La volta che gli Stati Uniti quasi abolirono la pena di morte
Era il 1972, la Corte Suprema la sospese per quattro anni ma poi fu vittima di «un capolavoro di manipolazione»
di Rossella Quaranta – @genevris
Nella prima metà degli anni Settanta la Corte Suprema statunitense fu molto vicina ad abolire definitivamente la pena di morte in quanto incostituzionale; alla fine si limitò a sospenderla per quattro anni, tra il 1972 e il 1976. La storia di quest’occasione mancata è raccontata nel libro Wild Justice di Evan Mandery, da poco pubblicato negli Stati Uniti e riassunto in un articolo su Slate.
Mandery racconta che il primo serio dibattito sulla legittimità costituzionale della pena di morte iniziò nel 1963, quando il giudice della Corte Suprema Arthur Goldberg chiese a un suo consigliere, Alan Dershowitz, di scrivere una relazione per spiegare perché la pena di morte violava l’Ottavo emendamento della Costituzione statunitense. Quando Goldberg incaricò il suo assistente di scrivere il rapporto, l’idea che la pena capitale potesse essere anticostituzionale sembrò piuttosto «fantasiosa»: fin dalla loro fondazione negli Stati Uniti la pena di morte era stata sempre applicata, senza grandi discussioni.
L’Ottavo emendamento stabilisce che non si possano «richiedere cauzioni eccessive, né imporre ammende eccessive, né infliggere pene crudeli e inusitate». È il principio su cui si fondano le tesi degli abolizionisti, nonché quello che ha determinato negli anni l’abbandono di metodi violenti nelle esecuzioni, come l’impiccagione e la fucilazione, e la decisione presa dalla Corte Suprema di proibire le condanne a morte di persone affette da disturbi mentali (2003) o minorenni (2005). La corrente favorevole alla pena di morte fa invece riferimento al Quinto e al Quattordicesimo emendamento (per cui nessun imputato può essere «privato della vita […] senza un regolare procedimento legale») che sottintendono entrambi la pena capitale.
Tra i risultati della ricerca di Dershowitz venne fuori soprattutto la notevole discriminazione razziale con cui era applicata la pena: i condannati erano soprattutto neri, le vittime dei reati commessi erano soprattutto bianche. Earl Warren, che allora era il presidente della Corte Suprema, chiese al giudice Goldberg di non rendere pubblico il documento, perché era convinto che – nonostante le disparità con cui era applicata – la pena di morte fosse costituzionalmente legittima. Goldberg si limitò a scrivere un breve testo in cui sosteneva che fosse una punizione eccessiva per il reato di stupro e, di fatto, la questione della crudeltà proibita dall’Ottavo emendamento non venne approfondita.
La sospensione delle condanne
Il dibattito si riaprì nel 1972 con il caso “Furman contro Georgia”, che portò la Corte Suprema a sospendere la pena capitale in tutti gli stati federali per i successivi quattro anni. L’imputato, William Henry Furman, era stato accusato di omicidio per la morte del proprietario di un appartamento durante una rapina. Furman si contraddisse sulla successione dei fatti e arrivò a sostenere che si fosse trattato di un incidente: disse che era inciampato mentre cercava di scappare e dall’arma era partito un colpo. Alla fine di un processo durato un solo giorno, la giuria lo reputò «emozionalmente disperato e mentalmente compromesso», ma lo condannò comunque alla pena di morte. L’avvocato di Furman, Tony Amsterdam, si appellò alla Corte Suprema chiedendo che la pena venisse rivista. Il processo fu scelto insieme ad altri tre casi (due stupri e un omicidio) per valutare la costituzionalità della pena di morte in una serie di circostanze diverse.
Nel 1972 l’allora presidente repubblicano Richard Nixon aveva già introdotto nella Corte quattro giudici di sua nomina, tra cui il presidente Warren Burger nel 1969, tutti favorevoli alla pena di morte. Dei nove giudici membri, soltanto uno – William Brennan – era noto per la sua posizione apertamente abolizionista: sulla carta, le probabilità che la posizione di Furman ottenesse almeno 5 voti a favore su 9 erano molto basse. Eppure altri giudici avevano manifestato dubbi, in particolare Thurgood Marshall e William O. Douglas (rispettivamente, il primo giudice afroamericano della Corte Suprema e quello rimasto in carica più a lungo, dal 1939). I restanti due possibili voti favorevoli erano quelli dei giudici Potter Stewart e Byron White: entrambi erano restii a imporre dall’alto un cambiamento sociale così profondo, ma Stewart aveva già espresso alcuni scrupoli morali sulla pena di morte e Amsterdam sperava di far leva su questo.
Amsterdam consegnò alla Corte quattro pagine di statistiche per mostrare che il sistema era discriminatorio e arbitrario, perché l’applicazione della pena capitale era sporadica e affidata alla discrezione di una giuria. La tesi convinse i giudici Stewart e White, tanto che quest’ultimo definì la pena di morte “inammissibile” e sostenne di non essere affatto convinto che potesse essere applicata in maniera equa. Quando ormai era chiaro che Amsterdam avrebbe ottenuto i cinque voti che gli servivano per abolire la pena di morte, il presidente della Corte Suprema Warren Burger intervenne con quello che Slate chiama «un capolavoro di manipolazione».
«Un capolavoro di manipolazione»
La legge prevede che la Corte Suprema, ogni volta che viene interpellata, esprima un’opinione scritta ufficiale. L’opinione ha il valore di una sentenza: la scrive uno dei nove giudici e farlo è considerato un privilegio. Il compito viene affidato caso per caso al giudice più anziano all’interno della maggioranza o al presidente della Corte Suprema, qualora abbia votato con la maggioranza. Il presidente, a sua volta, può scegliere se scrivere l’opinione o assegnare il compito a un altro membro della maggioranza.
Il presidente Warren Burger sfruttò questa possibilità annunciando che avrebbe cambiato il proprio voto passando alla maggioranza – cioè con i favorevoli all’abolizione della pena di morte, benché lui non lo fosse – così da poter decidere a chi assegnare la paternità dell’opinione. Dopodiché impose a tutti i nove giudici di scrivere un’opinione, sostenendo che non era emersa nessuna logica coerente tale da giustificare una posizione maggioritaria. I giudici scrissero in tutto oltre 230 pagine: l’opinione della maggioranza, contro la pena di morte, finì per non essere unitaria e omogenea. Anche se i pareri erano simili, nessuno dei cinque giudici si unì all’opinione dell’altro. Mentre i giudici Brennan e Marshall si schierarono a favore dell’abolizione definitiva della pena di morte, la posizione predominante risultò quella di Stewart, White e Douglas, che di fatto stabiliva soltanto che la pena di morte era «crudele e inusitata» per come veniva applicata in quel preciso momento storico.
In particolare, si legge nel libro di Mandery, la posizione predominante fu dovuta a un compromesso tra Stewart e White, raggiunto durante una riunione a porte chiuse. Stewart si sarebbe impegnato a mettere da parte i propri dubbi morali sulla pena di morte, abbozzando un’opinione contro la sua applicazione specifica nello stato della Georgia, perché arbitraria; White, da parte sua, avrebbe dato il quinto voto decisivo e avrebbe scritto che la pena di morte, al momento, non poteva realizzare alcuno scopo sociale perché non veniva applicata abbastanza spesso. In altri termini, evidenzia Mandery, l’opinione scritta da White fece passare il messaggio che, se gli Stati Uniti avessero mandato a morte più persone, la pena sarebbe potuta tornare costituzionale.
Anche se indebolita, però, l’opinione della maggioranza dei giudici era comunque contraria alla pena di morte: la Corte Suprema decise così di sospendere le esecuzioni in tutto il territorio statunitense.
Quattro anni
La notizia fu accolta benissimo dall’opinione pubblica di sinistra, ma la tregua durò solo quattro anni, fino al 1976. In quegli anni l’opinione pubblica era divisa in parti abbastanza uguali sulla pena di morte, e secondo i sondaggi negli anni Sessanta la maggioranza della popolazione era a favore dell’abolizione. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, però, la società statunitense entrò in un profondo periodo di crisi. Finiti gli anni dell’espansione economica, la crescente disoccupazione portò a un incremento dei crimini violenti: l’amministrazione Nixon insistette molto sull’importanza della sicurezza e gran parte dell’opinione pubblica cominciò a chiedere il ripristino della pena di morte. Nei quattro anni di sospensione della pene di morte, 35 stati approvarono nuove leggi che cercavano, con risultati diversi, di regolarne l’applicazione e di svincolarla dall’arbitrarietà della giuria. Furono previsti, per esempio, alcuni fattori aggravanti “oggettivi” che i giudici avrebbero dovuto tenere in considerazione nei casi di omicidio.
Nel 1976 la Corte Suprema si ritrovò a valutare cinque di questi statuti, ma non intervenne né contro la nuova legge della Florida né contro quella del Texas, tuttora tra gli stati in cui la pena di morte è maggiormente utilizzata. Lo statuto della Florida invertiva l’onere della prova, prevedendo che fossero i legali della difesa a dover presentare prove attenuanti contro la pena di morte, e non viceversa. Lo statuto del Texas, anch’esso approvato dalla Corte Suprema, prevedeva invece che la giuria si ponesse tre domande, una delle quali riguardava la possibilità che l’imputato commettesse un altro crimine violento. In caso di risposta affermativa ad almeno una delle tre domande, la pena di morte diventava pressoché obbligatoria.
Approvando i nuovi statuti, la Corte Suprema stabilì di fatto che la pena di morte era di nuovo costituzionalmente legittima: non per tutte le tipologie di omicidio, ma soltanto per quelle con le aggravanti (non per semplici stupri, rapine o rapimenti, come invece avveniva in alcuni stati prima del caso Furman). Sono considerati sufficientemente gravi l’omicidio multiplo o “depravato”, quello commesso per denaro o, ancora, quello commesso durante lo svolgimento di un altro crimine. Da allora, inoltre, le condanne a morte devono essere divise in due parti: un primo processo in cui si emette il verdetto di colpevolezza o non colpevolezza e un secondo processo (chiamato sentencing) in cui la giuria valuta aggravanti e attenuanti, stabilendo se condannare l’imputato alla pena di morte.
La pena di morte oggi
Attualmente negli Stati Uniti le esecuzioni sono in calo quasi ovunque e sono state di fatto abolite in 18 stati (tra cui Minnesota, New Jersey e Illinois), mentre altri 5 stati applicano una moratoria di fatto (New Hampshire, Kansas, Oregon, Arkansas e Kentucky). Gli altri 27 ricorrono alla pena capitale più o meno regolarmente, il Texas più di tutti. Il metodo scelto può dipendere anche dalle volontà del condannato: il più utilizzato rimane l’iniezione letale ma nove stati (tra cui Alabama e Florida) possono prevedere in alternativa la sedia elettrica e altri cinque la camera a gas (tra cui Arizona e California). Impiccagione e plotone d’esecuzione restano validi in quattro stati.
In controtendenza con il resto degli Stati Uniti resta la Florida, che lo scorso giugno ha approvato una legge chiamata Timely Justice Act per ridurre i tempi tra sentenza e applicazione della pena. Il provvedimento prevede che il governatore debba firmare l’ordine di condanna a morte entro 30 giorni a partire dal momento in cui il procedimento di appello si è definitivamente concluso. Inoltre, una volta che il governatore ha firmato l’ordine, la condanna deve essere eseguita entro 180 giorni. La cosa singolare è che proprio la Florida detiene il record di detenuti graziati, 24 dal 1977, e in tutti i casi le prove che hanno scagionato i detenuti sono emerse soltanto molti anni dopo l’incarcerazione. Il problema, inoltre, è che la Florida è l’unico stato americano in cui basta la maggioranza semplice della giuria (quindi 7 contro 5) per decidere una condanna a morte. In tutti gli altri stati, eccetto l’Alabama che richiede un minimo di 10 voti, è necessaria l’unanimità.
L’opinione pubblica statunitense continua a essere in maggioranza favorevole alla pena di morte, dicono le rilevazioni storiche dell’istituto Gallup, sebbene non quanto lo fosse negli anni Ottanta e Novanta.
Foto: Un’attivista contro la pena di morte davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti a Washington DC, nel giugno del 2009 (TIM SLOAN/AFP/Getty Images)