianza fra la scena della Corazzata Potëmkin e quella presente in un video (visibile qui, al minuto 12:30 circa) mostrato il 5 settembre all'”Intelligence Committee” del Senato statunitense, una commissione di 15 membri che sovrintende alle indagini delle agenzie investigative del governo federale. Nel video si vede un uomo anziano mostrare il cadavere di una bambina di pochi anni, con la bocca leggermente socchiusa, la maglietta sollevata a scoprire la pancia e il petto, i capelli fradici.
Martedì 10 settembre, nel suo discorso riguardo la possibilità di un intervento militare in Siria, Barack Obama ha detto sette volte la parola “bambini”, richiamando le fotografie e i video diffusi dai ribelli siriani. Non è la prima volta che un espediente del genere – mostrare immagini di bambini uccisi o gravemente feriti – viene utilizzato per giustificare un intervento militare, o in generale per fare propaganda politica. E d’altra parte la violenza contro i bambini è spesso usata, retoricamente o no, per giustificare o invitare reazioni decise e immediate, persino violente a loro volta (si pensi ai linciaggi degli accusati di pedofilia o a chi chiede la pena di morte per chi ha ucciso un bambino).
Nonostante alcuni noti precedenti che hanno inciso culturalmente nella percezione di guerre lontane – nel 1904 fu fotografato un uomo congolese mentre guarda una mano e un piede appartenenti a sua figlia, appena uccisa da alcuni uomini di una società belga; nel 1972 un’altra foto molto famosa raffigurò una bambina vietnamita nuda, in lacrime, mentre corre dopo un attacco al napalm – e nonostante la grande circolazione di foto e video provenienti dalla Siria, secondo un recente sondaggio di Abc News e del Washington Post circa il 64 per cento degli americani contattati sarebbe contrario a intervenire in Siria per fermare le violenze: secondo Kennicott questo fatto ha a che fare con una crisi politica e assieme artistica. «Non è più possibile definire cosa sia un comportamento civilizzato né avere fiducia nel significato delle immagini».
Prendendo come esempio la foto della bambina vietnamita scattata nel 1972, Kennicott dice che è diventata una sorta di icona generica, «un potente oggetto estetico slegato da una particolare guerra o una particolare atrocità». Kennicott continua spiegando che le foto dei bambini, in particolare, «sono soggette a una particolare “inflazione emotiva”: perdono potere se vengono usate troppo spesso o se non viene data alcuna indicazione riguardo a come incanalare i sentimenti che provocano».
Nella Corazzata Potëmkin, subito dopo la scena della madre e del figlio, Ejzenštejn inserisce una scena – se possibile – ancora più famosa e drammatica: la progressiva e angosciante caduta di un passeggino per la scalinata, senza che nessuno riesca a impedire che sbandi o che aumenti la propria velocità. La stessa cosa è successa in relazione all’utilizzo delle immagini di bambini in contesti di guerra: secondo Kennicott «immagini così estreme sono destinate a sgonfiarsi da sé: dopo che ne hai utilizzata una, l’unica opzione è la ripetizione, l’aumento di intensità. Cose del genere provocano forti emozioni ma non favoriscono la comprensione di ciò che si sta vedendo».
Riguardo alla Siria, Kennicott aggiunge che «l’unico fatto accertato riguardo le orribili immagini che arrivano da lì è che in molti casi non sappiamo chi le abbia fatte e cosa sia di preciso il soggetto delle immagini. Tutto ciò che vediamo è miseria e crudeltà decontestualizzata, cosa che può generare un certo cinismo e la volontà di etichettare situazioni del genere come un problema irrisolvibile».
Conclude infine Kennicott: «questa è la situazione in cui ci troviamo: un ecosistema di immagini e di decenza che è stato irrimediabilmente inquinato». Nel caso delle fotografie che arrivano da lontano e che riguardano potenziali interventi militari, l’inquinamento si deve anche a quanto accaduto con l’Iraq: «la guerra in Iraq è stata venduta agli americani sulla base di alcune fotografie satellitari che dovevano mostrare le prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa: quando la loro veridicità si è dissolta, forse si è dissolta con lei anche la nostra paura di armi del genere». E la fiducia nelle fotografie che arrivano da scenari di guerra, autentiche o no.