L’ultima monarchia assoluta dell’Africa
Lo Swaziland, dove le cose vanno parecchio male, racconta l'Economist, ma forse qualcosa sta cambiando
L’Economist ha raccontato in un articolo piuttosto ironico la storia recente dello Swaziland, l’ultima monarchia assoluta dell’Africa, che si trova in un periodo di grandi cambiamenti. A partire dal nome della sua forma di governo. Il 30 agosto, il re Mswati III ha detto di aver ricevuto una visione da Dio: il paese non sarà più una monarchia assoluta, ma una “democrazia monarchica”.
Chatham House, un think-tank con base a Londra specializzato in affari internazionali, ha svolto alcune indagini per scoprire cosa intendesse dire il re secondo gli abitanti dello Swaziland, uno staterello grande poco più dell’Abruzzo. Nessuno è sembrato troppo sicuro della risposta. Di certo, sulla forma attuale di governo del paese non ci sono molti dubbi: nonostante si terranno le elezioni parlamentari il 20 settembre «è fin troppo facile sottolineare la loro irrilevanza. I partiti politici sono vietati», scrive l’Economist.
I candidati vengono scelti tramite una serie di elezioni primarie. Come se non bastasse, su 65 membri della camera bassa, 10 sono scelti direttamente dal re, che sceglie anche due terzi dei membri del senato, dove si prendono tutte le decisioni più importanti. Ma gli esperti della Chatham House dicono che effettivamente queste elezioni potrebbero essere più significative del solito. Alle primarie partecipano molti candidati “riformisti” e anche il misterioso “sogno del re” potrebbe preludere a una serie di cambiamenti nel governo del paese.
Che di cambiamenti ci sia bisogno in Swaziland, secondo l’Economist, è evidente. Il paese si trova nell’Africa meridionale ed è circondato dal Sudafrica a nord, sud e ovest e confina con il Mozambico ad est. Ha circa 1,2 milioni di abitanti e un PIL di circa 3 miliardi di euro. La spese principali dello stato riguardano proprio il mantenimento del re, delle sue 14 mogli e dei numerosi figli, delle cortigiane e dei figli delle cortigiane. Costano parecchio anche le 13 ville reali e i numerosi servizi di sicurezza.
A fronte di tutte queste spese, le entrate sono povere. La fetta principale arriva dalle tasse sull’industria zuccheriera, che però si trova in crisi, guadagna sempre meno e paga quindi sempre meno imposte. Lo Swaziland fa parte di un’unione doganale con i vicini Sudafrica, Namibia e Lesotho, e grazie a questo accordo ottiene rendite sproporzionate al suo contributo. Ma questa fonte di entrate potrebbe inaridirsi, se i vicini decidessero di smettere di essere così generosi.
L’unica altra entrata significativa del governo sono i circa i 150 milioni di euro di aiuti che riceve da Taiwan. In cambio, scrive l’Economist, «dice cose carine all’ONU a proposito del suo benefattore e rimane fuori dalla sfera d’influenza cinese in Africa. Non che ci sia molto in Swaziland che possa interessare alla Cina».
Lo Swaziland, infatti, è un paese povero anche per gli standard africani. Più del 60 per cento degli abitanti vive sotto la soglia di povertà assoluta – anche se questo numero è diminuito negli ultimi anni. Un quarto della forza lavoro è disoccupata. Almeno il 31 per cento della popolazione ha l’HIV, la più alta percentuale del mondo. Accanto a questi problemi, ci sono tutti quelli che affliggono gran parte dei paesi africani: corruzione pervasiva, tribunali inefficienti, assenza di infrastrutture.
Non è ancora chiaro se i cambiamenti in corso saranno veramente messi in atto e nemmeno se porteranno a quei miglioramenti di cui il paese ha bisogno. In ogni caso, così come stanno le cose le finanze del paese non sono sostenibili, conclude l’Economist: «E quando le cose non riescono ad andare avanti si fermano. Di solito con un brutto tonfo».